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Così l’Italia ha lasciato morire 61 persone in mare: Guardia costiera rimasta a guardare, che fa la magistratura? (unita.it)

di Angela Nocioni

La strage di stato dolosa

Roma sapeva dall’8 marzo e non ha avviato un’operazione di ricerca e soccorso.

L’Ocean viking ha trovato e salvato i 25 sopravvissuti il 13 marzo, gli altri sono morti di stenti. Frontex aveva un aereo lì sopra, perché la Guardia costiera italiana è rimasta ferma? L’Italia ha lasciato morire di sete, di fame, di stenti, 60 persone in mezzo al mare.

L’Italia ha saputo con quattro giorni di anticipo di un gommone con più di 50 persone alla deriva in acque internazionali a nord della Libia. E è rimasta a guardare. E’ successo nel marzo scorso. L’Italia sapeva, perlomeno dall’8 marzo alle 21.06, di una imbarcazione in difficoltà. E aveva le coordinate esatte. Lo sapeva l’Italia, cioè lo sapeva il Comando delle capitanerie di porto di Roma, l’autorità italiana responsabile dei soccorsi (IMrcc).

Lo sapeva Malta e lo sapevano i miliziani di cui è composta la guardia costiera libica che non fa salvataggi ma solo deportazioni di naufraghi.

L’Italia la sera dell’8 marzo ha saputo che c’era una imbarcazione in difficoltà carica di persone e non ha avviato nessuna operazione di ricerca e salvataggio. La magistratura se ne vuole occupare? Lasciare morire persone è un reato, non soccorrerle sapendo che stanno per essere inghiottite dal mare è un reato. Tutte le carte sono pubbliche e disponibili a questo indirizzo.

La mattina del 13 marzo, per estrema casualità, un gommone con ormai solo 25 ragazzi a bordo – altri 60 erano morti nel frattempo sotto il sole o si erano suicidati lanciandosi in mare, tra i morti di stenti c’è anche un bambino di nemmeno due anni e sua madre, suo padre è tra i sopravvissuti – è stato avvistato con il binocolo dal ponte della Ocean Viking, la nave di soccorso della ong francese Sos Mediterranée.

Erano le 11,50.

Ero quel giorno a bordo di uno dei gommoni lanciati in mare per il salvataggio. Sono testimone di quel che è accaduto. Perché, se l’esistenza di una imbarcazione in difficoltà era stata segnalata la sera dell’8 marzo, la Guardia costiera italiana non ha lanciato immediatamente una operazione di ricerca e soccorso?

Come primo centro operativo a conoscenza di una barca alla deriva aveva l’obbligo di monitorare qualsiasi altra iniziativa presa da altre autorità. Perché, una volta chiaro che nessuno stava soccorrendo i naufraghi, la Guardia costiera italiana non ha lanciato subito una operazione di salvataggio?

Quando, dopo mezzogiorno, i gommoni a punta rigida della Ocean Viking sono arrivati vicino a quel gommone grigio alla deriva, noi a bordo abbiamo visto venticinque facce lacere, solcate dal sale, quasi tutti ragazzini magrissimi, terrorizzati. Tutti neri, tutti maschi. Senza cibo e senz’acqua. Ci hanno raccontato subito che erano partiti in molti di più (“un centinaio” ha detto a me un ragazzo che parlava appena, 85 si è capito giorni più tardi).

Ci hanno raccontato subito che c’era un bambino piccolissimo. “Baby”, un ragazzo faceva con le braccia a mo’ di culla il gesto del ninnare. Tutti morti, uno dopo l’altro. “Abbiamo pregato e poi abbiamo messo i cadaveri in acqua” raccontavano con gli occhi sbarrati. Hanno detto subito di aver visto un elicottero volare a lungo, e spesso, a bassa quota sulle loro teste. Forse un elicottero della piattaforma petrolifera Bouri oil che poi, contattata dalla rete di attivisti di Alarmphone, ha detto di non saperne nulla. Quell’elicottero non ha chiamato i soccorsi, non ha avvisato nessuno. Li ha guardati morire. Dall’alto.

