Sama’ Abdulhadi, la DJ palestinese che sfida il silenzio (lespresso.it)

di Emanuele Coen

Musica

Sama’ Abdulhadi è la deejay di Ramallah più famosa al mondo. E un’attivista: i suoi concerti e canali social promuovono esperienze di emarginazione e di speranza.

Noi palestinesi abbiamo sempre speranza. Nessun colonialismo o ingiustizia durano all’infinito. Combatteremo per sempre per la nostra libertà». Il tono della voce è duro ma pacato: Sama’ Abdulhadi, capelli neri e sguardo intenso, è un’attivista ma anche la deejay palestinese più nota nel mondo, tanto che in molti la chiamano la regina della techno palestinese («berlinese, ma la percepisco alla libanese», precisa lei) per il ritmo trascinante della sua musica, i battiti profondi che inducono a ballare, i suoni elettronici ipnotici e liquidi che l’hanno resa famosa, soprattutto in Gran Bretagna.

A Roma si è esibita lo scorso 14 settembre all’ultima edizione dello Spring Attitude Festival. «Da palestinese, la prima cosa che impari è che probabilmente morirai. Devi impegnarti perché la tua vita potrebbe finire tra dieci minuti», ha dichiarato qualche tempo fa al quotidiano britannico The Guardian.

La deejay è nata in Giordania da una famiglia costretta dall’esercito israeliano a lasciare la propria terra dopo che sua nonna, Issam Abdulhadi, una delle principali attiviste per i diritti delle donne palestinesi, aveva organizzato un sit-in e uno sciopero della fame. Poi è tornata a Ramallah, in Cisgiordania, e in seguito ha vissuto in diverse città del Medio Oriente.

Ma da bambina com’era? «Con la guerra e tutto il resto non era così facile esserlo ma mi davo da fare, ero molto attiva e sempre in giro», racconta la dj: «Soprattutto, facevo un sacco di sport e appena possibile ballavo, con gruppi di musica “dabka” (musica popolare folkloristica diffusa e ballata in Medio Oriente, ndr) e mi dilettavo di danza hip-hop e breakdance».

E perché da adolescente si è avvicinata alla musica techno? «All’inizio ascoltavo tutt’altro, rap e rock. Quando poi ho ascoltato la techno e i sintetizzatori tutto è cambiato. La musica techno mi ha affascinato, non capivo i suoni ma questo mi è piaciuto molto e mi sono immersa fino in fondo. Non avrei mai immaginato che sarebbe diventata la mia professione».

Difficile pensare alla carriera di una dj in Palestina, del resto, ora come allora. «Non era una carriera, neanche per sogno. Lo facevo per conto mio insieme a un gruppo di amici, non per soldi. Suonavamo in bar e spazi improvvisati», aggiunge. Dopo aver cambiato spesso città, oggi abita a Parigi.

«È famosa per i rave che durano all’infinito», prosegue Abdulhadi: «Prima vivevo al Cairo: l’Egitto, come molti sanno, è la culla delle arti nel mondo arabo e forse nel mondo intero. Una città che non dorme mai, mi fa quest’effetto ma è la sua vera essenza e mi piace anche per questo. Lì ho imparato i trucchi per non dormire mai». Ha vissuto anche a Londra, centro nevralgico della musica internazionale.

«È stato un periodo fantastico, inciso per sempre nella mia memoria. Lì ho potuto ascoltare tutte le musiche del mondo e tutti i dj che ho potuto. Peccato che a Londra hai bisogno del visto anche per andare in bagno», ironizza la dj, alludendo alle norme sempre più restrittive per entrare nel Regno Unito.

«Prima ancora, nel 2009, mi trovavo ad Amman, in Giordania, ma purtroppo da quelle parti all’epoca la musica elettronica non era molto conosciuta», aggiunge: «Ora invece per fortuna le cose sono cambiate, devo dire in fretta, e oggi esiste una buona scena di dj locali. Ma trovo che il posto più interessante per un dj sia il Libano e in particolare Beirut, che ospita la migliore scena del mondo e alcuni tra i dj più talentuosi che abbia mai ascoltato».

La vera chiave di volta però risale al 2018. A Ramallah, in Cisgiordania, realizza davanti a una telecamera fissa il suo Boiler Room, dj set lungo quasi un’ora trasmesso gratuitamente in streaming, che con oltre dieci milioni di visualizzazioni la fa salire ai piani alti dell’elettronica.

