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Il lungo cammino verso l’Oscar di Vermiglio è partito da Bologna (rivistastudio.com)

di Maria Luisa Tagariello

Cinema

Maura Delpero ci ha vissuto e studiato, e qui ha conosciuto Francesca Andreoli, che assieme a lei ha scommesso tutto su questo film.

Proprio con Andreoli abbiamo parlato della difficilissima produzione e del sorprendente successo di Vermiglio.

Il film è ambientato nel corso di quattro stagioni, tra la guerra e la pace, un momento cerniera che mi ha permesso di raccontare il passaggio tra l’antico e il moderno, il paese e la città, il comunitario e l’individuale. I personaggi sono in bilico tra questi due mondi, in particolare le ragazze: sono completamente dentro il loro tempo, con le leggi del patriarcato, e allo stesso tempo fremono, hanno già un’ansia di autodeterminazione».

A spiegarlo è Maura Delpero alla proiezione bolognese di Vermiglio, il film premiato a Venezia con il Leone d’argento – Gran Premio della Giuria.

A Bologna la regista, originaria di Bolzano, ha studiato, cibandosi dei film della Cineteca, mentre bolognese doc è Francesca Andreoli, produttrice e socia fondatrice – insieme e Leonardo Guerra Seràgnoli, a Delpero stessa e a Santiago Fondevila Sancet – dell’esordiente Cinedora, che sul film ha scommesso. Nella sala è palpabile il calore di amici e parenti venuti a dare il proprio sostegno. Sarà di pochi giorni dopo la notizia che Vermiglio è stato scelto per rappresentare l’Italia agli Oscar.

«Sono tutti personaggi in bilico. Le donne del resto lo sono sempre – mi chiedo se in futuro le nostre nipoti potranno dire di non esserlo. Noi lo siamo, le protagoniste di Vermiglio lo erano ancora di più», continua Delpero, anche lei, come tutte, in bilico tra lavoro e famiglia (non è passato inosservato, nel discorso della regista a Venezia, l’augurio per una società meno discriminatoria nei confronti delle donne), tra talento e giusto riconoscimento.

E se è vero, come è vero, che le registe sono ancora poche, e l’Italia si colloca persino sotto la media europea per numero di film diretti da donne, ecco allora che il risultato ottenuto da Vermiglio ha qualcosa di eccezionale.

Un’ eccezionalità a cui non è del tutto nuova Francesca Andreoli che con Tempesta, casa di produzione bolognese, si è occupata di altri esordi al femminile, tra cui Le meraviglie (2014) e Lazzaro felice (2018) della oggi celebratissima Alice Rohrwacher.

A Tempesta, fondata nel 2009 da Carlo Cresto-Dina con un focus particolare su esordi e nuovi talenti, Andreoli era approdata dopo undici anni alla Cineteca, tra i più importanti centri di conservazione e restauro cinematografico cui fanno capo quattro sale: la biblioteca di cinema Renzo Renzi, il Fondo Pier Paolo Pasolini, la Film Commission del capoluogo emiliano, oltre a festival e manifestazioni che attirano in città i nomi più importanti del cinema internazionale (basti pensare che Wes Anderson l’ha paragonata al Louvre e al Prado per la ricchezza di offerta).

«Ho conosciuto Maura da spettatrice», mi racconta Andreoli, che raggiungo al telefono mentre è in partenza per la Corea dove Vermiglio verrà presentato al Busan International Film Festival. «Lavoravo alla selezione per Visioni Italiane [concorso nazionale per corto, mediometraggi e documentari della Cineteca, ndr] quando ho visto i suoi primi documentari. Erano bellissimi. Già si potevano intuire uno sguardo poetico e una costruzione narrativa raffinata, capace di trasmettere emozioni.

Ci siamo conosciute, e nel corso degli anni siamo rimaste in contatto, ci sentivamo, ci aggiornavamo sui rispettivi percorsi e, quando riuscivamo, ci incontravamo. Con Vermiglio ci è venuta l’idea un po’ folle di aprire una società insieme, coinvolgendo anche Leonardo e il marito di Maura, Santiago. La nascita di Cinedora è strettamente legata a questo film e al progetto della sua realizzazione».

Follia è una parola che ricorre spesso anche nelle interviste di Delpero che, nel discorso di ringraziamento a Venezia, non ha dimenticato Cinedora, «nuova casa di produzione italiana che ha avuto la matta idea di iniziare con un film difficilissimo, con i bebé, i bambini, gli animali, la neve, il dialetto e chi più ne ha più ne metta».

