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Estrema destra tedesca Il grande abbaglio (corriere.it)

di Milena Gabanelli e Mara Gergolet

Nella Germania Est, dominata dal comunismo 
sovietico fino al crollo del Muro, quasi un 
cittadino su tre ha scelto il partito di estrema 
destra Alternative für Deutschland (AfD). 

Alle domande dei giornalisti, i «portavoce» del partito rispondono: «È scritto nel programma».

Siamo andati a vedere, in dettaglio, cosa c’è dentro. L’AfD propone un programma che può sembrare attraente per molti elettori, soprattutto chi è preoccupato per il benessere delle «persone normali» come dicono loro. Tuttavia, un’analisi più approfondita rivela contraddizioni che minacciano i principi fondamentali della Costituzione tedesca e, se applicate, andrebbero a peggiorare anche le condizioni della fascia sociale ed economica a cui appartengono proprio gli elettori della AfD.

La remigrazione di massa

Secondo tutti gli istituti di sondaggio il tema dei migranti è quello che più ha fatto guadagnare consensi all’AfD. Il caso che ha acceso l’attenzione sui loro «piani» estremi è stata una riunione segreta tenuta nel novembre 2023 nel Wannsee, la località dove fu decisa la «Soluzione finale» degli ebrei. Il piano discusso alla presenza di esponenti AfD, ma mai diffuso pubblicamente — e svelato dal collettivo di giornalismo investigativo Correctiv — prevede la «remigrazione» di 2 milioni di persone non sufficientemente «integrate».

Tra queste anche migranti con passaporto tedesco e i loro figli nati in Germania. L’obiettivo dichiarato è di mantenere la «purezza culturale» e alleggerire il carico sul sistema sociale. La «remigrazione» — termine inventato dall’austriaco Martin Sellner — in modi così radicali non figura nel programma ufficiale, ma la parola sì. Le espulsioni devono essere di massa, dicono i leader AfD che chiedono di «abolire il diritto individuale all’asilo» e sostituirlo con una generica «garanzia costituzionale di una legge sull’asilo».

Ma come si attua questo piano? Chi va a prendere queste centinaia di migliaia di persone? Per mandarle dove? Cosa succede ai loro beni, si confiscano? Di questo, la gran parte dei tedeschi ha orrore solo a sentirne parlare, perché rievoca la memoria del nazismo.

Per portarli dove?

Ora, nessun Paese europeo ha tanti rifugiati come la Germania: 3,48 milioni, di cui 1,24 milioni dall’Ucraina. È stata la celebre decisione di Angela Merkel, nell’estate 2015, di non respingere chi premeva ai confini a permettere questi arrivi dai Paesi in guerra. Oggi in Germania vivono 972 mila siriani, 418 mila afghani, 281 mila iracheni. Nel 2024 hanno chiesto asilo altri 104.561 siriani e 53.582 afghani. Ovviamente, rimandare a casa chi fugge dalla guerra non è permesso dalla legge tedesca.

Inoltre per espellere le persone occorre che un altro Paese accetti i rimpatri. Berlino ha intese con Georgia, Macedonia del Nord, Albania, Moldavia, Serbia, Uzbekistan, Marocco, Colombia. Sono in corso trattative con il Kenya, il Kirghizistan e le Filippine. È vero che adesso il cancelliere socialdemocratico Olaf Scholz ha varato la linea dura (più rimpatri e controlli ai confini Ue), ma è una faccenda estremamente complicata.

Per espellere 28 afghani, condannati per plurimi reati il 30 agosto, Berlino ha negoziato per mesi con i talebani attraverso il Qatar. E stiamo parlando di 28 persone. Una procedura che si sta dimostrando impraticabile perfino in Europa, dove l’accordo di Dublino obbliga i richiedenti asilo a presentare domanda nel primo Paese d’approdo, anche se invece spesso si spostano altrove, in genere verso Nord.

Ebbene, l’Italia da 2 anni non accetta i «dublinanti» dalla Germania: dei 21 mila che ci dovremmo riprendere, secondo il Viminale nel 2023-24 ne abbiamo accettati 13. In sostanza quello che l’AfD propaga non è praticabile.

