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Salvini battezza la nuova Pontida: nasce la «Santa Alleanza dei Patrioti» (ildubbio.news)

di Mauro Bazzucchi

L’evento del Carroccio

Salvini rilancia a Pontida: sovranismo, patrioti europei e la sfida contro l’immigrazione. Sullo sfondo, le nuove alleanze e le tensioni interne. E tra la folla spunta la bandiera russa

Due anime, due storie differenti da tenere insieme. È la sfida che Matteo Salvini ha rilanciato con quella che più di un oratore ha voluto definire la “nuova Pontida” della Lega. Una kermesse internazionale, decisamente diversa da quella delle origini, dove sul palco difficilmente arrivavano argomenti che non fossero la conquista del federalismo e l’emancipazione dal centralismo “romano”. Ma diversa anche da quella degli ultimi anni, concentrata sulla politica nazionale.

È dunque un partito duale quello che esce dal pratone sacro ai militanti della prima ora, una Lega che rivendica la conquista (tutta da verificare) dell’Autonomia, ma che punta forte sul sovranismo, schierando sul palco i big della destra europea, uniti nel manifestare solidarietà al vicepremier, nel nome di una lotta senza quartiere all’immigrazione illegale e all’integralismo islamico.

Il vicepremier ha parlato di una “Santa Alleanza dei Patrioti”, e non c’è dubbio che siano stati questi gli argomenti che hanno maggiormente scaldato i cuori dei presenti – non c’era il pienone, con qualche spazio vuoto dopo le prime file – quando gli interventi hanno fatto leva sulla difesa dell’Occidente dall’invasione musulmana e dal globalismo.

Nel vecchio gioco dell’applausometro, fatta eccezione ovviamente per il leader del Carroccio, i vincitori sarebbero certamente il premier ungherese Viktor Orban e il Generale Vannacci, che non a caso sono coloro che hanno fatto maggiormente leva su argomenti come la difesa di quella che il militare ha definito la “primazia europea”.

Un boato, seguito dal cognome scandito, ha travolto il leader magiaro quando si è scagliato contro i matrimoni egualitari, la cultura gender e ha usato toni durissimi contro Bruxelles, parlando di immigrazione e affermando di essere pronto a portare i migranti fino alla capitale belga e “scaricarli” davanti alla sede della **Commissione”.

Orban sul palco di Pontida
(Orban sul palco di Pontida)

E certamente saranno rimasti delusi i veterani di Pontida, vedendo Vannacci attraversare gli stand tra ali di folla osannante e implorante un selfie. Con una punta di malignità, si potrebbe dire che il Generale abbia rubato la scena al Capitano, anche se ha rassicurato sulla sua lealtà, glissando però sulla propria adesione al Carroccio.

Qualcuno, vedendo la scena, non è riuscito a trattenersi, facendosi sentire dai cronisti presenti mentre affermava che “questo non c’entra niente con la Lega”. Voce isolata, in mezzo alle ovazioni per la vicepresidente della Fpö austriaca Marlene Svazek, che ha fatto il proprio intervento in italiano e ha detto che “questa Europa non la vogliamo, ma per fortuna i patrioti si stanno risvegliando”.

Anche il portavoce di Vox, lo spagnolo José Antonio Fuster, ha parlato in italiano, spingendo sull’identità cristiana del Vecchio Continente, mentre da Parigi l’enfant prodige della destra transalpina Jordan Bardella (non Marine Le Pen, come inizialmente annunciato) ribadiva la comune appartenenza di Rn e Lega al gruppo dei Patrioti e l’appoggio a Salvini per la vicenda Open Arms.

Ed è senza dubbio stato questo il leitmotiv di tutta la manifestazione, il cui slogan “Difendere i confini non è reato” campeggiava a caratteri cubitali sul palco: l’incoronazione del segretario del Carroccio come simbolo della resistenza delle nazioni europee all’immigrazione di massa e alle politiche immigrazioniste dell’Ue e della sinistra.

La mobilitazione è stata completa, con i gazebo per la raccolta firme in sua solidarietà presenti già dalla mattinata di sabato, gli stand con gadget dedicati esclusivamente alla vicenda Open Arms, come i “santini” che raffigurano Salvini come un criminale del Far West sotto la scritta “wanted” e vette di colore raggiunte da un militante vestito da carcerato che chiedeva di essere recluso assieme al segretario.

A qualche metro, a mezza bocca, un altro militante più realista considerava che una condanna di Salvini potrebbe avere dei riflessi positivi in termini di consenso, atteso che il segretario non finirebbe comunque dietro le sbarre.

(“Neanche un centesimo all’Italia!”)