Steso sul fondo del gommone c’era un uomo alto e possente. Incosciente. Accanto a lui, supino, un ragazzo magrolino, sembrava morto. Nello strattone necessario a sollevarlo di peso ha avuto un sobbalzo, si è voltato di scatto, ha morso la mano del soccorritore bretone, bravissimo, che lo stava reggendo. Poi si è accasciato a terra e non ha più ripreso conoscenza.

Almeno 12 di loro sono minori, due con meno di dodici anni. Uno di loro ha continuato per tutto il tempo della navigazione, fino al porto di sbarco, Ancona, a cercare sua sorella. “Dov’è mia sorella? Era seduta accanto a me, dov’è?”. Non c’era sua sorella, non c’era nessuna ragazza tra i sopravvissuti. Era tra i morti. Vengono dal Senegal, dal Gambia, dal Mali. Erano tutti in pessime condizioni fisiche e psicologiche.

Hanno visto morire i loro compagni di viaggio. Uno a uno davanti ai loro piedi. Hanno visto donne e uomini morire di stenti. Hanno assistito ai sussulti dei moribondi, alla disperazione degli altri, alla rabbia, alla paura di fronte ai cadaveri, alle discussioni dei grandi su cosa fare con i corpi. Hanno visto gli adulti pregare, buttare a mare i morti, hanno visto i corpi gettati in acqua sparire tra le onde. Hanno avuto paura di finire anche loro mangiati dai pesci.

Quel gommone alla deriva si è casualmente trovato sulla rotta della Ocean Viking che stava andando verso una barca di legno blu a rischio naufragio segnalata poco prima da Sea Bird 2, l’aereo della ong Sea Watch, a cinque ore di distanza.

Ci stavamo preparando a un salvataggio con tensione perché alcune motovedette libiche, le motovedette date ai miliziani libici dal governo italiano, stavano attraversando il radar nello spicchio di mare davanti a noi. Dagli smartphone sbucava intanto un Matteo Piantedosi abbronzato appena sbarcato a Benghazi che stringeva la mano di Haftar e sorrideva a favore di telecamera.

***

Un parente di uno dei 24 sopravvissuti (uno dei due ragazzi incoscienti è morto in ospedale in Sicilia) ha riconosciuto un suo parente nelle foto del salvataggio pubblicate da Sos Mediterranée e ha chiamato Alarm phone. A quel punto gli attivisti di Alarm phone si sono resi conto che il gommone della strage era lo stesso gommone in avaria di cui avevano avvisato Roma, Malta e tutte le altre autorità marine già quattro giorni prima.

Hanno recuperato i tracciati dei voli aerei e rintracciato alcuni sopravvissuti. In una lettera aperta inviata al Centro di comando delle capitanerie di porto (IMrcc) di Roma, di Malta, a Frontex e all’Unhcr (l’agenzia Onu per i rifugiati) pongono delle domande precise, accompagnate da carte e tracciati. Ne riportiamo alcune.

E aggiungiamo una domanda: la magistratura italiana vorrà aprire una inchiesta? Si tratta di 85 persone lasciate consapevolmente alla deriva. 61 di loro sono morte.

È una strage. I testimoni sono disponibili. Si indaga quando c’è una strage!

Fot: Johanna de Tessieres / SOS Méditerranée(Fot: Johanna de Tessieres / SOS Méditerranée)

La guerra in Libano ieri come oggi, nel 1982 mi salvai recitando la formazione dell’Italia ai mondiali (ilriformista.it)

di Paolo Guzzanti

Il racconto

©lapresse archivio storico varie Beirut 04-08-1982 Beirut nella foto: alcuni militari della contraerea dell’Olp cercano di impedire l’avanzamento delle truppe israeliane nei quartieri ovest di Beirut BUSTA 2756(©lapresse archivio storico varie Beirut 04-08-1982 Beirut nella foto: alcuni militari della contraerea dell’Olp cercano di impedire l’avanzamento delle truppe israeliane nei quartieri ovest di Beirut BUSTA 2756)

Sono uno dei superstiti del corpo di spedizione dei giornalisti italiani in Libano e il fatto che la guerra stia ricominciando anche sul terreno, con la reazione israeliana agli sciiti di Hezbollah, riporta a quei giorni di quaranta anni fa: la storia si replica e certamente non in forma di farsa, oggi gli sciiti libanesi sono un braccio armato dall’Iran mentre allora il rapporto fra Teheran e mondo sciita era meno militare.