Se a questo si aggiunge una regista donna (in un mondo, quello del cinema, ancora dominato dagli uomini), un’opera seconda, un cast di esordienti e attori non professionisti – con l’eccezione del superbo Tommaso Ragno nei panni del padre della numerosa famiglia Graziadei – si comprende ancora meglio la scelta della parola follia.

«Questo è forse il film a cui ho lavorato più intensamente, per via della costruzione produttiva complessa e ambiziosa», ammette Andreoli, «Io la definisco una lucida follia», una scommessa, certo, ma fatta su una valida sceneggiatura («bellissima già alla sua prima stesura, quasi un romanzo»), e su un’autrice che, con l’opera prima Maternal, aveva già ottenuto importanti riconoscimenti a Locarno e a Cannes.

«Maura Delpero era un talento che andava solo coltivato. Le servivano gli strumenti per esprimersi al meglio. Come tutti gli autori, aveva bisogno di un impianto produttivo che la sostenesse e la guidasse, di un budget che le permettesse di avere tutto ciò che le occorreva per la realizzazione del film in fase di riprese. E soprattutto bisognava darle tempo: per pensare, per scrivere, per costruire quel mondo che adesso vediamo sullo schermo. Questo tempo noi glielo abbiamo concesso».

Il tempo, quasi infinito, necessario alla ricerca delle location e degli attori, alla loro preparazione – un anno di prove con la coach Alessia Barela – «perché quei ragazzi incarnavano perfettamente i volti, i movimenti, la presenza che Maura ricercava, ma non erano preparati. Dovevano superare la timidezza ed entrare in confidenza tra di loro per interpretare con naturalezza una famiglia».

E poi il tempo meteorologico, che ha rappresentato una sfida ulteriore: «Il film è stato girato in due momenti: per avere tutte e quattro le stagioni della sceneggiatura abbiamo dovuto filmare la primavera e l’estate, fermarci, aspettare l’inverno, e riprendere. Volevamo la neve, per non dover ricorrere a costosissimi effetti speciali, e la neve è arrivata, talmente tanta che, a quel punto, abbiamo dovuto affrontare problemi logistici e organizzativi».

Follia, dunque. Sogno che si avvera. Andreoli parla anche di «miracolo» quando ripensa al Leone d’argento e alla possibile candidatura agli Oscar. Ma se il miracolo ha in sé la casualità e la fortuna, quest’opera collettiva che è Vermiglio è invece frutto della determinazione e dell’impegno di tanti. Lavorando sodo, insomma, si ottengono i risultati.

«Non è sempre così, purtroppo», commenta. «Con il cinema d’autore non è scontato intercettare il gusto e l’attenzione del pubblico», attenzione che al momento il pubblico sembra disposto a concedere: distribuito da Lucky Red in 100 sale italiane, Vermiglio è in cima al box office.

Dopo Venezia il film parteciperà, accompagnato dai suoi produttori, ad altri festival in giro per il mondo (dal già citato Busan Film Festival in Corea del Sud a Valladolid, da Montpellier a New York) dove testerà la risposta internazionale, e comincerà la road map verso gli Oscar: l’annuncio della shortlist da parte dell’Academy è previsto per il 17 dicembre 2024, mentre le nomination saranno comunicate il 17 gennaio 2025. Infine il 2 marzo 2025 avrà luogo la cerimonia degli Academy Awards a Los Angeles.

«La strada è ancora lunga. Abbiamo fatto un primo passo importante, e ora andiamo avanti. Come ha detto Maura in conferenza stampa, dobbiamo fare come gli alpinisti che, mentre scalano le montagne, guardano soltanto il chiodo che hanno piantato, non guardano né su né giù, per evitare lo shock dell’abisso. Quindi piantiamo il chiodo e concentriamo lo sguardo su quello, piantiamo il successivo e vediamo se ci porta un po’ più su».

Kris Kristofferson, ritratto breve di un attivista analogico (rollingstone.it)

di

L’alternativo è il tuo papà

 (Kris Kristofferson e Martin Sheen in una manifestazione del 1987 contro un test nucleare Foto: Steve Northup/Getty Images)

Ha pagato per le sue scelte, ma ha tirato dritto per la sua strada. «Venderei di più se fossi un redneck di destra, ma faccio questo mestiere per dire la verità». Elogio di uno spirito libero

Kris Kristofferson doveva sentirsi a casa in quel contesto. Era il 1995 e apriva un concerto di Johnny Cash sponsorizzato da una radio country in un posto fuori Philadelphia. È cambiato tutto quando ha dedicato un pezzo a Mumia Abu-Jamal, il giornalista e attivista ed ex membro delle Pantere Nere condannato a morte nel 1981 per l’omicidio di un poliziotto proprio a Philadelphia.