Le proposte sociali ed economiche

Nel suo programma l’AfD mette in risalto le idee economiche di base. L’obiettivo è la «Germania sovrana», e propone un referendum sull’euro, «noi consigliamo l’abrogazione» . Fine delle sanzioni alla Russia e un miglioramento delle relazioni con Putin. No all’esercito europeo.

Sul clima sono negazionisti: «La politica di protezione del clima del governo federale si basa su modelli climatici ipotetici finora non provati». Più soldi alle famiglie tradizionali, e quindi prestiti senza interessi per comprare casa a chi ha figli, e riduzione del debito per ogni nuovo figlio.

Sostegno alla «classe media» tagliando le tasse: meno scaglioni e una fascia di esenzione totale più alta. Sulle grandi aziende dell’automobile in crisi, dove fra dipendenti e indotto migliaia di lavoratori rischiano il posto, nemmeno una parola. Ma la politica economica AfD è così peculiare che vale la pena di guardarla meglio.

Il paradosso

Come mostrano numerosi studi, a partire da quello di Marcel Fratzscher dell’autorevole Istituto Tedesco per la Ricerca Economica (DIW) — che analizza le proposte di tutti i partiti in Parlamento su 38 temi diversi —, le persone che più sostengono l’AfD sono quelle che subirebbero maggiormente le conseguenze negative delle sue politiche economiche, con perdita di posti di lavoro e servizi.

Per capire di più bisogna considerare il bacino elettorale, classificato negli studi per reddito e livello di istruzione come basso o medio-basso. Ebbene il programma AfD, come dimostra Fratzscher, promuove una politica economica e finanziaria «estremamente neoliberale», più di tutti gli altri partiti. In quasi tutti i campi Alternative für Deutschland vuole i tagli fiscali: riduzione delle imposte di successione, no a un prelievo extra sui grandi patrimoni, e abolizione del «contributo di solidarietà».

Si tratta di un’imposta progressiva che si applica ai redditi alti, fino a un massimo del 5,5% per quelli più elevati, e destinata proprio allo sviluppo dei Land dell’Est — dove l’AfD è votata al 30%! Via tutto, dice l’AfD. Che vuole la riduzione delle tutele per chi è in affitto e, nel 2021, si è opposta all’aumento del salario minimo a 12 euro. Propone poi di ridurre il sussidio sociale. Dagli studi della Familien Unternehmer emerge che molti elettori AfD provengono o lavorano per le imprese familiari — più che da tutte le altre categorie. Il programma ufficiale AfD è per l’abolizione dell’euro.

Però non spiega quali sarebbero i vantaggi del ritorno al marco per le innumerevoli aziende familiari integrate nelle catene del valore europee e globali. La politica commerciale dell’AfD, che punta su isolamento e autarchia, in realtà spezzerebbe la spina dorsale della Germania, nazione esportatrice per eccellenza. E a pagare più di altri le conseguenze dell’indebolimento della Ue, dei tagli fiscali per i ricchi, della riduzione del welfare, sarebbe proprio la fascia sociale più bassa.

L’abbaglio collettivo

Come è possibile allora che un terzo delle persone all’Est e un quinto dei tedeschi — in maggioranza nelle fasce sociali e economiche medio-basse — appoggi qualcosa che li svantaggia? Evidentemente i leader dell’AfD sono riusciti a convincere i loro elettori che la marginalizzazione degli stranieri, un ritorno al nazionalismo e la fine della globalizzazione porterà a loro lavori migliori, più sicurezza, più chance.

Un giornalista della Zeit, Nils Markwardt, ha coniato una nuova parola: «Relazioni di accecamento». Si tratta, dice Markwardt, nella migliore delle ipotesi di una percezione distorta della realtà, nel peggiore di adesione a teorie del complotto estreme, in cui i soggetti si vedono come vittime della politica e della società, autodefinendosi però come maggioranza.