Partecipa a decine di festival tra cui Coachella, Glastonbury e Phonox, che le aprono la strada a importanti collaborazioni, tra cui quella con Tom Morello, storico chitarrista dei Rage Against the Machine. Con la notorietà arriva anche qualche guaio.

Nel 2020, mentre registra in un bazar vicino a una moschea, la star della console viene arrestata dalla polizia palestinese e detenuta illegalmente in carcere per otto giorni con l’accusa di “profanazione di un luogo sacro”, nonostante avesse un permesso del ministero del Turismo. Viene rilasciata grazie a una petizione su Change.org che raccoglie oltre 101.000 firme.

La sua è tuttora una vita divisa in due, perché continua a difendere i diritti del suo popolo, a maggior ragione ora che a Gaza oltre 40mila persone sono state uccise dalle forze armate israeliane. Una strage di civili senza precedenti nella regione, cominciata all’indomani del 7 ottobre 2023, quando i terroristi di Hamas hanno attaccato il Festival Supernova di musica trance, a circa cinque chilometri dal confine con la Striscia di Gaza, compiendo un atroce massacro: 364 persone uccise sul posto, circa 200 rapite, moltissime donne stuprate e poi uccise. Un rave party affollato di giovani, come tanti a cui ha partecipato la dj nella sua carriera. Una strage, tuttavia, che Abdulhadi preferisce non commentare.

Adesso la dj, attraverso i suoi concerti e i suoi canali social, raccoglie fondi, promuove campagne di sensibilizzazione, lancia progetti come “Resilience”, piattaforma globale per artisti e creativi per condividere le loro storie e opere d’arte che testimoniano esperienze di emarginazione, sfollamento e oppressione.

«Dopo il 7 ottobre purtroppo tutto si è fermato, ma ora sento il bisogno e l’urgenza di far ripartire le cose tutti insieme», conclude Abdulhadi: «Purtroppo il numero di artisti che aderiscono al progetto si riduce di giorno in giorno e il supporto alla causa palestinese è troppo debole. Ma andiamo avanti».

Un’arma a doppio taglio (corriere.it)

di Antonio Polito

Firme e referendum

Se si possono raccogliere le firme per un referendum come si fa con le petizioni online o con i like sui social, è un bene o un male per la democrazia?

All’apparenza sembrerebbe senza ombra di dubbio un bene. Il sistema digitale, utilizzato per la prima volta con successo dai promotori del referendum per dimezzare i tempi della cittadinanza agli stranieri residenti, è certamente più pratico e semplice di prima, quando le 500 mila firme andavano apposte davanti a un notaio, un cancelliere o un segretario comunale.

Costava fatica e sudore, e molte volte i promotori non ce l’hanno fatta. Da poche settimane basta invece andare su una piattaforma digitale offerta dal ministero della Giustizia. E infatti per questo primo esperimento di «referendum-speedy gonzales» negli ultimi due giorni le firme sono piovute al sorprendente ritmo di diecimila all’ora.

E neanche a dire che sia solo il mezzo utilizzato la ragione di tanto successo. Se andate sullo stesso portale troverete infatti molte altre proposte referendarie, per esempio contro la sperimentazione sugli animali, contro la caccia, per abolire le candidature plurime o modificare le leggi elettorali vigenti, che hanno invece ottenuto appena qualche decina di migliaia di firme.

Vuol dire che, oltre al mezzo, deve aver contato eccome anche il messaggio per chi ha firmato quello sulla cittadinanza, oltretutto veicolato da numerose star dello show business e della politica.

Ha nno infatti aderito da Ghali a Elly Schlein, da Zerocalcare a Matteo Renzi, da Julio Velasco a Carlo Calenda. Tra l’altro firmare proprio facile non è: perché bisogna comunque cercarsi il sito, sfogliare le proposte, arrivare (nel caso in questione) alla sesta pagina, lasciarsi attrarre dall’efficacia del titolo scelto dai promotori.

La proposta che è passata era insomma indubbiamente popolare. E, checché ne dica la premier Meloni, la legge che intende modificare è sicuramente meritevole di cambiamenti, come del resto sostiene anche Forza Italia; meglio ancora se ponderati e decisi dal Parlamento, che in fin dei conti paghiamo proprio per fare buone leggi, e presso il quale giacciono già numerose proposte e altre ne arriveranno.

E però cinquecentomila è pur sempre una piccola minoranza. Anche più piccola di quanto avrebbe rappresentato lo stesso numero di firme se raccolto ai banchetti alla vecchia maniera: ogni adesione richiedeva infatti allora un tale impegno da valerne tre o quattro di quelle di oggi. Quindi l’asticella per i promotori di referendum si è abbassata di molto.