La gente ha iniziato a fischiare pungolata dai paragoni fatti da Kristofferson: Abu-Jamal come Martin Luther King Jr., come John F. Kennedy, come Malcolm X, come Gandhi. Il Philadelphia Daily News lo definì «un altro idiota hollywoodiano male informato» e la radio country che sponsorizzava il concerto smise di passare la sua musica (non che prima lo suonassero granché).

Non era né la prima, né l’ultima volta che Kristofferson esponeva con chiarezza le sue idee sulla politica o su altre questioni. Dopo la sua morte, avvenuta lo scorso 28 settembre a 88 anni d’età, è stato ricordato per lo più come autore di canzoni e come attore, ma è stato anche un attivista in prima linea e spesso coinvolto in cause controverse, e questo per oltre mezzo secolo. Questo lato lo rendeva diverso dai colleghi che bazzicavano e bazzicano ancora il country e il pop.

Cresciuto a Brownsville, Texas, aveva un legame diciamo così innato coi lavoratori ispanici per via della sua tata Juanita Cantu. «Parlavo spagnolo prima ancora di parlare inglese», ha detto nel 1982. «Sentivo vicini i lavoratori agricoli e i loro problemi».

Tutto questo ha portato anni dopo alle prime prese di posizione pubbliche, come quando ha sostenuto il sindacato United Farm Workers, il cui co-fondatore Cesar Chavez s’è battuto per migliorare le condizioni di lavoro e l’assistenza sanitaria dei lavoratori del settore agricolo. Per Kristofferson era «una delle persone più ispirate del pianeta».

Lavorare al suo fianco, ad esempio per spingere la Proposition 14 volta a garantire l’accesso dei sindacalisti ai lavoratori agricoli sul posto di lavoro, gli fece capire quant’era dura la lotta che c’era da affrontare. «I ragazzi del college di oggi mi riportano indietro agli anni ’50», diceva nel 1978. «Dicono: “Non permetterò che tolgano il cibo dalla bocca del mio bambino”. Ma sono loro che ti mettono quel cibo in tavola… Che delusione, non sapevo ci fossero così tanti piccoli repubblicani in circolazione».

Sono poi arrivate lotte ben più controverse. Ha appoggiato la causa di Leonard Peltier, il nativo americano condannato per l’omicidio di due agenti dell’FBI che cercavano l’autore di una rapina, che non era Peltier, il quale si è sempre detto innocente. Kristofferson c’era al concerto per Peltier del 1987 al fianco di Jackson Browne, Willie Nelson e Joni Mitchell. Salito sul palco, disse che l’uomo era stato preso di mira per il suo attivismo, beccandosi una ramanzina dal procuratore federale che seguiva il caso.

Due radio della California meridionale vietarono le canzoni sue e di Nelson. «Passare i suoi dischi significherebbe mettere in dubbio la reputazione degli agenti e non sarebbe giusto», disse il direttore di una delle stazioni. Secondo Kristofferson, la sua amicizia con Vanessa Redgrave e le controverse prese di posizione pro Palestina gli sono costate degli ingaggi negli anni ’70.

Tutto ciò non ha avuto alcun impatto su Kristofferson. Anzi, lo ha spinto a battersi per altre cause. A fine anni ’80 ha partecipato a una manifestazione pro Irlanda e anti Inghilterra a San Francisco. Nel 1987 ha protestato con Martin Sheen contro un test nucleare condotto dal governo degli Stati Uniti.

Nel 1990 ha pubblicato Third World Warrior, un album politico che ha tolto il sonno ai pr della casa discografica. Durante il concerto che aprì per Cash gli dissero che i poliziotti che erano tra il pubblico erano infuriati per via dei commenti su Abu-Jamal. Non fece una piega. Chiese a Cash che ne pensasse, ricevendo come risposta un «non devi scusarti di niente» e un invito a cantare con lui.

E chi può scordare le immagini di Kristofferson che consola Sinéad O’Connor, rischiando di diventare a sua volta oggetto dell’ira dei fan, quando la cantante venne fischiata al concerto per il 30esimo anniversario di Bob Dylan nel 1992? «Non farti abbattere da quei bastardi», le ha sussurrato all’orecchio. «Fischiare quella ragazza così coraggiosa m’è sembrato sbagliato», ha detto poi.

Negli anni ’10 è rimasto fedele alla linea, si è esibito a favore dell’United Farm Workers con Los Lobos e Ozomatli e per altre cause care ai lavoratori agricoli. «Sono stato un radicale per un sacco di tempo», ha detto a Esquire. «Venderei di più se fossi un redneck di destra, ma faccio questo mestiere per dire la verità».