Salvini eroe”, ha ribadito Orban, decantando le lodi di quest’ultimo e quelle di se stesso come costruttore del paese più sicuro e con meno immigrati d’Europa, mentre l’olandese Geert Wilders, non padroneggiando le sfumature della lingua di Dante, si è prodotto in un impudico “Matteo, ti amo!”, che ha provocato l’ilarità della platea.

L’intervento finale di Salvini non poteva che ruotare attorno alla richiesta di condanna: salito sul palco chiamando il coro della folla sul “noi non molliamo mai”, ha asserito di essere pronto a stare in carcere per aver difeso i confini dell’Italia e di tutto il Continente. Nella sua narrazione, la battaglia di Lepanto del 1571 fa parte della stessa storia che porta all’attacco di Hamas contro Israele dell’anno scorso, e c’è bisogno della stessa mobilitazione per salvare l’Occidente, e in questo caso anche Israele.

La cui bandiera sventolava nelle prime file, assieme alla bandiera russa con tanto di aquila bifronte, che non è certo passata inosservata e non mancherà di sollevare polemiche.

Certo, c’è spazio anche per le questioni domestiche, a partire dalla cittadinanza: dopo le scuse di sabato per i cori anti-Tajani, nella sostanza Salvini ha sostenuto l’argomento di fondo dei giovani leghisti, affermando – come Vannacci – che “la ricetta per i prossimi anni non è concedere più cittadinanze o regalarle più velocemente, la priorità dell’Italia dovrebbe essere semmai poter revocare la cittadinanza agli stranieri che commettono un reato”. “Se rapini e uccidi”, ha concluso, “via la cittadinanza e torna nel tuo Paese”.

Circa un’ora prima, contro Tajani, sempre in modo velato, si era espresso il “padre” dell’Autonomia Roberto Calderoli, criticando gli “alleati che fanno distinguo sui Lep”.

Un passaggio anche sulle tasse, dopo le polemiche innescate dalle frasi del ministro dell’Economia Giorgetti nei giorni scorsi. Prima Giorgetti in persona, dal palco, ha rivendicato le proprie origini umili e la capacità di saper discernere “chi può fare i sacrifici” da chi non può, e il concetto è stato poi rafforzato dal segretario: “Se qualcuno deve pagare qualcosa in più, paghino i banchieri. Il nostro obiettivo è abbassare le tasse alle partite Iva e aumentare gli stipendi ai lavoratori”.

Anche in questo caso, senza bisogno di un “vaffa”, le orecchie dell’altro vicepremier hanno fischiato.

Il cambiamento nelle scuole: indispensabile (quanto lontano) (corriere.it)

di Ernesto Galli della Loggia

Nella morsa dei sindacati

Da molti decenni in Italia non esiste alcuna associazione di insegnanti che per la sua consistenza sia degna di questo nome.

La partitizzazione e la sindacalizzazione tipica della nostra storia repubblicana hanno messo virtualmente fuori gioco o si sono mangiati sul nascere qualsiasi iniziativa di questo tipo. Il risultato è che in Italia qualunque discorso sulla scuola è destinato a non registrare mai l’opinione per così dire ufficiale e «informata dei fatti» di coloro che in essa hanno il ruolo evidentemente centrale.

Degli unici che hanno l’esperienza diretta di che cosa realmente succeda nelle aule scolastiche, gli unici che possono testimoniare circa le reali conseguenze dei provvedimenti che periodicamente calano su quelle aule dai cieli della politica. In Italia gli insegnanti sono virtualmente muti.

In vece loro si fanno sentire i «sindacati della scuola». O meglio, come recita il nome del più importante di essi, quello affiliato alla Cgil — debitamente imitato dagli altri — il sindacato «dei lavoratori della conoscenza»: presieduto, nel caso di quello della Cgil, da un’avvocata ex maestra elementare, come si legge su Internet.

Nel quale sindacato si ritrovano tutti e tutti insieme: i dirigenti, i docenti, il personale amministrativo, gli uscieri, i tecnici, e addetti a qualunque tipo di istituzione: che siano le scuole all’estero, le scuole pubbliche e private, le Università di qualunque tipo, le accademie, i conservatori, gli istituti di ricerca, gli istituti di formazione professionale. Mancano le scuole di tennis e di nuoto ma forse sono in lista d’attesa…

Per forza di cose un sindacato variegato e pletorico del genere, lungi dal poter essere gestito e rappresentato nei vari consessi da insegnati veri, da lavoratori veri, può esserlo solamente da funzionari professionisti del sindacalismo, da burocrati sindacali. Cioè da persone che non hanno alcuna esperienza diretta della vita e dei bisogni della scuola, dei suoi programmi, del contatto con i giovani: estranee quindi alla sua più intima natura educativa e culturale, al suo spirito.