E se oggi festeggia la sinistra, domani potrebbe dolersene. Niente impedirebbe, per esempio, ai seguaci di Vannacci (manco a farlo apposta cinquecentomila preferenze alle europee) di indire un giorno un proprio referendum per allungare invece i tempi della cittadinanza, o magari negarla addirittura a persone che a loro giudizio non rappresentassero somaticamente il fenotipo italiano.

Voglio dire che se si comincia così, se si può così facilmente mobilitare l’opinione pubblica, guidando per almeno qualche giorno il dibattito politico, si attribuisce a piccole minoranze attive un potere troppo grande. Che poi dovrà comunque misurarsi con la necessitò di portare alle urne la bellezza di 24 milioni di italiani affinché il referendum raggiunga il quorum e sia perciò valido.

Una sproporzione assurda, destinata a moltiplicare questo genere di «tentati referendum»: anche se poi vengono bocciati dalla Consulta (pure quello sulla cittadinanza rischia, per via del «taglia e cuci» legislativo del quesito), anche se poi falliscono quasi certamente il quorum, funzionano comunque come iniziative di propaganda e mobilitazione a costo zero. Chi ci rinuncerebbe?

Inutile dire che in tal modo si svuoterebbe ulteriormente di valore lo strumento referendario: se capiscono che serve solo a ottenere un quarto d’ora di celebrità, gli elettori non lo prenderanno sul serio. E si indebolirebbe così ancora di più uno strumento di democrazia diretta che già in Italia abbiamo inflazionato, e che invece meriterebbe piuttosto di essere rafforzato, di fronte all’evidente crisi della democrazia rappresentativa.

Rischiamo una situazione in cui piccole minoranze avrebbero il potere sia di convocare i referendum con la facilità delle firme online, sia di farli fallire nelle urne aggiungendosi all’astensionismo da apatia.

Lo sfondamento online del tabù delle firme, cosa in sé buona e giusta, richiede dunque di rilanciare un paio di correzioni da tempo proposte, tra gli altri anche dall’attuale presidente della Corte costituzionale Augusto Barbera.

Per alzare l’asticella in entrata, prevedendo almeno un milione o anche più di firme digitali necessarie a innescare il processo referendario; e per abbassare al contempo l’asticella in uscita, ridimensionando il quorum richiesto per la validità della consultazione, ad esempio fissandolo non alla metà degli aventi diritto, come è oggi, ma alla metà di chi è andato a votare alle ultime elezioni politiche.

Altrimenti non avremo più referendum, ma solo più referendum finti. Dunque non più democrazia, ma meno .

L’Austria torna al passato mentre gli elettori abbracciano il partito di estrema destra fondato dai nazisti (politico.eu)

di Matthew Karnitschnig

Nazismo

Il Partito della Libertà, euroscettico, promette di erigere la “Fortezza Austria” e sostiene che il risultato elettorale gli dà il diritto di guidare il prossimo governo del paese.

«Il modello Italia contro l’immigrazione è un bluff» (metronews.it)

di Patrizia Pertuso

Diritti

Nei giorni scorsi il Primo Ministro britannico Keir Starmer ha incontrato a Roma la Presidente del Consiglio Giorgia Meloni per conoscere l’approccio dell’esecutivo “volto ad arrestare l’immigrazione irregolare di massa” sostenendo che «qui (in Italia, ndr) ci sono state delle riduzioni piuttosto drastiche.

Voglio capire come è successo». Di questo abbiamo parlato con Bruno Milone, docente di Sociologia dell’immigrazione presso la Scuola Superiore per Mediatori Linguistici “P.M. Loria” di Milano.

Prima di tutto, a livello sociologico di cosa parliamo quando parliamo di immigrazione illegale?

«L’Italia è sottoposta a una pressione demografica prevalentemente dall’Africa anche se un quinto degli ultimi sbarchi sulle coste italiane, secondo i dati dell’Idos e dell’Ismu, provengono dal Bangladesh. Nei primi sei mesi di quest’anno il numero degli sbarchi clandestini è diminuito rispetto all’anno scorso: dal primo gennaio al 30 giugno 2024 ci sono stati 25 mila sbarchi mentre l’anno scorso erano 65 mila nello stesso periodo.