Quanti sono oggi i musicisti country che si schierano fermamente e pubblicamente a sostegno di cause che potrebbero costare loro metà del pubblico che hanno? A Kristofferson battagliare per le sue convinzioni non dispiaceva, anzi, tutt’altro. “Combatterò e morirò per la libertà”, cantava in Third World Warrior, “contro un’aquila o un orso”.

Da Rolling Stone US.

Il Papa dice cose cattoliche, gli altri hanno idee che non condividiamo e l’internet non sa mai niente (linkiesta.it)

di

Ma tu pensa

Solo la gente sui social può sorprendersi ogni volta che Bergoglio, il Pontefice che sembra simpatico e moderno, se ne esce con frasi retrive su temi come l’aborto e la frociaggine

Ma tu pensa, chi l’avrebbe mai detto: il capo della chiesa cattolica dice cose che stanno nella dottrina della chiesa cattolica. Ma tu pensa, chi l’avrebbe mai detto: la chiesa cattolica preferisce che, se sei incinta ma non ti eri accoppiata a scopo riproduttivo (il che già mi pare poco cattolico), tu partorisca dando il bambino in adozione, invece che farlo uccidere da uno pagato per farlo (sul vocabolario, la definizione di «sicario»).

Ma tu pensa, chi l’avrebbe mai detto: il capo della chiesa cattolica dice cose non solo in disaccordo con le convinzioni d’ogni bravo progressista – d’ogni tizio che inserisce «antifa» tra le note biografiche con cui si presenta ai social – ma pure in disaccordo con qualunque persona sensata di questo secolo, un secolo in cui pure quelle che hanno fatto le scuole cattoliche e sanno le preghiere in latino mica dicono il rosario, la sera.

Ma tu pensa, chi l’avrebbe mai detto: la chiesa cattolica ha convinzioni di retroguardia talmente non condivise da nessuno che non faccia parte delle gerarchie cattoliche che sembra a tutte assurda la storia della ragazza che ha partorito e sepolto i bambini, che certo è una storia tragica perché sono stati ammazzati (da lei o da chi per lei) due neonati, ma soprattutto è una storia inconcepibile per noialtre contemporanee, noialtre che non credevamo esistesse in questo secolo una che il figlio indesiderato lo partorisce invece di abortirlo.

Ma tu pensa, chi l’avrebbe mai detto: il Papa simpatico, il Papa apparentemente non retrivo come il predecessore, il Papa con la calata spagnola che subito fa amicone invece che teologo respingente come l’accento tedesco, il Papa che sembrava uscito da quella canzonetta in cui al posto dei dogmi religiosi c’era «un prete per chiacchierar», quel Papa lì, ohibò, è un Papa.

Ma tu pensa, chi l’avrebbe mai detto: anche oggi i social s’indignano per una cosa che qualunque persona sensata sapeva, o forse s’indignano per quel dettaglio messo a fuoco da David Sedaris, che un mese fa, sul New Yorker, ha raccontato l’udienza che il Papa ha concesso a giugno a centinaia di comici, centinaia di comici nessuno dei quali era finora riuscito a fare una cronaca divertente dell’incontro, il che chissà cosa ci dice, forse che devi lavorare mesi a un pezzo di lunghezza New Yorker invece che giorni a un minuto di monologo in apertura di programma, per rendere una mattina del genere. Comunque, Sedaris scrive la sua cronaca, che contiene le righe che traduco qua sotto.

«Stiamo parlando di un uomo che era appena stato beccato a usare una parola italiana, frociaggine, per la seconda volta in tre settimane. Dopo la nostra visita, raccontata a quanto pare da qualunque testata giornalistica del pianeta, la gaffe verrà ripescata più e più volte, specialmente negli editoriali, da gente convinta che, se fosse stata invitata in Vaticano, sarebbe rimasta a casa per protesta, o sarebbe andata a fare una piazzata, una piazzata con lancio di vernice, magari. Ma a me non aveva dato fastidio. Quando avevo sentito che il Papa aveva detto “frociaggine”, avevo riso, più che altro perché è una parola buffa. E poi non è una parola che usi per insultare qualcuno, mica è “Taci, frocio”. È una parola che connota un comportamento: “Togliti di torno, tu e la tua frociaggine”. […] Ho la sensazione che, se si vuole una chiesa che sia al cento per cento a favore dei gay, sia bene aderire a una di quelle che già ci sono, o fondare la propria. Già sento qualcuno lagnarsi, “Ma io voglio che Nostra Signora dei Sette Dolori festeggi il Pride”. È come andare da Burger King e chiedere un Big Mac. Se vuoi un Big Mac, attraversa la strada e vai da McDonald’s. Gesù».