I sindacalisti della scuola suppliscono a tutto ciò con l’ovvia adesione all’ideologia necessaria in Italia per essere iscritti al club del bravo cittadino democratico, vale a dire — cito dal capitolo «La casa comune» sul sito del Flc-Cgil: «Il ripudio della guerra e della violenza, la Resistenza, i diritti, la diversità culturale» e via di questo passo.

Si aggiunga il contenuto culturale che trasuda dai loro documenti redatti da anni all’insegna dei quattro imparaticci (da anni sempre i medesimi) del «pedagogichese» politicamente corretto.

In realtà i sindacati sanno di un solo argomento e solo ad esso sono interessati: assunzioni e retribuzioni (naturalmente la Cgil si sente anche impegnata a manifestare la sua obbligatoria avversione per ogni governo che non sia di centro-sinistra).

E quindi per essi ogni politica scolastica si riduce di fatto a un’unica cosa: al livello delle retribuzioni e all’allargamento del numero degli addetti, precari o no che siano (la nuova figura dell’«insegnante di sostegno» serve ottimamente a far aumentare di continuo il numero dei docenti mentre gli studenti diminuiscono).

È proprio sul tema delle retribuzioni i sindacati svolgono un ruolo che si rivela nefasto. Essi infatti sono convinti da sempre che la progressione degli stipendi debba essere definita solo dall’anzianità, in nessun caso dal merito. Al massimo consentono che siano previsti piccoli compensi per attività sussidiarie di cui questo o quell’insegnante può essere incaricato (in genere con il beneplacito del dirigente scolastico), ma niente di più.

Ho scritto nefasto, a ragione. La qualità dell’istruzione, infatti, dipende principalmente dalla qualità degli insegnanti. Ora è noto che mediamente in Italia tale qualità lascia alquanto a desiderare e che specie in alcune zone del Paese sia anche questa uno delle cause degli scarsi risultati conseguiti dagli alunni.

Proprio perciò da noi ci sarebbe più che mai bisogno di incentivi che premino la qualità degli insegnanti, che li sollecitino a migliorarsi, a migliorare i risultati ottenuti in aula. Anche al fine di rendere la professione dell’insegnante non già una soluzione di ripiego, come troppo spesso avviene, ma capace di attrarre i giovani più dotati. Come può essere ambìto, infatti, un lavoro nel quale sai in partenza che le tue capacità non contano nulla ai fini di quell’ovvio, necessario, riconoscimento sociale che è la retribuzione?

Per i sindacati della scuola, viceversa, lo stipendio eguale per tutti a prescindere dal merito è una necessità vitale. Solo così, infatti, essi possono assicurarsi l’esistenza degli insegnanti come massa indistinta dipendente unicamente dalla contrattazione collettiva di cui sono essi i padroni. Solo così il sindacato è in grado di mantenere una rappresentatività di fatto totalitaria e quindi un peso politico.

Ne sanno qualcosa quei pochissimi ministri dell’istruzione — ne ricordo il più noto, Luigi Berlinguer — che hanno osato cercare di mutare questo andazzo e ne sono rimasti stritolati.

È da tempo, insomma, che nella scuola il sindacato sembra privilegiare ogni volta lo status quo in opposizione a qualunque progetto rinnovatore, a qualunque cambiamento mirante ad arrestare il minaccioso declino del nostro sistema d’istruzione. Un declino destinato ai suoi esiti più disastrosi fintanto che l’opinione pubblica non aprirà gli occhi e starà muta e passiva ad assistere al triste spettacolo.

(Giulia Squillace)

Come pensare l’educazione civica? (doppiozero.com)

di Lorena Peccolo

Come pensare e progettare l’educazione civica 
in un contesto così complesso e difficile di 
crisi economica, sociale, politica e culturale? 

Ci sono due possibilità: o arrancarsi sul conservare – anzi recuperare – quello che si ha paura di perdere, o, come dice Luciano Floridi in Il Verde e il Blu, cercare “buone idee per una strategia politica di governo che valorizzi e promuova le potenzialità al meglio, non solo come società postindustriale, ma come società matura dell’informazione”.

Si tratta di porre al centro la qualità delle relazioni e dei processi, chiedendoci – con responsabilità nei confronti dei bambini e dei ragazzi – quali riferimenti e strumenti proponiamo loro per intrepretare la realtà che vivono e il mondo in cui siamo immersi. Come immaginiamo di formare competenze civiche per aiutare i ragazzi a orientarsi e inserirsi con fiducia nei contesti dei cambiamenti attuali?