SE LA MEMORIA E’ UNA CARTOLINA SBIADITA (corriere.it)

di Aldo Grasso

Padiglione Italia

L’orrore dei regimi totalitari quasi svaniti in un oblio colpevole

(Carc – Partito dei Comitati di Appoggio alla Resistenza per il Comunismo)

Cartelli in Italia contro Liliana Segre, additata come «agente sionista», in Austria Herbert Kickl vince le elezioni e si definisce «cancelliere del popolo», appellativo un tempo usato per definire Adolf Hitler, in Germania è boom dell’estrema destra: l’AfD vince le elezioni regionali in Turingia e avanza anche in Sassonia.

Cosa sta succedendo? Svaniti nel nulla i documenti scritti e visivi, le drammatiche testimonianze dei sopravvissuti, i «mai più», le gite scolastiche ad Auschwitz?

Nell’arco di due generazioni, l’orrore del nazifascismo, dei totalitarismi in genere, è solo una cartolina sbiadita, un voltare le spalle alla brutalità di un male che non può essere redento, ma solo guardato nella sua atrocità.

Se Antonio Tajani dice che «i rigurgiti neonazisti vanno respinti», Matteo Salvini gli rinfaccia di «aver mangiato pesante» e, nel frattempo, invita oggi a Pontida tutti i «patrioti» del sovranismo.

Parole come dittatura, regime, nazionalismo sono state sostituite da sinonimi più blandi e non rappresentano più un tabù.

Il rapporto fra memoria e oblio è uno dei nessi più inestricabili e complessi che la storia della cultura abbia tramandato: nelle teche, tutto sembra parlare a favore delle testimonianze ma spesso l’oblio si ribella e trasforma nell’arco di due generazioni il retaggio etico della memoria in dimenticanza.

(Carc – Partito dei Comitati di Appoggio alla Resistenza per il Comunismo)

Caro Giuliano, una morale separata dall’efficacia è una possibilità irrinunciabile (ilfoglio.it)

di Adriano Sofri

Piccola posta

E tuttavia non mi contento davvero di una obiezione morale su Gaza: ci si deve interrogare sul principe che si faccia troppo odiare. Netanyahu – e l’alleanza di governo su cui si regge – si è fatto troppo odiare da troppa parte dell’umanità

Caro Giuliano, ieri hai cortesemente chiamato la mia posizione “perfettamente morale, secondo me errata”, e te ne ringrazierei, leggendola “errata, secondo me perfettamente morale”. Insistere sul nostro dissenso su Gaza è superfluo, è un fatto compiuto, ma c’è un dettaglio che ha un’influenza pratica, e riguarda proprio la giornata di oggi.

In sostanza, non riconosco un dissenso né riguardo alla ripugnanza per il 7 ottobre, né sopra il giudizio sull’Iran degli ayatollah e la prospettiva di un loro armamento nucleare. Fui ammiratore di Osirak. Quanto a una morale separata dall’efficacia, dunque eventualmente errata, è una possibilità irrinunciabile: salvare la propria anima è il minimo. 

Non mi commuovono le denunce dei bombardamenti su Dresda tarde di tre quarti di secolo, ma chi le avesse denunciate allora come un inutile accanimento, o anche solo per obiettarvi personalmente, meriterebbe un’alta considerazione. Come lo scienziato che avesse obiettato all’atomica su Hiroshima, o il pilota che avesse disertato dall’atomica su Nagasaki.

Tuttavia puoi immaginare che io non mi contenti davvero di una obiezione morale, e invece creda – sbagliando, forse, ma resta da vedere – nel suo effetto. Machiavelli chiede se convenga più al principe essere amato o temuto, e raccomanda il male minore: ma ci si deve interrogare anche sul principe che si faccia troppo odiare. Netanyahu – lui in persona, e più l’alleanza di governo su cui si regge – si è fatto troppo odiare da troppa parte dell’umanità.

A questa parte appartengono giovani persone ferite da un tale scandalo di fronte al mattatoio di Gaza, da identificare il governo di Israele con Israele, e da rigettare come un ricatto, questo sì immorale, l’avvertimento sull’antisemitismo. Dall’antisemitismo non si guardano come da un tabù, come (forse) noi, bensì come da un’assurdità loro estranea.