Ma tu pensa, chi l’avrebbe mai detto: Burger King non fa il Big Mac. Ma tu pensa, chi l’avrebbe mai detto: il cattolicesimo, con tutte quelle baracconate di processioni e altre iconografie della frociaggine, tuttavia continua a essere una religione in cui si preferiscono le famiglie tradizionali (quelle di uomini e donne e corna e figli, anche illegittimi e abbandonati ma insomma fatti nascere) alle zitelle coi cani e coi gatti e con la 194.

Ma tu pensa, chi l’avrebbe mai detto: il fatto che Madonna Ciccone, regina della frociaggine, si vesta da Madonna dei Sette Dolori per andare alla sfilata di Dolce e Gabbana, dimostrando per la milionesima volta che la cultura della frociaggine è permeabile dall’iconografia cattolica, non rende la faccenda biunivoca; non cambia il fatto che la chiesa cattolica non solo pensa che si debba figliare, ma pure che lo si debba fare in modi tradizionali.

D’altra parte Sedaris racconta di lui che entra in un negozio di paramenti nel centro di Roma e si compra la tunica da prete che ha sempre desiderato, sebbene consapevole del suo non essere prete solo perché vestito da prete, e del fatto che un costume di scena è solo un costume di scena: se fai indossare a un panino di Burger King la velina del negozio di fronte, quello mica diventa un Big Mac.

Ma tu pensa, chi l’avrebbe mai detto: ogni tanto oltre che per il Papa l’internet si scandalizza pure per Dolce e Gabbana, che hanno osato dirsi contrari alla gestazione per altri praticata da busoni che vogliono figli. Ma tu pensa, chi l’avrebbe mai detto: gli altri hanno idee che non condividiamo, dove andremo a finire se non ci diamo fuoco in piazza ogni volta che accade, com’è mai possibile che nel 2024 i buoni non abbiano ancora colonizzato il pensiero occidentale nella sua interezza e qualcuno osi ancora pensarla come gli pare e persino alle cene ogni tanto tocchi, ohibò, trovarsi in disaccordo.

Sedaris scrive anche che a lui «frociaggine» non ha dato fastidio «perché non sono queer, sono gay. La differenza è che la gente queer si offende per qualunque cosa. I gay al massimo si chiedono cosa mettersi per la visita in Vaticano e quale sia il cerimoniale per l’occasione».

Il busone in me la capisce, Sedaris: noialtre che siamo cresciute nelle scuole cattoliche ma anche solo con delle nonne abbonate a Gente o a Oggi, noi sappiamo che per una visita in Vaticano le donne si vestono di nero tranne se sono regine di Stati cattolici (in quel caso possono vestirsi di bianco, e tecnicamente è quello, il «privilegio bianco», non quello di cui cianciano le pensatrici di Instagram smaniose di guarirci dai razzismi veri ma più che altro da quelli immaginari).

Ma tu pensa, chi l’avrebbe mai detto: l’internet non sa neanche questo e, quando Ivanka Trump o altra impresentabile va in Vaticano correttamente vestita di nero, la sbeffeggia. Ignara come sempre, l’internet, di stare sbeffeggiando il proprio non sapere mai un cazzo di niente.

Talmente mai un cazzo di niente, che riesce a sorprendersi ogni volta che il Papa dice qualcosa di cattolico.

La voce della Storia di Elsa Morante (doppiozero.com)

di Elena Porciani

Una storia romanzesca

La Storia offre una peculiare variante della formazione di compromesso fra realistico e romanzesco che sostiene la narrativa maggiore di Morante.

In questa direzione, si deve in primo luogo registrare l’alta frequenza in chiave di paragone e similitudine di termini come “impresa”, “eroe”, “favola”, “fantastico”, oltre al consueto “avventura”. Sono tuttavia principalmente due le aree della Storia in cui agisce l’azione dell’immaginario romanzesco dell’autrice: l’elevato numero di sogni e visioni dei personaggi e il ricorso al cronotopo della strada.

Circa quaranta sono le sequenze oniriche vere e proprie, dettagliate o solo menzionate come i «tòppi sogni» di Useppe, alcune delle quali costituite da gruppi di sogni consecutivi, altre relative persino ad animali, come nel caso del «sogno d’amore» di Blitz.

