Autonomia differenziata a rischio incostituzionalità (lavoce.info)

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I ricorsi alla Consulta proposti da quattro 
regioni tratteggiano una mappa dei possibili 
profili di incostituzionalità della legge 
Calderoli. 

Per gli aspetti finanziari vanno dalla definizione dei Lep agli effetti sui conti pubblici, alle compartecipazioni.

I ricorsi delle quattro regioni

Il ministro degli Affari regionali e delle autonomie, Roberto Calderoli, in audizione davanti alla commissione sul federalismo ha annunciato l’avvio dei negoziati con Liguria, Piemonte, Veneto e Lombardia sulle funzioni pubbliche da acquisire relativamente alle cosiddette materie non-Lep. Sull’attuazione dell’autonomia differenziata pendono però i ricorsi presentati durante l’estate dalle regioni Puglia, Toscana, Campania e Sardegna con cui viene chiesto alla Corte Costituzionale di dichiarare l’incostituzionalità totale o parziale della legge Calderoli.

Si tratta di questioni delicatissime, che riguardano il rapporto fra lo Stato e le Regioni e la tenuta dei conti pubblici, già sollevate nel corso delle audizioni in particolare da parte della Banca d’Italia e dell’Ufficio Parlamentare di Bilancio. Ma quali sono i profili di incostituzionalità messi in evidenza dai quattro ricorsi regionali?

Qui l’attenzione sarà concentrata sugli aspetti di finanza pubblica, come i trasferimenti di risorse finanziarie alle Regioni richiedenti e gli equilibri dei conti pubblici.

Ma anche al di fuori di questo perimetro, i rilievi avanzati dai ricorsi regionali sono innumerevoli, articolati e forse ancor più rilevanti di quelli di natura finanziaria: dalla mancata previsione di specifiche motivazioni nelle richieste regionali, con conseguente rischio di devoluzioni massicce e potenziale “scomparsa dall’ordinamento della potestà legislativa concorrente dello Stato”, alle carenze procedurali circa il coinvolgimento dei livelli di governo sub-nazionali (che violerebbero il principio di leale collaborazione tra Stato e Regioni) e la partecipazione del Parlamento nella valutazione e approvazione delle intese (l’attribuzione a Dpcm dell’aggiornamento dei Lep sarebbe contraria alla riserva di legge), alla discriminazione a favore delle Regioni che hanno già avviato il confronto con lo Stato prima della legge Calderoli.

Profili di incostituzionalità su Lep, conti pubblici e compartecipazioni

Quanto ai profili di illegittimità costituzionale di natura finanziaria sono tre le grandi fattispecie richiamate nei ricorsi regionali (vedi tabella). Il primo gruppo di rilievi concerne, sotto diverse prospettive, la determinazione dei livelli essenziali delle prestazioni (Lep) a cui la legge Calderoli collega meccanismi “di maggior tutela” per la devoluzione e finanziamento delle funzioni pubbliche corrispondenti rispetto agli ambiti in cui i Lep non sono rilevanti.

Viene paventata la mancata garanzia dei Lep, o un loro possibile sotto-finanziamento, quale effettiva condizione per poter procedere alla devoluzione delle materie Lep, l’arbitrarietà nella distinzione operata dalla legge Calderoli tra materie Lep e non-Lep fondata soltanto sulle risultanze del “Comitato Cassese”, il riconoscimento di una “delega in bianco” al governo a determinare i Lep per l’assenza di principi e criteri direttivi nella legge di bilancio per il 2023, richiamata dalla legge Calderoli.

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Il secondo insieme di rilievi riguarda le ricadute dell’autonomia differenziata sugli equilibri dei conti pubblici nazionali e sulle risorse disponibili per le Regioni — o meglio sarebbe dire, dei territori regionali — diverse da quelle che richiedono maggiore autonomia.