Una sfida così impegnativa per la scuola, in questo momento di crisi delle democrazie e della tenuta sociale, dovrebbe trovare negli indirizzi politici indicazioni e strumenti per un dibattito aperto, per un confronto culturale e pedagogico, ma anche supporto per essere messa nelle condizioni di operare con efficacia e con effettivo impatto nella propria comunità.

Invece le Linee guida emanate dal ministro Valditara disattendono queste aspettative. Dal lungo paragrafo di “Principi a fondamento dell’educuzione civica” emerge una visione ideologica, che ben ha descritto Marco Meotto in A scuola di Individualismo qui su Doppiozero: l’ed. civica non dovrebbe essere appannaggio delle convinzioni della maggioranza che governa, perché riguarda e impegna tutta la società e tutti coloro che sono responsabile della formazione dei nostri bambini e ragazzi.

Con una lunghissima lista di obiettivi di apprendimento (49 per la scuola primaria, 56 per la scuola secondaria di primo grado, 98 per la scuola secondaria raggruppati in 42 aree tematiche) si dice alle scuole cosa deve fare: così “tanta roba” che sarà davvero difficile per le scuole inserirla nei curricoli e l’educazione civica rischierà di tradursi concretamente in un enorme elenco di contenuti tra cui scegliere con chissà quale priorità o approfondimento.

Non sono inoltre considerate nelle nuove Linee Guida le condizioni indispensabili alle scuole per operare in maniera efficace, aspetti che erano emersi nella prima attuazione dell’insegnamento dell’ed. civica e che, del tutto ignorate anche ora, limitano la possibilità di sviluppare significativi processi formativi.

j

La valenza trasversale dell’educazione civica richiede tempi e capacità di progettazione e di coordinamento dei docenti di classe che sono un aspetto molto critico.

I docenti hanno 40 ore all’anno per fare la progettazione e valutazione collegiale di tutto il PTOF e dunque di tutti i progetti e le attività della scuola; nella scuola secondaria di primo e secondo grado, i consigli di classe hanno cinque-sei incontri annuali in cui organizzare e gestire le attività di classe, comprese le progettazioni personalizzate. Come potrebbero i docenti operare insieme per l’educazione civica, che richiede molta condivisione e partecipazione?

A questo si aggiunge un ulteriore aspetto: i docenti non hanno obblighi di formazione e dunque le attività di coinvolgimento e approfondimento sull’educazione civica sono in balia della disponibilità dei docenti, che peraltro hanno urgenze di formazione su più ambiti di innovazione della didattica.

L’educazione civica, intesa come visione educativa condivisa e non come spezzatino di ore e contenuti distribuiti tra i docenti, implica poi non solo cultura pedagogica ma anche cultura organizzativa: capacità di operare in gruppo, di gestire leadership, di comunicazione e documentazione, di innovazione e autovalutazione per il miglioramento.

Come il ministero si occupa-preoccupa di questi problemi?

Nell’avvio dell’insegnamento dell’educazione civica è stato fatto un grande investimento di formazione dei referenti di ogni scuola: cosa ne è di queste figure? Non avendo un ruolo di middle management formalizzato, sono figure che non possono garantire continuità e che rischiano di operare in grandi difficoltà, date le criticità che sono state indicate sopra; non sempre riescono a guidare una progettazione unitaria della scuola e ad evitare che ogni consiglio di classe decida per conto suo cosa insegnare e cosa valutare.

A fronte di queste complessità conveniva dare alle scuole linee orientative con riferimento alla L. 92 e ai documenti di rilevanza internazionale, piuttosto che un elenco così dettagliato e parcellizzato di contenuti e obiettivi di apprendimento.

I documenti di rilevanza internazionale, importanti per la portata culturale e pedagogica, andavano utilizzati e considerati come riferimenti fondamentali di tutto l’impianto formativo e non semplicemente riportati in allegato come “documentazione di approfondimento”.

j

Penso ad esempio alle “Competenze per una cultura della democrazia” del Consiglio d’Europa  (che hanno anche utili indicatori e descrittori per la progettazione e valutazione e un impianto molto più coerente degli obiettivi di apprendimento delle Linee guida), ai documenti Unesco “Educazione alla cittadinanza globale: temi e obiettivi di apprendimento” e Educazione agli obiettivi per lo sviluppo sostenibile – obiettivi di apprendimento.

Per la cittadinanza digitale il DigComp2.2 è in parte recepito, ma era più sensato farne riferimento in modo integrale ed esplicito per incentivare le scuole a farne uso assieme agli altri strumenti il DigCompEdu e SELFIE per l’autovalutazione dell’organizzazione della scuola e dei docenti; si tratta infatti di strumenti che le scuole hanno già trovato indicati nel PIANO 4.0 di attuazione del PNRR per la costituzione di ambienti di apprendimento innovativi.