Non meno cospicuo e variegato è il corpus dei sogni a occhi aperti, nelle varie declinazioni di «sogni bovaristici» come quelli di Nora, di ideali politici come la rivoluzione «sognata» da Giuseppe Ramundo, ma anche le follie distorte di «Mussolini e Hitler [che], a loro modo, erano dei sognatori», di allucinazioni come quelle di Davide sotto gli effetti della droga.

Nel romanzo, tuttavia, i sogni non esauriscono il loro ruolo nelle più svariate forme di contenitori psichici. Morante recupera la sua antica fascinazione romanzesca per l’onirico conferendole un nuovo spessore antropologico-trascendente, tale da creare una formazione di compromesso con la più immediata dimensione realistica del romanzo storico.

Siamo di fronte, detto altrimenti, a una nuova manifestazione dell’ipergenere romanzo della scrittrice, al cui interno i modi narrativi del realistico e del romanzesco sono posti in dialogo tra di loro in una maniera che è ancora diversa rispetto a Menzogna e sortilegio L’isola di Arturo. Di qui la circostanza che il personaggio che sogna più di tutti, anche se rari sono i sogni lieti, sia Ida. Ciò potrebbe sembrare a prima vista in contraddizione con il fatto che Ida appaia la figura più miserevole del romanzo, ma in realtà in tal modo si corrobora lo speciale rapporto che essa intrattiene con la sfera del sacro.

L’ipertrofica vita onirica di Ida, legata alle sue deboli difese cognitive ancora prima che culturali, rende il suo inconscio più esposto all’invasione della Storia, ma proprio per questo lo carica di una maggiore responsabilità narrativa, in grado di dischiudere il significato più profondo del romanzo. Lo sconfinato teatro onirico di Ida ha la capacità di rappresentare le sorti dell’intera umanità, una funzione che raggiunge il suo picco nei sogni che adombrano la tragedia della Shoah: «Altro non c’era che delle scarpe ammucchiate, malridotte e polverose, che parevano smesse da anni.

E lei, là sola, andava cercando affannosamente nel mucchio una certa scarpina di misura piccolissima, quasi di bambola, col sentimento, che, per lei, tale ricerca avesse il valore di un verdetto definitivo».

Si tratta di un sogno che segue una delle sequenze nelle quali la funzione sacrale di Ida meglio si esplica, ossia la peregrinazione, come in trance, che essa compie il 1° giugno 1944 nel Ghetto ebraico ormai deserto dopo la deportazione di massa del 16 ottobre 1943 e gli ulteriori rastrellamenti dei nazifascisti nei mesi successivi.

Ida non formula pensieri compiuti e coerenti, ma sente dentro di sé tutta l’enormità dell’esperienza, nei termini di un’«allucinazione auditiva» che le fa percepire le voci della vita quotidiana degli abitanti scomparsi, in una versione tumultuosa e sconclusionata: «Senza sapere quel che diceva, né perché, Ida si trovò a mormorare da sola, col mento che le tremava come ai bambinelli sul punto di piangere: “Sono tutti morti”».

Siamo di fronte a un fenomeno di fantasticizzazione, ossia di una connotazione perturbante, evidente nel gioco reciproco di «esotico» e «familiare», dell’ambientazione realistica di fondo. Al contempo, il fatto che, resa semicosciente dalla fatica della lotta quotidiana per la sopravvivenza sua e di Useppe, Ida sia arrivata nel Ghetto durante le sue peregrinazioni per le strade di Roma, ci conduce all’altra principale strategia di riuso del romance nella Storia: la caratterizzazione della città non solo come scenario principale delle vicende raccontate, ma proprio come cronotopo urbano che consente di sviluppare l’intreccio grazie agli incontri casuali che avvengono per le sue strade.

Ed è qui che si tocca il cuore della dimensione romanzesca della città, come è evidente sin dall’incipit, in cui vediamo Gunther «girovagare nel quartiere di San Lorenzo, a Roma», dopo esservi capitato, nella sua solitudine, «senza nessuna scelta».

Dopodiché, «fece ancora qualche passo sui marciapiedi, poi svoltò a caso e al primo portone che trovò si fermò sulla soglia» e qui si imbatte in una «donnetta d’apparenza dimessa ma civile, che in quel punto rincasava, carica di borse e di sporte», che altri non è se Ida, dando avvio a quella successione di eventi – lo stupro, la gravidanza, la nascita di Useppe – che dà avvio all’intreccio della Storia.