Vengo al punto, quanto all’effetto di una morale in un caso concreto e incombente. L’infame intitolazione che qualcuno ha dato alla manifestazione di oggi per la Palestina è allo stesso tempo, come altre volte, un indifferente pretesto alla decisione di tante persone giovani di incarnare il proprio scandalo e chiederne conto.

Ti faccio un esempio a sua volta scandaloso, che ti renderà l’idea: si va a una manifestazione indetta da un volantino infame, ammesso che lo si legga, un po’ come si sale su un barcone di scafisti, potrà succedere di annegare, o di toccare terra, e perfino di finire a processo per complicità con gli scafisti.

Che lo scandalo sia fuorviato verso parole d’ordine insensate è nelle cose. Denunciare intitolazioni infami e parole d’ordine insensate è giusto e necessario, ma auspicare il divieto alla volontà di manifestare è un errore gravido di guai. E, nella tua posizione, è esattamente un cedimento alla morale separata dall’efficacia e dall’effetto, dunque, diresti, “errata”. In particolare di fronte alla posa con cui il governo e il ministro dell’Interno, uomo costantemente “in prova”, da un rave a una guerra mondiale, si dispongono a sfidare il disordine pubblico.

Sono molto preoccupato per la manifestazione di oggi, e l’occasione che offre a molti energumeni in alto e in basso. E’ ancora più preoccupante la conferma che darà, che ha già dato, alle ragazze e ai ragazzi cui la carneficina di Gaza ha procurato quello scandalo incancellabile per un gran tempo a venire.

Si disse, ventun anni fa, che il movimento contro la guerra fosse “la seconda superpotenza mondiale” – e perfino il movimento se ne lasciò lusingare. Non era così, le guerre hanno ripreso le loro tracotanti ragioni e basta avere o fabbricarsi una bomba atomica per dettar legge.

Lo scandalo dei giovani, unilaterale che sia, dimentico che sia di donna vita libertà, deviato che sia dalle propagande multilaterali, non può che essere rincarato dalle proibizioni, e reagire come a una sfida.

Non diventerà una superpotenza globale, e meno male, ma si esilierà, e pregiudicherà la solidarietà col mondo.

(ANSA)

Bologna 2021-26 – Arte in catene per la politica (corriere.it)

di Flavio Favelli

Se il sindaco vuole solo un’arte «di servizio»

Pochi giorni fa in Sala Borsa, il sindaco e l’ex delegata alla cultura, hanno presentato il libro insieme all’autrice Milena Naldi, Arte pubblica a Bologna, Sculture dal dopoguerra ad oggi , edito da Pendragon, che raccoglie 75 opere: due terzi sono state commissionate e sono dedicate a eventi e fatti della città; la metà sono dedicate a morti e caduti.

Prevale quindi l’idea di un’arte commemorativa che deve rispondere a una società che vede nell’arte una sentinella della memoria. Negli ultimi dieci anni, su tredici sculture, dodici sono state commissionate per uno scopo preciso; l’artista viene così interpellato per cercare di risolvere le esigenze concrete della città o per fare monumenti funerari.

Così le opere d’arte nello spazio pubblico sono considerate solo come mezzo e nemmeno così autonome rispetto alle opere pubbliche sui generis; come scrive il sindaco nel catalogo della mostra: «Le opere pubbliche, d’arte e non solo (sic! ndr), sono lo specchio della società che le commissiona e le realizza…

Questa è una responsabilità che sentiamo molto forte nel ridefinire lo spazio pubblico e urbano nel disegno urbanistico e culturale che stiamo portando avanti in questi anni. Un disegno che metta al centro le persone e la qualità della vita e delle relazioni, e dove l’arte può essere il punto di contatto tra lo sguardo delle persone e la città».

Un’introduzione chiara di un politico al libro Arte pubblica a Bologna, che dice cosa debba essere e fare l’arte, che, al pari dei marciapiedi e delle ciclabili, è fatta dalla società che le commissiona e serve a mettere «al centro le persone e la qualità della vita e delle relazioni», e, se proprio lo si vuole, l’arte «può essere il punto di contatto tra lo sguardo delle persone e la città».