Tra le carenze –inammissibili – dei riferimenti internazionali ancor più sorprende la mancanza di connessione alle Competenze chiave di cittadinanza (citate solo due volte in modo marginale e indicate solo in allegato tra gli approfondimenti): si tratta del riferimento previsto dalla normativa (decreto ministeriale n. 14 del 30 gennaio 2024) per la progettazione e valutazione per competenze che le scuole devono effettuare nelle fasi del percorso scolastico; le otto competenze non solo indicano conoscenze e capacità ma anche gli atteggiamenti, così importanti per l’educazione civica. Le scuole dovranno considerare le 8 competenze e anche le linee guida in inutile e incomprensibile separazione.

La mancanza di impegno a dare impostazione unitaria e coerente alla dimensione della formazione della cittadinanza è anche evidente per altri ambiti della normativa e degli impegni della scuola: non è preso in considerazione il Patto di corresponsabilità che esplicita l’impegno reciproco della scuola degli studenti e delle famiglie e non si fa alcun riferimento alla progettazione strategica e alla definizione di obiettivi di apprendimento prioritari su cui la scuola deve peraltro fare rendicontazione, vincoli della progettazione del PTOF. Non si citano Indire e Invalsi e dunque si auspica che vengano definite dal Ministero le possibili forme di collaborazione e supporto alle scuole.

Infine accenniamo all’Indagine ICCS – International Civic and Citizenship Education Study promossa da IEA che si propone di vedere in che modo i giovani, in vari paesi del mondo, vengono preparati per svolgere in modo attivo il proprio ruolo di cittadini. Questa indagine dovrebbe essere considerata dal ministero e dalle scuole per come considera le competenze di cittadinanza, per come le rileva e per gli esiti che riguardano l’Italia.

Come abbiamo cercato qui di esprimere, intendiamo l’educazione civica innanzi tutto come visione educativa che interpreta le sfide che la società presenta, impegna in riflessione e richiede condivisione di come pensiamo la cittadinanza e la costruzione di una società democratica e sostenibile.

Nelle nostre scuole ci sono sensibilità e intelligenze che in questi anni hanno assunto impegni di progettazione e responsabilità di condivisione per la formazione alla cittadinanza; sapranno andare oltre all’elenco di cose da fare e alla frammentazione di ore tra docenti per dare senso alle attività che svolgono e curare le dimensioni relazionali e innovare le metodologie in ottica di trasversalità e interdisciplinarità.

j

Autonomia differenziata a rischio incostituzionalità (lavoce.info)

di  e 

I ricorsi alla Consulta proposti da quattro 
regioni tratteggiano una mappa dei possibili 
profili di incostituzionalità della legge 
Calderoli. 

Per gli aspetti finanziari vanno dalla definizione dei Lep agli effetti sui conti pubblici, alle compartecipazioni.

I ricorsi delle quattro regioni

Il ministro degli Affari regionali e delle autonomie, Roberto Calderoli, in audizione davanti alla commissione sul federalismo ha annunciato l’avvio dei negoziati con Liguria, Piemonte, Veneto e Lombardia sulle funzioni pubbliche da acquisire relativamente alle cosiddette materie non-Lep. Sull’attuazione dell’autonomia differenziata pendono però i ricorsi presentati durante l’estate dalle regioni Puglia, Toscana, Campania e Sardegna con cui viene chiesto alla Corte Costituzionale di dichiarare l’incostituzionalità totale o parziale della legge Calderoli.

Si tratta di questioni delicatissime, che riguardano il rapporto fra lo Stato e le Regioni e la tenuta dei conti pubblici, già sollevate nel corso delle audizioni in particolare da parte della Banca d’Italia e dell’Ufficio Parlamentare di Bilancio. Ma quali sono i profili di incostituzionalità messi in evidenza dai quattro ricorsi regionali?

Qui l’attenzione sarà concentrata sugli aspetti di finanza pubblica, come i trasferimenti di risorse finanziarie alle Regioni richiedenti e gli equilibri dei conti pubblici.

Ma anche al di fuori di questo perimetro, i rilievi avanzati dai ricorsi regionali sono innumerevoli, articolati e forse ancor più rilevanti di quelli di natura finanziaria: dalla mancata previsione di specifiche motivazioni nelle richieste regionali, con conseguente rischio di devoluzioni massicce e potenziale “scomparsa dall’ordinamento della potestà legislativa concorrente dello Stato”, alle carenze procedurali circa il coinvolgimento dei livelli di governo sub-nazionali (che violerebbero il principio di leale collaborazione tra Stato e Regioni) e la partecipazione del Parlamento nella valutazione e approvazione delle intese (l’attribuzione a Dpcm dell’aggiornamento dei Lep sarebbe contraria alla riserva di legge), alla discriminazione a favore delle Regioni che hanno già avviato il confronto con lo Stato prima della legge Calderoli.