La casualità dell’incontro, peraltro, contribuisce a rappresentare sin da subito anche gli effetti negativi delle Potenze e Poteri del «gran mondo» sulle piccole storie periferiche della quotidianità: i due personaggi che si incontrano, anziché solidarizzare in nome della comune inermità rispetto a eventi tanto più grandi di loro, interagiscono attraverso i ruoli di carnefice e vittima assegnati dall’indifferenza irriguardosa della Storia, che non esita, nella circostanza, a metterli l’uno contro l’altra.

La vicenda si sposta poi sul nucleo familiare dei Ramundo-Mancuso, che seguiamo nei vari alloggi di Ida e Useppe, all’interno dei quali l’avventuroso Nino, prima fascista, poi partigiano, poi contrabbandiere, compie sporadicamente le sue incursioni. Anche i traslochi, come quello in via Mastro Giorgio al Testaccio, derivano da una successione casuale di eventi: Erano giorni, evidentemente, che una fortuna la assisteva.

Alla Cassa Stipendi, dove si recò, secondo il solito, a ritirare il mensile, s’incontrò stavolta con una sua collega anziana. La quale, al vederla così spersa, le propose un trasloco pronto e conveniente». Si tratta di un incontro dichiaratamente fortunato: le circostanze si ricompongono in una trama in nome della solidarietà.

Lo stesso accade in occasione dei furti che permettono a Ida di sopravvivere nel momento più duro dell’occupazione tedesca: «Fu intorno al venti maggio, di mattina presto. Era appena uscita di casa […]. A quell’ora, in istrada passava solo qualche operaio. Sbucando da una via trasversale sul lungotevere, essa scorse un camioncino fermo, davanti a un deposito di alimentari».

Approfittando della distrazione dei guardiani, Ida riesce a rubare una lattina di carne in conserva, vista – ma non denunciata – dallo scaricatore e da «due tipi di pezzenti allupati, sbucati sul lungotevere in quell’istante medesimo».

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La funzione cronotopica della città si mantiene anche nei capitoli che seguono la liberazione di Roma, solo che il movimento nello spazio urbano è adesso affidato a Useppe e alla cagna Bella, ai quali, si legge, nella «primavera-estate del ’47», l’ultima da loro vissuta, «non mancarono incontri e avventure». Innanzitutto, nei loro «vagabondaggi» scoprono, grazie all’olfatto di Bella, il locus amoenus tiberino cui si è già accennato: «una tenda esotica, lontanissima da Roma e da ogni altra città: chi sa dove, arrivati dopo un grande viaggio».

È qui che Useppe, con una naïveté francescana da F.P., riconosce «la canzonetta» degli uccelli che cinguettano «È uno scherzo / uno scherzo / tutto uno scherzo!», e fa la conoscenza dell’evaso Scimò. Non dimentichiamo poi che, nelle loro varie peregrinazioni, Useppe e Bella si imbattono anche in personaggi che sembrano tornare fuori dal nulla, come lo stesso Davide Segre o Patrizia, una delle amanti di Nino, che presenta a Useppe quella che lui non sa essere la sua nipotina: «un altro incontro inaspettato. Evidentemente, questa era l’epoca degli incontri per loro».

Il seme dell’umanità

Il riuso del romanzesco nella Storia non è un mero accessorio finzionale, ma nutre dal suo interno il sincretismo dell’opera e il suo messaggio umanistico. Più specificamente, Morante incarica la figura di Davide, coscienza intellettuale del romanzo, di mostrare in che modo la dimensione romanzesca di Roma sia collegata alla visione della Storia che regge l’opera.

Un giorno, nel corso delle loro peregrinazioni, Useppe e Bella si recano a far visita a “Vvavide”, ma, anziché trovarlo nel suo terraneo presso ponte Sublicio, lo scovano in una vicina osteria mentre sta tenendo un discorso al quale gli avventori, impegnati ad ascoltare i risultati di calcio alla radio o a giocare a carte, prestano ben poca attenzione.

Per quanto reso loquace dalla droga, Davide riesce a svolgere un’argomentazione coerente, che riprende la “filosofia della Storia” di Morante. Storia, Potere e fascismo formano una catena destinata per sua natura a schiacciare i deboli e verso la quale l’unica rivoluzione possibile sarebbe, letteralmente, quella anarchica, che conduce al non-potere e al rispetto di tutte le creature, senza distinzione di «popolo o classi o individui» o razze.

In quest’ottica la Shoah appare quale uno degli ultimi e più orribili esempi di sopraffazione umana, come Davide ben sa: «si aggrottò, stringendo le mascelle; e all’improvviso, levandosi in piedi, gridò in aria di sfida: “Io sono ebreo!”».