Si va dalla generica denuncia di un possibile “impoverimento” del quadro economico-finanziario ai rilievi più specifici che evidenziano la mancata previsione di un criterio di adeguamento nel tempo nel meccanismo di finanziamento delle materie non-Lep, la previsione della mera possibilità — e non della necessità come previsto per le Regioni a statuto speciale — del concorso delle Regioni ad autonomia rafforzata alle manovre di consolidamento fiscale, ai rischi per il coordinamento fiscale che deriverebbero dall’affidare a distinte commissioni paritetiche Stato-Regione la verifica dell’allineamento nel tempo tra fabbisogni di spesa e risorse.

L’ultimo insieme di motivi di incostituzionalità sul piano finanziario riguarda il ricorso, previsto dalla legge Calderoli, alla compartecipazione su tributi erariali riferibili al territorio regionale quale strumento esclusivo di finanziamento delle funzioni trasferite e, più in generale, ai profili di equità tra Regioni nell’attivazione dell’autonomia differenziata.

In particolare, viene rilevato come l’affidarsi alle compartecipazioni non responsabilizzerebbe i decisori regioni, come invece richiesto dall’art. 119 della Costituzione — anche se è difficile immaginare un adattamento dello schema del federalismo fiscale all’asimmetria dell’autonomia differenziata. Inoltre, si evidenzia come finanziare le materie devolute via compartecipazioni possa comportare un rischio di incapienza fiscale per le regioni “povere” in termini di gettiti tributari, che accentuerebbe i divari fra regioni.

E ancora come la mancata attuazione del maccanismo perequativo delle capacità fiscali delle Regioni, previsto dalla legge sul federalismo fiscale del lontano 2009, possa comportare iniquità nell’accesso all’autonomia differenziata su funzioni “aggiuntive” rispetto a quelle statali, che dovrebbero essere finanziate con risorse proprie regionali.

L’intreccio con il referendum popolare

Si tratta dunque di una mappa assai articolata di possibili profili di incostituzionalità, peraltro già messi in evidenza nelle audizioni di molteplici istituzioni e studiosi nel corso dell’esame parlamentare della legge Calderoli.

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Ora la palla passa alla Corte costituzionale che dovrà dare prova, ancora una volta, di saper navigare in mari assai agitati, tanto più se si considera che in queste settimane si conclude la raccolta di firme per il referendum abrogativo della stessa legge, preludio, in caso di esito positivo, di una consultazione popolare nella prossima primavera.

I ricorsi regionali sono dunque destinati a intersecarsi con le prospettive della consultazione popolare. Se infatti la Consulta dovesse decidere i ricorsi regionali prima della sua valutazione sull’ammissibilità del referendum, accogliendo le censure integrali di incostituzionalità proposte dalle iniziative regionali — come quella che rileva che la Costituzione non richiede alcuna legge-quadro di attuazione — la legge Calderoli cadrebbe in toto fin dalla sua entrata in vigore (ex tunc, come dicono i giuristi) e, ovviamente, anche il referendum popolare.

Se invece l’incostituzionalità eventualmente riconosciuta dalla Corte a partire dai ricorsi regionali fosse solo parziale, cioè riguardasse specifiche disposizioni della legge Calderoli, il referendum cadrebbe per le parti censurate ma rimarrebbe in piedi per le altre. Diversamente dall’accoglimento (totale o parziale) dei ricorsi, il referendum avrebbe effetto dal momento dell’abrogazione mediante il voto popolare se questa si verificasse (ex nunc).

Tabella 1

I cattivi maestri nazional sovranisti e la lezione ben recepita dai giovani della Lega (linkiesta.it)

di

Orbán e l’orbace

Matteo Salvini ha preso le distanze dai suoi militanti che hanno dato di «scafista» ad Antonio Tajani, ma dal palco di Pontida non ha smesso di fare demagogia razzista e di farsi accompagnare dai peggiori nazionalisti d’Europa

I Patrioti dell’estrema destra sono saliti sul palco di Pontida per incoronare Matteo Salvini, l’eroe che difende i confini dell’Europa dai migranti. Dimenticando che quando lasciò in mare la Open Arms, provocando il processo a suo carico per sequestro di persona, l’allora ministro dell’Interno del governo gialloverde teneva i poveri cristi in mare in attesa che si facessero vivi i Paesi europei.