Le loro plurime conquiste di Beirut avvenivano all’insegna della crociata contro ebrei, cristiani e chiunque bevesse alcol. E tutti noi cronisti che abitavamo all’Hotel Commodore o al Cavalier pensammo che prima di morire avremmo dovuto svuotare tutte le bottiglie di whisky, vodka, vino e le lattine di birra. Io sono astemio e fu un disastro.

La formazione italiana ai mondiali mi salvò

Partii per Beirut la prima volta nel 1982 per andare a vedere la novità del primo contingente italiano all’estero dalla fine della guerra, comandato dal generale Franco Angioni che si accampò con perfezione di ogni dettaglio ed eleganza fuori dalla capitale. I soldati americani erano bassi, straccioni e pieni di fango, mentre quelli sceltissimi del contingente italiano indossavano uniformi che sembravano di sartoria.

E i mezzi militari italiani, unici, erano dipinti di un bianco scintillante. Gli israeliani erano entrati in Libano per bloccare l’Organizzazione per la Liberazione della Palestina. Appena arrivato vidi nel porto di Tripoli del Libano la chiatta blindata “My Charm”, avvolta dalle fiamme del fosforo con il carro armato sovietico del presidente dell’Olp Yasser Arafat che ardeva come Giordano Bruno. Dall’orizzonte marino era partito un lampo tra lo sgomento dei palestinesi. E il falò continuò giorno e notte.

Io facevo foto e fui arrestato dalla vigilanza palestinese. La stessa cosa mi accadde sulla Bekaa quando un biondo ufficiale siriano dagli occhi azzurri mi spianò la pistola in faccia urlandomi “You Shalom”, volendo dire che ero ebreo. Quella volta me la cavai recitando la formazione italiana ai mondiali, come nei film.

La guerra all’alcol di Hezbollah

Al posto di polizia fui interrogato insieme ad un vecchio egiziano trovato con in tasca troppi elastici e ben due torce elettriche: fu accusato di segnalare le postazioni palestinesi al dissidente e nemico Abu Mussa e lo uccisero con un colpo in fronte davanti a me. Il suo corpo allagò il pavimento di urina e sangue in pozze separate. Accertato che io fossi davvero un “As safir Talìe”, un giornalista italiano, ricevetti un bicchiere di thè bollente con zucchero e menta che tracannai.

Poi gli sciiti presero Beirut (e poi la persero e la ripresero) e noi sbandati fotografi di parole decidemmo di riunirci italiani e stranieri di tutte le testate con tutti i corpi militari di peace-keeping all’Hotel Cavalier dove il proprietario e pianista leggendario Joe Diverio suonava le sue canzoni, ma particolarmente Margherita e le canzoni di Tenco e tutti urlavamo scomposti e stonati (salvo gli scozzesi che accompagnavano col violino in kilt). Molte le uniformi e ancora di più i cocktail per non dire delle raffiche.

Sulla porta, impassibile, il nostro vecchio autista di fiducia Shamir, sordo come una campana, sempre col suo lucidissimo mitra Kalashnikov dal calcio di mogano. Shamir non sentiva le bombe e quando eravamo in macchina attraversavamo con souplesse le esplosioni, salvo minime correzioni sul volante.

Gli sciiti Hezbollah avevano promesso la morte a chiunque bevesse alcol. Ettore Mo del Corriere della Sera si era ficcato due lattine di birra nelle tasche dei jeans e una esplose trapassata da una pallottola. Lui rimase impassibile, un po’ seccato.

L’arrivo di Hezbollah in hotel

Mentre gli Hezbollah avanzavano ed erano a cento metri dal Cavalier, noi militari e giornalisti come condannati al supplizio suonavamo, cantavamo a squarciagola e ci ubriacavamo solo per non far cadere il nostro alcool in mani sciite. Fu l’ultima volta che mi ubriacai di una ubriachezza quasi letale strisciando come un bruco sui gradini che portavano ai piani.