Almeno nella Fontana del Nettuno, anche se comandava il Papa, c’è scritto oltre che «Fatta con soldi pubblici» e «Fatta ad uso del popolo», anche «Fatta per ornare la piazza», ma il sindaco, da robusto materialista, sulla questione estetica, che considera roba da élite, non ne vuole sapere.

D’altra parte nel lessico populista, come ha detto un altro sindaco robusto, quello di Venezia, commentando il Padiglione Italia all’ultima Biennale, «l’arte dovrebbe arrivare al cuore di tutti… non essere soltanto per le élite … ascoltare il popolo, ascoltare la gente…» Come pensa anche l’amministrazione bolognese e infatti sulla politica culturale e sull’arte non c’è nessuna differenza fra il sindaco di destra e quello di sinistra, perché il populismo ha le stesse idee: il popolo sovrano, come avviene nella Cina di oggi, perfetta sintesi fra antica tradizione e socialismo reale, taglia fuori gli intellettuali e decide, mediante i suoi delegati, che arte fare, la quale deve ascoltare il popolo ed essere fatta dalla società come scrive il sindaco di Bologna.

Del resto un riferimento dell’amministrazione bolognese è Kilowatt con la Serra Madre (forse di tutte le Battaglie e dell’Avvenire), dove l’arte esiste ed è ammessa solo perché dialoga con «centri di ricerca, aziende e cittadinanza sui temi legati a sostenibilità, innovazione e ambiente», al servizio di un MinCulPop.

O commemorazione di defunti o chiamata su commissione per cercare di risolvere qualche problema urbano o al verbo della nuova trinità, sostenibilità, innovazione e ambiente o per completare il disegno culturale di tipo sovietico, finalmente l’arte farebbe qualcosa di buono.

«L’arte serve o sparecchia?» Si chiedeva Achille Bonito Oliva e in una brillante intervista aggiungeva «è la necessità di un lusso; la sua funzione non è riducibile e cronometrabile in un ambito temporale breve; è il segno di una società libera dove non si pongono linee né di destra né di sinistra, né neorealismo né Novecento».

A Bologna, invece, siamo sicuri: l’arte serve, eccome.

Il lungo cammino verso l’Oscar di Vermiglio è partito da Bologna (rivistastudio.com)

di Maria Luisa Tagariello

Cinema

Maura Delpero ci ha vissuto e studiato, e qui ha conosciuto Francesca Andreoli, che assieme a lei ha scommesso tutto su questo film.

Proprio con Andreoli abbiamo parlato della difficilissima produzione e del sorprendente successo di Vermiglio.

Il film è ambientato nel corso di quattro stagioni, tra la guerra e la pace, un momento cerniera che mi ha permesso di raccontare il passaggio tra l’antico e il moderno, il paese e la città, il comunitario e l’individuale. I personaggi sono in bilico tra questi due mondi, in particolare le ragazze: sono completamente dentro il loro tempo, con le leggi del patriarcato, e allo stesso tempo fremono, hanno già un’ansia di autodeterminazione».

A spiegarlo è Maura Delpero alla proiezione bolognese di Vermiglio, il film premiato a Venezia con il Leone d’argento – Gran Premio della Giuria.

A Bologna la regista, originaria di Bolzano, ha studiato, cibandosi dei film della Cineteca, mentre bolognese doc è Francesca Andreoli, produttrice e socia fondatrice – insieme e Leonardo Guerra Seràgnoli, a Delpero stessa e a Santiago Fondevila Sancet – dell’esordiente Cinedora, che sul film ha scommesso. Nella sala è palpabile il calore di amici e parenti venuti a dare il proprio sostegno. Sarà di pochi giorni dopo la notizia che Vermiglio è stato scelto per rappresentare l’Italia agli Oscar.

«Sono tutti personaggi in bilico. Le donne del resto lo sono sempre – mi chiedo se in futuro le nostre nipoti potranno dire di non esserlo. Noi lo siamo, le protagoniste di Vermiglio lo erano ancora di più», continua Delpero, anche lei, come tutte, in bilico tra lavoro e famiglia (non è passato inosservato, nel discorso della regista a Venezia, l’augurio per una società meno discriminatoria nei confronti delle donne), tra talento e giusto riconoscimento.