I primi a sbattergli la porta in faccia furono tutti i suoi simpatici amici che ieri lo osannavano. Molti dei quali allora erano all’opposizione, tranne il suo omologo austriaco Herbert Kickl e Viktor Orbán.

Per il premier magiaro, ieri i leghisti erano in estasi perché, mille miglia lontano dal Mediterraneo, Orbàn è un nemico giurato degli scafisti. Dal palco leghista, ha minacciato di portare gli immigrati irregolari a Bruxelles («li deponiamo davanti agli uffici», come fossero oggetti). Dove li prenda però non è chiaro visto che ha precisato che «il numero di migranti in Ungheria è zero: l’Ungheria è il posto più sicuro d’Europa».

Sono questi i cattivi maestri dei ragazzi della Lega che l’altro giorno, a Pontida, aspettando che arrivassero i grandi del partito, hanno tacciato Antonio Tajani di essere uno «scafista» perché ha presentato (finalmente) una proposta di legge sullo ius scholae.

Salvini si è scusato, ha cazziato gli autori della goliardata, ricordando loro che gli avversari stanno dall’altra parte, e che Tajani è un alleato e anche amico. Ma il termine scafista, che di solito viene scagliato contro la sinistra, è la sintesi delle tossine che si sono accumulate tra Lega e Forza Italia su tanti fronti.

Durante la campagna elettorale per le elezioni europee, si è scatenata una guerra per il secondo e il terzo posto nel centrodestra, con la vittoria al fotofinish degli azzurri. I Popolari di Tajani sono stati accusati di essere gli apripista dell’inciucio con i Socialisti nel quale trascinare i Conservatori di Giorgia Meloni. È finita con l’accordo sulla composizione della Commissione e con l’assegnazione della vicepresidenza esecutiva a Raffaele Fitto. I Patrioti sono rimasti fuori, oltre il cordone sanitario.

Poi è arrivato il successo dell’estrema destra austriaca, colonna dei Patrioti, e Tajani ha detto che va respinto ogni rigurgito nazista, cioè i Popolari non dovranno mai allearsi con Herbert Kickl. Peccato che ministro degli Esteri italiano abbia omesso di dire che il partito di Kickl (Fpö), che ieri ha mandato a Pontida una delegazione, nel 2019 faceva parte del governo austriaco guidato dal giovane Popolare Sebastian Kurz.

Oggi, tuttavia, i Popolari nei loro Paesi sono l’ultimo baluardo contro le estreme destre che ieri erano a Pontida. È chiaro quindi che nel mirino ci siano i maggiori esponenti del Ppe, a cominciare da Ursula von der Leyen, definita da sempre disastrosa da Salvini, Marine Le Pen, e Geert Wilders.

Sempre il vulcanico Orbán, che dal Ppe è stato cacciato, nei mesi scorsi ha definito il leader europeo dei Popolari Manfred Weber «diabolico, un malfattore nemico dell’Ungheria, il Belzebù della coalizione per la guerra e la migrazione». E von der Leyen? È il «maggiordomo» di Weber, ha detto Orbán.

I poveri ragazzi della Lega non hanno fatto altro che qualificare Tajani con un distillato delle lezioni impartite dai cattivi maestri, ai quali si è aggiunto il generalissimo Roberto Vannacci, il quale sul pratone di Pontida ha ricordato che la cittadinanza non si regala. Magari la gioventù leghista ha usato un termine più urticante, ma sono stati  i fratelli maggiori a indicare la via, come ha fatto Andrea Crippa, vicesegretario leghista che viene proprio dalle fila del giovanile del Carroccio. Quando questa estate è venuta fuori la proposta sullo ius scholae, Crippa ha chiesto a Forza Italia quale programma volesse seguire: «Quello del centrodestra, o quello del Pd e dei comunisti?».