Profili di incostituzionalità su Lep, conti pubblici e compartecipazioni

Quanto ai profili di illegittimità costituzionale di natura finanziaria sono tre le grandi fattispecie richiamate nei ricorsi regionali (vedi tabella). Il primo gruppo di rilievi concerne, sotto diverse prospettive, la determinazione dei livelli essenziali delle prestazioni (Lep) a cui la legge Calderoli collega meccanismi “di maggior tutela” per la devoluzione e finanziamento delle funzioni pubbliche corrispondenti rispetto agli ambiti in cui i Lep non sono rilevanti.

Viene paventata la mancata garanzia dei Lep, o un loro possibile sotto-finanziamento, quale effettiva condizione per poter procedere alla devoluzione delle materie Lep, l’arbitrarietà nella distinzione operata dalla legge Calderoli tra materie Lep e non-Lep fondata soltanto sulle risultanze del “Comitato Cassese”, il riconoscimento di una “delega in bianco” al governo a determinare i Lep per l’assenza di principi e criteri direttivi nella legge di bilancio per il 2023, richiamata dalla legge Calderoli.

Leggi anche:  La desistenza all’italiana sposta seggi in parlamento?

Il secondo insieme di rilievi riguarda le ricadute dell’autonomia differenziata sugli equilibri dei conti pubblici nazionali e sulle risorse disponibili per le Regioni — o meglio sarebbe dire, dei territori regionali — diverse da quelle che richiedono maggiore autonomia.

Si va dalla generica denuncia di un possibile “impoverimento” del quadro economico-finanziario ai rilievi più specifici che evidenziano la mancata previsione di un criterio di adeguamento nel tempo nel meccanismo di finanziamento delle materie non-Lep, la previsione della mera possibilità — e non della necessità come previsto per le Regioni a statuto speciale — del concorso delle Regioni ad autonomia rafforzata alle manovre di consolidamento fiscale, ai rischi per il coordinamento fiscale che deriverebbero dall’affidare a distinte commissioni paritetiche Stato-Regione la verifica dell’allineamento nel tempo tra fabbisogni di spesa e risorse.

L’ultimo insieme di motivi di incostituzionalità sul piano finanziario riguarda il ricorso, previsto dalla legge Calderoli, alla compartecipazione su tributi erariali riferibili al territorio regionale quale strumento esclusivo di finanziamento delle funzioni trasferite e, più in generale, ai profili di equità tra Regioni nell’attivazione dell’autonomia differenziata.

In particolare, viene rilevato come l’affidarsi alle compartecipazioni non responsabilizzerebbe i decisori regioni, come invece richiesto dall’art. 119 della Costituzione — anche se è difficile immaginare un adattamento dello schema del federalismo fiscale all’asimmetria dell’autonomia differenziata. Inoltre, si evidenzia come finanziare le materie devolute via compartecipazioni possa comportare un rischio di incapienza fiscale per le regioni “povere” in termini di gettiti tributari, che accentuerebbe i divari fra regioni.

E ancora come la mancata attuazione del maccanismo perequativo delle capacità fiscali delle Regioni, previsto dalla legge sul federalismo fiscale del lontano 2009, possa comportare iniquità nell’accesso all’autonomia differenziata su funzioni “aggiuntive” rispetto a quelle statali, che dovrebbero essere finanziate con risorse proprie regionali.

L’intreccio con il referendum popolare

Si tratta dunque di una mappa assai articolata di possibili profili di incostituzionalità, peraltro già messi in evidenza nelle audizioni di molteplici istituzioni e studiosi nel corso dell’esame parlamentare della legge Calderoli.

Leggi anche:  Chi vota alle Europee?

Ora la palla passa alla Corte costituzionale che dovrà dare prova, ancora una volta, di saper navigare in mari assai agitati, tanto più se si considera che in queste settimane si conclude la raccolta di firme per il referendum abrogativo della stessa legge, preludio, in caso di esito positivo, di una consultazione popolare nella prossima primavera.

I ricorsi regionali sono dunque destinati a intersecarsi con le prospettive della consultazione popolare. Se infatti la Consulta dovesse decidere i ricorsi regionali prima della sua valutazione sull’ammissibilità del referendum, accogliendo le censure integrali di incostituzionalità proposte dalle iniziative regionali — come quella che rileva che la Costituzione non richiede alcuna legge-quadro di attuazione — la legge Calderoli cadrebbe in toto fin dalla sua entrata in vigore (ex tunc, come dicono i giuristi) e, ovviamente, anche il referendum popolare.