E se è vero, come è vero, che le registe sono ancora poche, e l’Italia si colloca persino sotto la media europea per numero di film diretti da donne, ecco allora che il risultato ottenuto da Vermiglio ha qualcosa di eccezionale.

Un’ eccezionalità a cui non è del tutto nuova Francesca Andreoli che con Tempesta, casa di produzione bolognese, si è occupata di altri esordi al femminile, tra cui Le meraviglie (2014) e Lazzaro felice (2018) della oggi celebratissima Alice Rohrwacher.

A Tempesta, fondata nel 2009 da Carlo Cresto-Dina con un focus particolare su esordi e nuovi talenti, Andreoli era approdata dopo undici anni alla Cineteca, tra i più importanti centri di conservazione e restauro cinematografico cui fanno capo quattro sale: la biblioteca di cinema Renzo Renzi, il Fondo Pier Paolo Pasolini, la Film Commission del capoluogo emiliano, oltre a festival e manifestazioni che attirano in città i nomi più importanti del cinema internazionale (basti pensare che Wes Anderson l’ha paragonata al Louvre e al Prado per la ricchezza di offerta).

«Ho conosciuto Maura da spettatrice», mi racconta Andreoli, che raggiungo al telefono mentre è in partenza per la Corea dove Vermiglio verrà presentato al Busan International Film Festival. «Lavoravo alla selezione per Visioni Italiane [concorso nazionale per corto, mediometraggi e documentari della Cineteca, ndr] quando ho visto i suoi primi documentari. Erano bellissimi. Già si potevano intuire uno sguardo poetico e una costruzione narrativa raffinata, capace di trasmettere emozioni.

Ci siamo conosciute, e nel corso degli anni siamo rimaste in contatto, ci sentivamo, ci aggiornavamo sui rispettivi percorsi e, quando riuscivamo, ci incontravamo. Con Vermiglio ci è venuta l’idea un po’ folle di aprire una società insieme, coinvolgendo anche Leonardo e il marito di Maura, Santiago. La nascita di Cinedora è strettamente legata a questo film e al progetto della sua realizzazione».

Follia è una parola che ricorre spesso anche nelle interviste di Delpero che, nel discorso di ringraziamento a Venezia, non ha dimenticato Cinedora, «nuova casa di produzione italiana che ha avuto la matta idea di iniziare con un film difficilissimo, con i bebé, i bambini, gli animali, la neve, il dialetto e chi più ne ha più ne metta».

Se a questo si aggiunge una regista donna (in un mondo, quello del cinema, ancora dominato dagli uomini), un’opera seconda, un cast di esordienti e attori non professionisti – con l’eccezione del superbo Tommaso Ragno nei panni del padre della numerosa famiglia Graziadei – si comprende ancora meglio la scelta della parola follia.

«Questo è forse il film a cui ho lavorato più intensamente, per via della costruzione produttiva complessa e ambiziosa», ammette Andreoli, «Io la definisco una lucida follia», una scommessa, certo, ma fatta su una valida sceneggiatura («bellissima già alla sua prima stesura, quasi un romanzo»), e su un’autrice che, con l’opera prima Maternal, aveva già ottenuto importanti riconoscimenti a Locarno e a Cannes.

«Maura Delpero era un talento che andava solo coltivato. Le servivano gli strumenti per esprimersi al meglio. Come tutti gli autori, aveva bisogno di un impianto produttivo che la sostenesse e la guidasse, di un budget che le permettesse di avere tutto ciò che le occorreva per la realizzazione del film in fase di riprese. E soprattutto bisognava darle tempo: per pensare, per scrivere, per costruire quel mondo che adesso vediamo sullo schermo. Questo tempo noi glielo abbiamo concesso».

Il tempo, quasi infinito, necessario alla ricerca delle location e degli attori, alla loro preparazione – un anno di prove con la coach Alessia Barela – «perché quei ragazzi incarnavano perfettamente i volti, i movimenti, la presenza che Maura ricercava, ma non erano preparati. Dovevano superare la timidezza ed entrare in confidenza tra di loro per interpretare con naturalezza una famiglia».