I Patrioti dell’estrema destra sono saliti sul palco di Pontida per incoronare Matteo Salvini, l’eroe che difende i confini dell’Europa dai migranti. Dimenticando che quando lasciò in mare la Open Arms, provocando il processo a suo carico per sequestro di persona, l’allora ministro dell’Interno del governo gialloverde teneva i poveri cristi in mare in attesa che si facessero vivi i Paesi europei.

I primi a sbattergli la porta in faccia furono tutti i suoi simpatici amici che ieri lo osannavano. Molti dei quali allora erano all’opposizione, tranne il suo omologo austriaco Herbert Kickl e Viktor Orbán.

Per il premier magiaro, ieri i leghisti erano in estasi perché, mille miglia lontano dal Mediterraneo, Orbàn è un nemico giurato degli scafisti. Dal palco leghista, ha minacciato di portare gli immigrati irregolari a Bruxelles («li deponiamo davanti agli uffici», come fossero oggetti). Dove li prenda però non è chiaro visto che ha precisato che «il numero di migranti in Ungheria è zero: l’Ungheria è il posto più sicuro d’Europa».

Sono questi i cattivi maestri dei ragazzi della Lega che l’altro giorno, a Pontida, aspettando che arrivassero i grandi del partito, hanno tacciato Antonio Tajani di essere uno «scafista» perché ha presentato (finalmente) una proposta di legge sullo ius scholae.

Salvini si è scusato, ha cazziato gli autori della goliardata, ricordando loro che gli avversari stanno dall’altra parte, e che Tajani è un alleato e anche amico. Ma il termine scafista, che di solito viene scagliato contro la sinistra, è la sintesi delle tossine che si sono accumulate tra Lega e Forza Italia su tanti fronti.

Durante la campagna elettorale per le elezioni europee, si è scatenata una guerra per il secondo e il terzo posto nel centrodestra, con la vittoria al fotofinish degli azzurri. I Popolari di Tajani sono stati accusati di essere gli apripista dell’inciucio con i Socialisti nel quale trascinare i Conservatori di Giorgia Meloni. È finita con l’accordo sulla composizione della Commissione e con l’assegnazione della vicepresidenza esecutiva a Raffaele Fitto. I Patrioti sono rimasti fuori, oltre il cordone sanitario.

Poi è arrivato il successo dell’estrema destra austriaca, colonna dei Patrioti, e Tajani ha detto che va respinto ogni rigurgito nazista, cioè i Popolari non dovranno mai allearsi con Herbert Kickl. Peccato che ministro degli Esteri italiano abbia omesso di dire che il partito di Kickl (Fpö), che ieri ha mandato a Pontida una delegazione, nel 2019 faceva parte del governo austriaco guidato dal giovane Popolare Sebastian Kurz.

Oggi, tuttavia, i Popolari nei loro Paesi sono l’ultimo baluardo contro le estreme destre che ieri erano a Pontida. È chiaro quindi che nel mirino ci siano i maggiori esponenti del Ppe, a cominciare da Ursula von der Leyen, definita da sempre disastrosa da Salvini, Marine Le Pen, e Geert Wilders.

Sempre il vulcanico Orbán, che dal Ppe è stato cacciato, nei mesi scorsi ha definito il leader europeo dei Popolari Manfred Weber «diabolico, un malfattore nemico dell’Ungheria, il Belzebù della coalizione per la guerra e la migrazione». E von der Leyen? È il «maggiordomo» di Weber, ha detto Orbán.

I poveri ragazzi della Lega non hanno fatto altro che qualificare Tajani con un distillato delle lezioni impartite dai cattivi maestri, ai quali si è aggiunto il generalissimo Roberto Vannacci, il quale sul pratone di Pontida ha ricordato che la cittadinanza non si regala. Magari la gioventù leghista ha usato un termine più urticante, ma sono stati  i fratelli maggiori a indicare la via, come ha fatto Andrea Crippa, vicesegretario leghista che viene proprio dalle fila del giovanile del Carroccio. Quando questa estate è venuta fuori la proposta sullo ius scholae, 

Crippa ha chiesto a Forza Italia quale programma volesse seguire: «Quello del centrodestra, o quello del Pd e dei comunisti?».

(La presse)