Gli sciiti sparavano senza sosta e alcuni colpi entravano come calabroni: ci furono tre esplosioni di automobili al tritolo e in cielo i colpi dei grandi calibri dell’ultima corazzata americana sulla Bekaa, colpi che, come camion, sorvolavano Beirut col respiro Rolls Royce. Gli sciiti entrarono in albergo, ci fu una breve sparatoria di pura presa d’atto reciproca. Gli sciiti dissero che eravamo autorizzati a bere ma senza far uscire una bottiglia dall’albergo.

Fu la notte in cui mio padre, in pensiero per le notizie e il taglio dei telefoni, riuscì a trovarmi attraverso Italcable e io non sapevo come nascondere sia la mia voce alcolica che il suono metallico della guerra. Tutto bene, gli dissi, tutto regolare. Poi cadde la linea. Il giorno successivo verso il tramonto salii sulla Bekaa e mi imbattei in un carro israeliano parcheggiato sotto i cedri abitato da soldati israeliani liceali, maschi e femmine che suonavano, cantavano e parlammo di cinema. Poi la loro radio gracchiò e in meno di trenta secondi con il loro carro armato sparirono nel bosco.

Beirut divisa in due come Berlino

Le case di Beirut erano macerie e si sparava ovunque, le fazioni erano tantissime e i posti di blocco anche. Ci si metteva in salvo con un po’ di corruzione e un po’ di faccia tosta. O si restava sotto un blindato con dentro un morto di tre giorni mentre qualcuno da una finestra ti sparava per esercitarsi. I bambini di tre anni sapevano maneggiare una pistola più grande di loro e la città era divisa in due, Est ed Ovest come a Berlino.

Scrivevamo corrispondenze frettolose e mangiavamo seguendo truppe libanesi, israeliane, gli italiani e lo stesso Arafat. I palestinesi dovettero lasciare il Libano tra grandi feste e sparatorie di cui ho le registrazioni. Alla fine, l’Italia fece il beau-geste di spedire la nave Appia per trasferire i palestinesi in Tunisia. Ma la guerra continuava.

Gli sciiti di Hamal spiegavano sugli spalti del castello le grandi bandiere nere e un giorno con il collega Di Dio del Messaggero ci trovammo sotto il tiro di questi sciiti dissidenti, senza una ragione. Poi trovammo due fucili Kalashnikov e li imbracciammo per farci delle fotografie e forse per la nostra postura giocosa e bellicosa smisero di spararci e cominciò a piovere.

Le ambiguità (e i pasticci) sull’Ucraina (corriere.it)

di Roberto Gressi

Armi e voto

L’Italia titubante. Il Parlamento europeo ha detto sì a una risoluzione di sostegno all’Ucraina che contiene un punto chiave: Kiev potrà usare le armi occidentali per colpire le basi in Russia dalle quali partono gli attacchi al suo territorio sovrano.

Quello che segue, per quanto riguarda le delegazioni del nostro Paese, è a metà tra un pasticcio e uno scioglilingua.

F ratelli d’Italia si è pronunciata per il no, su quel passaggio, chiedendo che siano le singole nazioni a scegliere. No anche dalla Lega, e da Forza Italia, che si è distinta dal Partito popolare europeo, ad eccezione di Massimiliano Salini. No con divisioni dal Pd, con il sì di Pina Picierno ed Elisabetta Gualmini, e con un’area riformista insoddisfatta che non vota.

No, più scontato, da Cinque stelle, Verdi e Sinistra. Poi ecco il voto finale, che anche quel punto contiene. E allora sì da FdI e Forza Italia, no della Lega, sì del Pd, ovviamente riformisti compresi, con Cecilia Strada e Marco Tarquinio astenuti. Di nuovo no per Cinque stelle e per Verdi e Sinistra, mentre Carlo Calenda diceva sì giusto per la platea, perché il terzo polo non esiste più e non ha rappresentanti in Europa. Il tutto con buona pace del campo largo.

Spericolato sostenere che si sia dato il via libera a bombardare i russi. Ed è difficilmente argomentabile che si sia di fronte a una guerra per procura dell’Occidente contro Mosca. Quando l’intelligence Usa ebbe chiaro che Putin non si sarebbe fermato, Joe Biden offrì a Volodymyr Zelensky una via di fuga verso un Paese amico. Fu lui a dire di no, con il sostegno dell’Ucraina tutta, quell’Ucraina che secondo la propaganda di Putin si sarebbe affrettata ad accogliere i soldati russi come liberatori.