Detta così, sarebbero più della metà, ma la questione è che l’arrivo sulle nostre coste è determinato da fattori che molto spesso non dipendono da provvedimenti del governo tanto è vero che questa stessa cifra si riscontra nel 2022 con circa 27 mila sbarchi e nel 2021 quando era in carica il governo Draghi. Presentare come un successo questo calo di sbarchi è un po’ prematuro perché bisogna vedere cosa succede nel lungo periodo.

La crisi dei rifugiati, come è stata chiamata nel 2016 e nel 2017, è una crisi determinata da numerose altre crisi internazionali compresa la Siria e la Libia, per esempio. E queste situazioni di crisi internazionali hanno determinato un incremento dei rifugiati. L’arrivo sulle coste degli illegali è quindi determinato da fattori esterni non solo legati alla presenza di un governo amico o nemico.

Bisogna poi tener presente che il fatto che la rotta centrale mediterranea sia più complicata da raggiungere non ha determinato una diminuzione nella presenza degli arrivi illegali perché ci sono le partenze dalla Tunisia con i barchini che non vengono registrate: sono piccole barche che approdano sulle nostre coste e gli immigrati vengono accolti dagli emissari del traffico clandestino.

Poi, ci sono gli irregolari che arrivano con le barche da turismo dalla Grecia alla Puglia e, dato il flusso costante che c’è di natanti turistici, non vengono censiti. Inoltre, il governo non fornisce dati sulla rotta balcanica cioè sugli ingressi in Italia via terra».

Una sorta di immigrazione sommersa.

«Certo. Non fornendo questi dati il governo tende a presentare questi cali come un successo. Non registrare quelli via terra o non tener conto di altre forme o modalità di sbarco fa la differenza. È vero che sono difficili da individuare però la rotta del Mediterraneo è ancora molto attiva».

Ci sa dare dei dati precisi?

«La Siria ha registrato 5 milioni di profughi e il 70% di questi sono nei paesi vicini, Giordania, Libano e Turchia. Quando parte di loro, durante la guerra in Siria che è durata parecchi anni, ha deciso di cercare di arrivare in Occidente c’è stato un movimento molto significativo.

Una parte della crisi dei rifugiati degli anni 2016 di cui parlavo prima è dovuta proprio alla presenza di quelli siriani. Altra questione riguarda il cosiddetto “modello italiano”. Esternalizzare le frontiere è la politica costante dell’Unione Europea da quando si è determinato il fenomeno migratorio dovuto alla creazione dell’area di Schengen per cui una persona, arrivata in un punto dell’Italia o della Spagna, può poi andare ovunque in Europa.

La rotta mediterranea centrale si è aperta quando c’è stata la crisi libica. Prima, la rotta preferita era da Cento e Melilla in Marocco verso la Spagna. La Germania paga la Turchia, l’Italia pagava la Libia, la Spagna, il Marocco, e la Francia la Tunisia. Esternalizzare le frontiere è sempre stato uno dei modi per cercare di bloccare l’immigrazione cosiddetta clandestina soprattutto nell’area del Mediterraneo. Anche l’accordo con l’Albania non è per niente una novità».

Si riferisce ai centri per i migranti in Albania?

«Esattamente. In Albania ci sono due centri: uno per l’accoglienza e uno per i respingimenti. Nell’accoglienza vengono effettuati i riconoscimenti, ed è lì che viene riconosciuto o meno lo stato di rifugiato. Chi non lo ottiene passa nel secondo centro. Questo modello è stato copiato dall’accordo fatto nel 2012 dall’Australia con la Papua Nuova Guinea.

L’Australia aveva costruito in Papua Nuova Guinea due centri dove trasferire gli immigrati irregolari. Questi centri sono poi finiti nel mirino delle società umanitarie e dell’Onu perché erano sovraffollati, non garantivano alcuna sicurezza né aiuti sanitari ai presenti, oltre al fatto che tutte le pratiche per il riconoscimento dei rifugiati non venivano svolte in modo celere. Sono stati chiusi nel 2021».

Mi sta dicendo che il modello Italia è un bluff copiato da altri Paesi?

«Il “modello Italia” è un bluff. Quando venne firmato l’accordo fra l’Australia e la Papua Nuova Guinea ricordo che tutte le forze contrarie all’immigrazione lo presentarono come la nuova arma per la lotta all’immigrazione stessa. Poi, col tempo, si è rivelato un bluff.

Questi centri raccoglievano molto spesso più del doppio delle persone che erano in grado di ospitare. Anche per i centri in Albania i numeri non sono mai stati resi pubblici: gli stessi albanesi parlano al massimo di poche migliaia di persone; qui in Italia, invece, se ne parla come se ne potessero accogliere oltre 10 mila.