E poi il tempo meteorologico, che ha rappresentato una sfida ulteriore: «Il film è stato girato in due momenti: per avere tutte e quattro le stagioni della sceneggiatura abbiamo dovuto filmare la primavera e l’estate, fermarci, aspettare l’inverno, e riprendere. Volevamo la neve, per non dover ricorrere a costosissimi effetti speciali, e la neve è arrivata, talmente tanta che, a quel punto, abbiamo dovuto affrontare problemi logistici e organizzativi».

Follia, dunque. Sogno che si avvera. Andreoli parla anche di «miracolo» quando ripensa al Leone d’argento e alla possibile candidatura agli Oscar. Ma se il miracolo ha in sé la casualità e la fortuna, quest’opera collettiva che è Vermiglio è invece frutto della determinazione e dell’impegno di tanti. Lavorando sodo, insomma, si ottengono i risultati.

«Non è sempre così, purtroppo», commenta. «Con il cinema d’autore non è scontato intercettare il gusto e l’attenzione del pubblico», attenzione che al momento il pubblico sembra disposto a concedere: distribuito da Lucky Red in 100 sale italiane, Vermiglio è in cima al box office.

Dopo Venezia il film parteciperà, accompagnato dai suoi produttori, ad altri festival in giro per il mondo (dal già citato Busan Film Festival in Corea del Sud a Valladolid, da Montpellier a New York) dove testerà la risposta internazionale, e comincerà la road map verso gli Oscar: l’annuncio della shortlist da parte dell’Academy è previsto per il 17 dicembre 2024, mentre le nomination saranno comunicate il 17 gennaio 2025. Infine il 2 marzo 2025 avrà luogo la cerimonia degli Academy Awards a Los Angeles.

«La strada è ancora lunga. Abbiamo fatto un primo passo importante, e ora andiamo avanti. Come ha detto Maura in conferenza stampa, dobbiamo fare come gli alpinisti che, mentre scalano le montagne, guardano soltanto il chiodo che hanno piantato, non guardano né su né giù, per evitare lo shock dell’abisso. Quindi piantiamo il chiodo e concentriamo lo sguardo su quello, piantiamo il successivo e vediamo se ci porta un po’ più su».

Kris Kristofferson, ritratto breve di un attivista analogico (rollingstone.it)

di

L’alternativo è il tuo papà

 (Kris Kristofferson e Martin Sheen in una manifestazione del 1987 contro un test nucleare Foto: Steve Northup/Getty Images)

Ha pagato per le sue scelte, ma ha tirato dritto per la sua strada. «Venderei di più se fossi un redneck di destra, ma faccio questo mestiere per dire la verità». Elogio di uno spirito libero

Kris Kristofferson doveva sentirsi a casa in quel contesto. Era il 1995 e apriva un concerto di Johnny Cash sponsorizzato da una radio country in un posto fuori Philadelphia. È cambiato tutto quando ha dedicato un pezzo a Mumia Abu-Jamal, il giornalista e attivista ed ex membro delle Pantere Nere condannato a morte nel 1981 per l’omicidio di un poliziotto proprio a Philadelphia.

La gente ha iniziato a fischiare pungolata dai paragoni fatti da Kristofferson: Abu-Jamal come Martin Luther King Jr., come John F. Kennedy, come Malcolm X, come Gandhi. Il Philadelphia Daily News lo definì «un altro idiota hollywoodiano male informato» e la radio country che sponsorizzava il concerto smise di passare la sua musica (non che prima lo suonassero granché).

Non era né la prima, né l’ultima volta che Kristofferson esponeva con chiarezza le sue idee sulla politica o su altre questioni. Dopo la sua morte, avvenuta lo scorso 28 settembre a 88 anni d’età, è stato ricordato per lo più come autore di canzoni e come attore, ma è stato anche un attivista in prima linea e spesso coinvolto in cause controverse, e questo per oltre mezzo secolo. Questo lato lo rendeva diverso dai colleghi che bazzicavano e bazzicano ancora il country e il pop.