Quella di Strasburgo non può essere una scelta a cuor leggero, sarebbe da irresponsabili. E l’ambiguità italiana non può essere semplicemente tacciata di vigliaccheria. Anche perché il sostegno dei partiti principali all’Ucraina non viene certo meno, pur scontando un’evidente timidezza. Il rischio della minaccia nucleare, più volte sbandierata da Mosca, non è una preoccupazione da liquidare con un’alzata di spalle.

A condizione però di non perdere i punti cardinali di questa tragedia, che attanaglia l’Europa e il mondo ormai da due anni e mezzo, ed ha già fatto oltre un milione tra morti e feriti. C’è un aggressore e c’è un aggredito, che si difende con le unghie e con i denti, che protegge il suo Paese invaso e devastato. Permettergli di cercare di fermare gli attacchi lì da dove partono non è un sostegno alla difesa?

A meno che non si ritenga che sia Kiev a voler invadere e conquistare Mosca. In un orrore di queste dimensioni il grottesco non è consentito. Senza contare che lo stesso via libera a Kiev di estendere il raggio della sua difesa può aiutare a far capire a Putin che lui pure una via d’uscita dovrà cercarla.

Nella risoluzione del Parlamento europeo c’è anche un punto che, più di altre volte, pone la questione di arrivare con urgenza ad un tavolo di trattativa per la pace. Anche l’Italia deve, dovrà, porsi il problema di quale sia il percorso per far tacere le armi. Una strada è l’unica che Putin sembra voler vedere: annettersi parte del territorio, dopo aver dovuto rinunciare a prenderlo tutto, grazie alla resistenza. L’altra è rifiutare la resa incondizionata e trattare senza essere succubi.

La risoluzione approvata ieri non è vincolante per gli Stati. Il rispetto dell’autonomia nazionale non è da liquidare come se fosse una stupidaggine. Si aprono spazi di riflessione. Ma ci sarà un motivo se i Paesi europei, ognuno per sé, spendono cifre enormi per la Difesa e invece, tutto insieme, il continente è quasi insignificante. L’allarme di Mario Draghi, su un’Europa sbriciolata che mette in dubbio la sua stessa esistenza, vale in tutte le direzioni.

Non è un bene, ovviamente, che in Italia maggioranza e opposizione, su un tema così importante, non sappiano marciare unite in modo più lineare. C’è sì un Paese giustamente stanco di guerra, ma c’è anche l’impressione che ragioni elettorali di bottega abbiano un peso crescente.

Ma c’è una generazione di europei che ha l’occasione straordinaria di chiudere i conti con il Novecento. Un secolo di grandi conquiste, soffocate dalla pretesa di schiacciare la libertà dei popoli.

Ecco come funziona la propaganda putiniana in Italia (e chi la finanzia) (linkiesta.it)

di

Dalla Russia con disonore

La campagna di affissioni «La Russia non è il mio nemico» in giro per le città italiane è solo l’ultimo tassello di una complessa rete che il Cremlino ha pianificato nel nostro Paese per modificare l’orientamento dell’opinione pubblica.

Primo di tre articoli

Non c’è una strategia lineare, non c’è un unico canale di approvvigionamento e soprattutto non c’è un esecutore unico ma una galassia di sigle, piccoli gruppi formali e informali, consolati onorari, ex deputati, consiglieri regionali, giornalisti, influencer e analisti dietro all’imponente propaganda putiniana in Italia.

Quello che da molti anni il nostro Paese vive e che si è acutizzato dall’invasione estesa dell’Ucraina è frutto dell’applicazione delle cosiddette «misure attive». Lo spiega a Linkiesta, un ex diplomatico russo che per anni ha lavorato a Roma e ora si occupa di protezione dei dissidenti nei Paesi del Baltico: «Le misure attive sono una serie di operazioni riservate che hanno lo scopo di rovesciare e sovvertire un Paese e la sua opinione pubblica, sono di difficile individuazione perché coinvolgono tanti piani diversi tra di loro, con soggetti lontani ma che sono unificati da uno scopo unico. Per esempio sul caso dei manifesti propagandistici questo è molto chiaro».