Se invece l’incostituzionalità eventualmente riconosciuta dalla Corte a partire dai ricorsi regionali fosse solo parziale, cioè riguardasse specifiche disposizioni della legge Calderoli, il referendum cadrebbe per le parti censurate ma rimarrebbe in piedi per le altre. Diversamente dall’accoglimento (totale o parziale) dei ricorsi, il referendum avrebbe effetto dal momento dell’abrogazione mediante il voto popolare se questa si verificasse (ex nunc).

Tabella 1

I cattivi maestri nazional sovranisti e la lezione ben recepita dai giovani della Lega (linkiesta.it)

di

Orbán e l’orbace

Matteo Salvini ha preso le distanze dai suoi militanti che hanno dato di «scafista» ad Antonio Tajani, ma dal palco di Pontida non ha smesso di fare demagogia razzista e di farsi accompagnare dai peggiori nazionalisti d’Europa

I Patrioti dell’estrema destra sono saliti sul palco di Pontida per incoronare Matteo Salvini, l’eroe che difende i confini dell’Europa dai migranti. Dimenticando che quando lasciò in mare la Open Arms, provocando il processo a suo carico per sequestro di persona, l’allora ministro dell’Interno del governo gialloverde teneva i poveri cristi in mare in attesa che si facessero vivi i Paesi europei.

I primi a sbattergli la porta in faccia furono tutti i suoi simpatici amici che ieri lo osannavano. Molti dei quali allora erano all’opposizione, tranne il suo omologo austriaco Herbert Kickl e Viktor Orbán.

Per il premier magiaro, ieri i leghisti erano in estasi perché, mille miglia lontano dal Mediterraneo, Orbàn è un nemico giurato degli scafisti. Dal palco leghista, ha minacciato di portare gli immigrati irregolari a Bruxelles («li deponiamo davanti agli uffici», come fossero oggetti). Dove li prenda però non è chiaro visto che ha precisato che «il numero di migranti in Ungheria è zero: l’Ungheria è il posto più sicuro d’Europa».

Sono questi i cattivi maestri dei ragazzi della Lega che l’altro giorno, a Pontida, aspettando che arrivassero i grandi del partito, hanno tacciato Antonio Tajani di essere uno «scafista» perché ha presentato (finalmente) una proposta di legge sullo ius scholae.

Salvini si è scusato, ha cazziato gli autori della goliardata, ricordando loro che gli avversari stanno dall’altra parte, e che Tajani è un alleato e anche amico. Ma il termine scafista, che di solito viene scagliato contro la sinistra, è la sintesi delle tossine che si sono accumulate tra Lega e Forza Italia su tanti fronti.

Durante la campagna elettorale per le elezioni europee, si è scatenata una guerra per il secondo e il terzo posto nel centrodestra, con la vittoria al fotofinish degli azzurri. I Popolari di Tajani sono stati accusati di essere gli apripista dell’inciucio con i Socialisti nel quale trascinare i Conservatori di Giorgia Meloni. È finita con l’accordo sulla composizione della Commissione e con l’assegnazione della vicepresidenza esecutiva a Raffaele Fitto. I Patrioti sono rimasti fuori, oltre il cordone sanitario.

Poi è arrivato il successo dell’estrema destra austriaca, colonna dei Patrioti, e Tajani ha detto che va respinto ogni rigurgito nazista, cioè i Popolari non dovranno mai allearsi con Herbert Kickl. Peccato che ministro degli Esteri italiano abbia omesso di dire che il partito di Kickl (Fpö), che ieri ha mandato a Pontida una delegazione, nel 2019 faceva parte del governo austriaco guidato dal giovane Popolare Sebastian Kurz.

Oggi, tuttavia, i Popolari nei loro Paesi sono l’ultimo baluardo contro le estreme destre che ieri erano a Pontida. È chiaro quindi che nel mirino ci siano i maggiori esponenti del Ppe, a cominciare da Ursula von der Leyen, definita da sempre disastrosa da Salvini, Marine Le Pen, e Geert Wilders.

Sempre il vulcanico Orbán, che dal Ppe è stato cacciato, nei mesi scorsi ha definito il leader europeo dei Popolari Manfred Weber «diabolico, un malfattore nemico dell’Ungheria, il Belzebù della coalizione per la guerra e la migrazione». E von der Leyen? È il «maggiordomo» di Weber, ha detto Orbán.