L’esperimento australiano, anche se passarono 19 anni prima della sua chiusura, fallì per il sovraffollamento, per la mancanza di sicurezza e per questioni sanitarie come dicevo prima: quei centri sono stati chiusi perché non garantivano il minimo dignitoso di quelli che chiamiamo ancora, fino a prova contraria, i diritti umani.

La questione del “modello Italia” è più una questione propagandistica che altro: se guardiamo alla storia, l’esternalizzazione delle frontiere fa parte della lotta all’immigrazione irregolare. Ma è sempre stato un fallimento. Il problema dell’immigrazione è che sembra si concentri sulla questione dell’immigrazione clandestina quando invece rispetto al fenomeno dell’emigrazione ne è solo una piccola parte».

Anche in questo caso le chiederei i dati.

«In Italia ci sono 5 milioni di immigrati. Quando parliamo di irregolarità/clandestinità abbiamo delle cifre che, secondo le questure o l’Ismu, si aggirano tra le 400 e le 500 mila persone. Il dibattito sembra si sia concentrato sulla questione dell’immigrazione clandestina.

Da questo punto di vista siamo alla schizofrenia: da un lato ci sono categorie sociali, come gli imprenditori, che chiedono un aumento dell’immigrazione controllata perché hanno difficoltà a reperire lavoratori in parecchi settori a causa del calo demografico e dell’aumento dell’emigrazione, fattori che portano a una drammatica situazione dal punto di vista della sostenibilità, del sistema pensionistico, del welfare, della sostenibilità economica. Dall’altro lato, abbiamo una politica concentrata sulla lotta contro l’immigrazione clandestina».

Facciamo chiarezza sui termini: cosa si intende per clandestino e per irregolare?

«Il clandestino è chi si introduce clandestinamente nel territorio nazionale. L’irregolare può essere chi ha perso il permesso di soggiorno o anche chi non lo ha rinnovato».

È giusto avvicinare questi due termini?

«Assolutamente no perché ci sono parecchi motivi per cui si può cadere nell’illegalità senza per questo essere entrato clandestinamente nel nostro Paese».

Ha detto che, in base al calo demografico e all’emigrazione, si hanno difficoltà a reperire lavoratori. Ci sono anche immigrati che vengono visti come forza lavoro, sottopagati, lasciati vivere in condizioni più che precarie o addirittura lasciati morire. Ritiene che queste notizie arrivino a chi decide di sbarcare da noi?

«L’Italia ha perso negli ultimi anni un certo appeal per quanto riguarda il Paese dove emigrare: uno rischia la vita e poi finisce a lavorare con i caporali nel Mezzogiorno d’Italia. Stiamo tornando ad essere un paese di transito. Infatti da un quinquennio l’immigrazione rimane ferma attorno ai 5 milioni. Certo, ci sono stati degli arrivi, ma sono dovuti a ricongiungimenti familiari, a immigrazioni forzate come, per esempio, quelle dall’Ucraina.

Per quanto riguarda la diffusione delle notizie di cronaca, il passaparola c’è. Gli immigrati, spesso, sanno tutto ma accettano certi lavori perché devono mandare soldi alla famiglia. Poi ci sono le richieste di cittadinanza che si sono stabilizzate intorno alle 100 mila l’anno. Abbiamo ancora una legge sulla cittadinanza di 30 anni fa per cui vale ancora lo ius sanguinis: un immigrato argentino, per esempio, che ha un antenato italiano che non ha perso la cittadinanza italiana, anche se risale a due generazioni precedenti, può recuperarla.

È una cosa già avvenuta in America Latina. L’incremento che c’è stato nel Venezuela per la crisi che sappiamo, ma anche in Argentina e in altri Paesi di richieste di cittadinanza italiana nasce perché è più facile passare dall’America Latina all’Italia per arrivare negli Stati Uniti che emigrare direttamente negli States».

Finora ci ha spiegato che il leader laburista Starmer ha preso una svista, che il “modello Italia” è un bluff, che l’emigrazione supera l’immigrazione e che i numeri degli immigrati dati dal governo non sono quelli effettivi.

«Vede, è un po’ come con il Covid: non si danno i numeri e il Covid sparisce».

Ci siamo persi altro?

«Un’ultima cosa interessante. Dato che i governi di destra sono quelli che hanno fatto il numero di sanatorie più alto in Italia, vengono visti come quelli che “tanto poi una sanatoria te la fa”, quindi…».