Egli si sente in colpa per aver rivelato un fatto così personale, ma poco dopo trova il modo per legare la sua vicenda a una più ampia interpretazione della Storia: «“[…] il Potere! È lui, la pestilensia che stravolge il mondo nel delirio… Si nasce ebrei per caso, e negri e bianchi per caso…” […] “ma non si nasce creature umane per caso!” annunciò, con un sorrisetto ispirato, quasi di gratitudine».

È questo, in realtà, «l’esordio di una poesia, composta da lui stesso parecchi anni prima, sotto il titolo La coscienza totale», la cui parola chiave è evidentemente “caso”. Il «movimento multiplo e continuo della natura» si contrappone alla fissità del «sistema sociale di decrepitudine preistorica» della Storia, così come la Causalità aberrante di quest’ultima, dovuta alle trame delle Potenze e dei Poteri, si contrappone alla casualità festosa della «creatura umana».

La dignità degli esseri umani, cioè, è di per sé così significativa e dotata di senso – «non si nasce creature umane per caso!» – che può ignorare quelle circostanze che la Storia invece considera demarcanti: l’essere nato, appunto, ebreo o nero, anzi “negro”, o bianco… Si può allora supporre che tra l’insistenza sul caso da parte di Davide – e, con lui, dell’autrice – e il motivo romanzesco dell’incontro casuale ci sia una qualche corrispondenza, non solo tematica, ma anche strutturale.

L’opposizione tra la Storia, che trasforma il caso della nascita nella Causalità violenta del fascismo, e la «volontà universale» che weilianamente afferma, al di là delle contingenze della nascita, il valore della persona, sarebbe compresa anch’essa nella dicotomia del titolo La Storia. Romanzo: perché il piccolo mondo del romanzo può narrativamente redimere le aberrazioni del «gran mondo» della Storia.

Gli incontri che in continuazione avvengono nello spazio cittadino sono frutto indiretto della sofferenza determinata dalla Storia, che spinge i personaggi, se non vogliono soccombere, verso peripezie definibili come avventure della sopravvivenza.

D’altra parte, però, tali incontri sono anche il modo in cui la dignità delle persone si ricompone a dispetto della Storia: i personaggi, con il loro semplice entrare in reciproco contatto, finiscono per costruire trame molteplici rispetto al plot univoco imposto dai Poteri e dalle Potenze superiori, dando vita a un movimento polifonico di storie personali e collettive che è, per usare le parole di Davide Segre, anch’esso «multiplo e continuo», alternativo e caotico, ma non per questo immotivato o senza senso, rispetto alla mostruosa linearità della Storia.

Questo è tanto più evidente quando i personaggi simpatizzano tra di loro e si offrono solidarietà e aiuto, come si nota dalla stessa vicenda di Ida, che sopravvive nella Roma occupata grazie agli episodi di generosità di conoscenti e sconosciuti; tuttavia, a ben vedere, anche gli incontri da cui scaturiscono episodi violenti e tragici possono contribuire a intessere una progressione narrativa centrifuga rispetto al corso della Storia, primo fra tutti lo stupro di Gunther, “perdonato” dalla procreazione di Useppe.

A questo residuo di umanità sembra alludere la finale citazione gramsciana. La circostanza che «Tutti i semi sono falliti eccettuato uno», che non si sa come evolverà, «ma probabilmente è un fiore e non un’erbaccia» non casualmente richiama, con ricorrenza autointertestuale, la definizione poetica degli F.P. nel Mondo salvato dai ragazzini: «accidenti fatali dei Moti Perpetui / semi originari del Cosmo, che volano fra poli fantastici, portati dal capriccio dei venti, / e germogliano in ogni terreno».

Ciò non significa che la plurivocità delle storie dei personaggi sia in grado di fermare la Storia, la cui violenza vince sempre, inesorabilmente, e infatti i protagonisti, a uno a uno, soccombono all’«infezione dell’irrealtà», come ancora si legge nella Nota introduttiva all’edizione del 1971 del Mondo.

Piuttosto, similmente all’utopia poetica delle Canzoni popolari, il romanzo offre una redenzione della Storia non più che squisitamente narrativa, affidata alle risorse dell’affabulazione romanzesca, ma in questo consiste del resto «la funzione dei poeti, […] oggi più che mai difficile (fino all’impossibile) eppure più che mai urgente e necessaria»: nello scrivere per «aprire la propria e l’altrui coscienza alla realtà» rispondendo a una «disperata domanda, anche inconscia, degli altri viventi».

(Estratto adattato da: Elena Porciani, Elsa Morante, la vita nella scrittura, Carocci editore, Roma, in uscita nelle librerie il 26 ottobre 2024).

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