I poveri ragazzi della Lega non hanno fatto altro che qualificare Tajani con un distillato delle lezioni impartite dai cattivi maestri, ai quali si è aggiunto il generalissimo Roberto Vannacci, il quale sul pratone di Pontida ha ricordato che la cittadinanza non si regala. Magari la gioventù leghista ha usato un termine più urticante, ma sono stati  i fratelli maggiori a indicare la via, come ha fatto Andrea Crippa, vicesegretario leghista che viene proprio dalle fila del giovanile del Carroccio. Quando questa estate è venuta fuori la proposta sullo ius scholae, Crippa ha chiesto a Forza Italia quale programma volesse seguire: «Quello del centrodestra, o quello del Pd e dei comunisti?».

I Patrioti dell’estrema destra sono saliti sul palco di Pontida per incoronare Matteo Salvini, l’eroe che difende i confini dell’Europa dai migranti. Dimenticando che quando lasciò in mare la Open Arms, provocando il processo a suo carico per sequestro di persona, l’allora ministro dell’Interno del governo gialloverde teneva i poveri cristi in mare in attesa che si facessero vivi i Paesi europei.

I primi a sbattergli la porta in faccia furono tutti i suoi simpatici amici che ieri lo osannavano. Molti dei quali allora erano all’opposizione, tranne il suo omologo austriaco Herbert Kickl e Viktor Orbán.

Per il premier magiaro, ieri i leghisti erano in estasi perché, mille miglia lontano dal Mediterraneo, Orbàn è un nemico giurato degli scafisti. Dal palco leghista, ha minacciato di portare gli immigrati irregolari a Bruxelles («li deponiamo davanti agli uffici», come fossero oggetti). Dove li prenda però non è chiaro visto che ha precisato che «il numero di migranti in Ungheria è zero: l’Ungheria è il posto più sicuro d’Europa».

Sono questi i cattivi maestri dei ragazzi della Lega che l’altro giorno, a Pontida, aspettando che arrivassero i grandi del partito, hanno tacciato Antonio Tajani di essere uno «scafista» perché ha presentato (finalmente) una proposta di legge sullo ius scholae.

Salvini si è scusato, ha cazziato gli autori della goliardata, ricordando loro che gli avversari stanno dall’altra parte, e che Tajani è un alleato e anche amico. Ma il termine scafista, che di solito viene scagliato contro la sinistra, è la sintesi delle tossine che si sono accumulate tra Lega e Forza Italia su tanti fronti.

Durante la campagna elettorale per le elezioni europee, si è scatenata una guerra per il secondo e il terzo posto nel centrodestra, con la vittoria al fotofinish degli azzurri. I Popolari di Tajani sono stati accusati di essere gli apripista dell’inciucio con i Socialisti nel quale trascinare i Conservatori di Giorgia Meloni. È finita con l’accordo sulla composizione della Commissione e con l’assegnazione della vicepresidenza esecutiva a Raffaele Fitto. I Patrioti sono rimasti fuori, oltre il cordone sanitario.

Poi è arrivato il successo dell’estrema destra austriaca, colonna dei Patrioti, e Tajani ha detto che va respinto ogni rigurgito nazista, cioè i Popolari non dovranno mai allearsi con Herbert Kickl. Peccato che ministro degli Esteri italiano abbia omesso di dire che il partito di Kickl (Fpö), che ieri ha mandato a Pontida una delegazione, nel 2019 faceva parte del governo austriaco guidato dal giovane Popolare Sebastian Kurz.

Oggi, tuttavia, i Popolari nei loro Paesi sono l’ultimo baluardo contro le estreme destre che ieri erano a Pontida. È chiaro quindi che nel mirino ci siano i maggiori esponenti del Ppe, a cominciare da Ursula von der Leyen, definita da sempre disastrosa da Salvini, Marine Le Pen, e Geert Wilders.

Sempre il vulcanico Orbán, che dal Ppe è stato cacciato, nei mesi scorsi ha definito il leader europeo dei Popolari Manfred Weber «diabolico, un malfattore nemico dell’Ungheria, il Belzebù della coalizione per la guerra e la migrazione». E von der Leyen? È il «maggiordomo» di Weber, ha detto Orbán.

I poveri ragazzi della Lega non hanno fatto altro che qualificare Tajani con un distillato delle lezioni impartite dai cattivi maestri, ai quali si è aggiunto il generalissimo Roberto Vannacci, il quale sul pratone di Pontida ha ricordato che la cittadinanza non si regala. Magari la gioventù leghista ha usato un termine più urticante, ma sono stati  i fratelli maggiori a indicare la via, come ha fatto Andrea Crippa, vicesegretario leghista che viene proprio dalle fila del giovanile del Carroccio. Quando questa estate è venuta fuori la proposta sullo ius scholae, 

Crippa ha chiesto a Forza Italia quale programma volesse seguire: «Quello del centrodestra, o quello del Pd e dei comunisti?».

(La presse)