E ripercorrendo l’inizio di questa vicenda troviamo molti protagonisti che da almeno due anni e mezzo sono il perno di questa modalità operativa. Ad esempio il primo evento in cui il manifesto della campagna “La Russia non è il mio nemico” fa capolino è il 1 giugno di quest’anno, in occasione della conferenza sulla figura di Marco Polo promossa, tra le altre, da due entità finanziate direttamente dal Cremlino, il Movimento Russofilo Internazionale e l’Associazione Veneto Russia capitanata da Palmarino Zoccatelli.

Il Movimento è stata fondato a Mosca nel 2023 alla presenza del ministro degli Esteri Sergei Lavrov, della sua portavoce Maria Zakharova, dell’oligarca-filantropo Konstantin Malofeev e il leader del movimento russofilo bulgaro Nikolai Malinov. Il movimento essendo finanziato da Malofeev è sottoposto a sanzioni, ma come racconta la nostra fonte «grazie alle matrioske associative e a un giro di soldi contanti e sponsorizzazioni di azienda in odore di sanzioni, il movimento anche in Italia fa girare molti soldi».

Aziende come la Albrigi Tecnologie che è sponsor ufficiale dell’associazione Veneto Russia di Zoccatelli, che fatturava all’ombra del Cremlino milioni di euro e che ora cerca di dare sostegno alla campagna contro le sanzioni. «Spesso le operazioni di finanziamento sono svolte direttamente dalle aziende che hanno ancora interessi in Russia o da privati che hanno partite di giro.

Ma la fonte madre è sempre in via Gaeta, lì esiste una rete, anzi una ragnatela di associazioni, fondazioni, enti caritatevoli i cui nomi sono facilmente reperibili. Per esempio, il Rossotrudnichestvo, l’Istituto russo di scienza e cultura, uno degli istituti che è finanziato dall’ambasciata, con centinaia di migliaia di euro all’anno, a Roma il suo responsabile Oleg Ossipov è una sorta di bancomat per tutti i filoputiniani, fuori dalla sede c’era quasi la fila.

E poi sua figlia è stata assunta al Senato, capite, al Senato della Repubblica italiana».

Il riferimento è a Irina Ossipova, assunta dopo regolare concorso presso la seconda istituzione italiana; sul caso ci furono molte polemiche.

Ma come funziona, esattamente la redistribuzione delle risorse tra la galassia putiana in Italia? Dalle carte che abbiamo visionato in esclusiva si comprende la presenza di una struttura concentrica dove l’Ambasciata russa finanzia i suoi centri di cultura, le associazioni, i consolati, insomma le strutture ufficiali che provvedono a smistare a loro volta ad altre associazioni o privati cittadini somme di denaro variabili che servono per mantenere le strutture putiniane, fare convegni, lanciare campagne come quella dei 6×3.

«Questo schema è universale e difficilmente tracciabile, anche se è possibile con pazienza –dice l’ex funzionario – i soldi sono dati sotto forma di gettoni di presenza. I finanziamenti a questi enti ufficiali che danno il via a tutto il circolo di finanziamento di solito erano effettuati tramite bonifici, ma dopo l’invasione del 2022 si è tornato al vecchio metodo dei borsoni. Da qualche tempo però hanno sposato anche metodi diversi».

I metodi di cui parla la nostra fonte sono messi in evidenza anche dalle dichiarazioni di questi giorni dei responsabili della campagna romana di affissioni e vanno dalla cosiddetta colletta fino al metodo hawala ovvero il prestito d’onore.

Potendo contare su una rete imprenditoriale molto vasta, garantita anche dai numerosi uffici dei consoli onorari su tutto il territorio nazionale, che a loro volta hanno nel corso del tempo aperto associazioni tra imprese, una delle tecniche più usate di finanziamento consiste nel versamento di piccole società, cooperative o professionisti, che vengono rifondate successivamente da commesse parallele maggiorate della parte investita.

E poi c’è la rete, Telegram e le criptovalute, un universo di cui si avvalgono soprattutto i propagandisti travestiti da giornalisti.

(1. continua)