Cresciuto a Brownsville, Texas, aveva un legame diciamo così innato coi lavoratori ispanici per via della sua tata Juanita Cantu. «Parlavo spagnolo prima ancora di parlare inglese», ha detto nel 1982. «Sentivo vicini i lavoratori agricoli e i loro problemi».

Tutto questo ha portato anni dopo alle prime prese di posizione pubbliche, come quando ha sostenuto il sindacato United Farm Workers, il cui co-fondatore Cesar Chavez s’è battuto per migliorare le condizioni di lavoro e l’assistenza sanitaria dei lavoratori del settore agricolo. Per Kristofferson era «una delle persone più ispirate del pianeta».

Lavorare al suo fianco, ad esempio per spingere la Proposition 14 volta a garantire l’accesso dei sindacalisti ai lavoratori agricoli sul posto di lavoro, gli fece capire quant’era dura la lotta che c’era da affrontare. «I ragazzi del college di oggi mi riportano indietro agli anni ’50», diceva nel 1978. «Dicono: “Non permetterò che tolgano il cibo dalla bocca del mio bambino”. Ma sono loro che ti mettono quel cibo in tavola… Che delusione, non sapevo ci fossero così tanti piccoli repubblicani in circolazione».

Sono poi arrivate lotte ben più controverse. Ha appoggiato la causa di Leonard Peltier, il nativo americano condannato per l’omicidio di due agenti dell’FBI che cercavano l’autore di una rapina, che non era Peltier, il quale si è sempre detto innocente. Kristofferson c’era al concerto per Peltier del 1987 al fianco di Jackson Browne, Willie Nelson e Joni Mitchell. Salito sul palco, disse che l’uomo era stato preso di mira per il suo attivismo, beccandosi una ramanzina dal procuratore federale che seguiva il caso.

Due radio della California meridionale vietarono le canzoni sue e di Nelson. «Passare i suoi dischi significherebbe mettere in dubbio la reputazione degli agenti e non sarebbe giusto», disse il direttore di una delle stazioni. Secondo Kristofferson, la sua amicizia con Vanessa Redgrave e le controverse prese di posizione pro Palestina gli sono costate degli ingaggi negli anni ’70.

Tutto ciò non ha avuto alcun impatto su Kristofferson. Anzi, lo ha spinto a battersi per altre cause. A fine anni ’80 ha partecipato a una manifestazione pro Irlanda e anti Inghilterra a San Francisco. Nel 1987 ha protestato con Martin Sheen contro un test nucleare condotto dal governo degli Stati Uniti.

Nel 1990 ha pubblicato Third World Warrior, un album politico che ha tolto il sonno ai pr della casa discografica. Durante il concerto che aprì per Cash gli dissero che i poliziotti che erano tra il pubblico erano infuriati per via dei commenti su Abu-Jamal. Non fece una piega. Chiese a Cash che ne pensasse, ricevendo come risposta un «non devi scusarti di niente» e un invito a cantare con lui.

E chi può scordare le immagini di Kristofferson che consola Sinéad O’Connor, rischiando di diventare a sua volta oggetto dell’ira dei fan, quando la cantante venne fischiata al concerto per il 30esimo anniversario di Bob Dylan nel 1992? «Non farti abbattere da quei bastardi», le ha sussurrato all’orecchio. «Fischiare quella ragazza così coraggiosa m’è sembrato sbagliato», ha detto poi.

Negli anni ’10 è rimasto fedele alla linea, si è esibito a favore dell’United Farm Workers con Los Lobos e Ozomatli e per altre cause care ai lavoratori agricoli. «Sono stato un radicale per un sacco di tempo», ha detto a Esquire. «Venderei di più se fossi un redneck di destra, ma faccio questo mestiere per dire la verità».

Quanti sono oggi i musicisti country che si schierano fermamente e pubblicamente a sostegno di cause che potrebbero costare loro metà del pubblico che hanno? A Kristofferson battagliare per le sue convinzioni non dispiaceva, anzi, tutt’altro. “Combatterò e morirò per la libertà”, cantava in Third World Warrior, “contro un’aquila o un orso”.

Da Rolling Stone US.