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Sabino Cassese: “Il centrosinistra vive di slogan, faccia politica davvero. Marini ha qualifiche giuste per la Corte” (ilriformista.it)

di Aldo Torchiaro

"Serve il recupero della serietà politica"

“Non sono stato a cena né con l’una né con l’altra parte. Ma con l’Aventino non si incide sulle scelte. Ho definito queste opposizioni acchiappanuvole e confermo il mio giudizio”

Le opposizioni sull’Aventino, la fumata nera per Marini, le riforme: abbiamo chiesto il parere del professor Sabino Cassese, già Ministro per la funzione pubblica del Governo Ciampi, poi nominato giudice costituzionale. Si è fatto il suo nome per il Quirinale già nel 2013 e poi ancora nel 2022.

Sulla Consulta le opposizioni fanno l’Aventino, non partecipano alle votazioni. Fanno bene a spostare il confronto in termini di astensione dal voto?

«Fanno male, sia nel metodo, sia nel merito. Nel metodo, come è stato spiegato da Alessandro Campi su “Il Messaggero” di ieri, perché questi temi si dibattono in Parlamento, la cui funzione è proprio quella di consentire dialogo, opposizione, compromessi se necessario. Nel merito perché enfatizzano un problema che non esiste. Tutti i giudici della Corte costituzionale possono trovarsi in conflitto, e in tal caso sono tenuti ad astenersi sia dall’udienza, sia dal dibattimento in camera di consiglio, sia dalla decisione».

Nel merito: c’è un pregiudizio a suo parere su Francesco Saverio Marini, consigliere giuridico di Palazzo Chigi, come giudice della Corte costituzionale?

«Francesco Saverio Marini è da 20 anni professore ordinario di diritto pubblico, ha svolto numerose funzioni pubbliche, ha praticato l’avvocatura, si è interessato a profili sia costituzionali che amministrativi del diritto pubblico. Ha i titoli, al di là delle sue posizioni politiche, per essere candidato alla Corte costituzionale».

Questioni diverse tra loro ma anche sull’elezione dei membri cda Rai, come sulle celebrazioni per il 7 ottobre, Pd e 5 Stelle decidono di non prendere parte. C’è un atteggiamento aventinista? Che cosa ci legge, in filigrana?

«Ho definito le attuali opposizioni acchiappanuvole e trovo in questo ultimo atteggiamento una conferma della mia definizione. Se le opposizioni studiassero meglio la legislazione in corso, facessero maggiore attenzione al modo in cui viene applicata, cercassero di interpretare la domanda popolare di politica, facessero un tentativo di formulare programmi invece che lanciare quotidianamente slogan, evitassero di cercare pretesti per opporsi e individuassero, in luogo dei pretesti, motivi seri di opposizione, facessero attenzione ai problemi del Paese (dalla scuola alla sanità, al lavoro, al numero dei laureati, agli inadempimenti costituzionali, e così via) farebbero il loro mestiere. Purtroppo, la nostra democrazia è carente anche per questo metodo di opposizione che somiglia più ad un teatro dei pupi che a una competizione politica».

Dice che non c’è problema di opportunità, come indica De Siervo?

«Non vedo nessun problema. Se c’è una possibilità che debba giudicare su una questione che lo riguarda, si deve astenere. E questo vale per tutti gli organi giudiziari. Ci sono stati tanti ministri che hanno fatto proposte di legge approvate, e poi come giudici sono stati chiamati a giudicarle. Si astengono dal dibattito, dall’udienza in cui quei temi si discutono e dalla decisione finale».

Ragioniamo del metodo. Schlein parla di blitz, di concezione padronale delle istituzioni…

«Mi fa un po’ pena sentire quelle affermazioni. Manca la politica. Le opposizioni devono fare politica su cose serie. Non su pretesti. Questo è stato un pretesto: anche perché quel nome si conosceva da tempo. Alla corte si cerca sempre di garantire maggioranze solide, per cui uno o più giudici non possono cambiare lo stile del collegio. Quante volte sono entrato in camera di consiglio sapendo che avevo la maggioranza, ma ho cambiato il mio testo per poter raggiungere una maggioranza più ampia!»

Lei dice è un pretesto… Schlein pone una questione di stile che si fa merito quando dice che esistono figure istituzionali rispetto alle quali si ragiona insieme.

«Non sono stato a cena né con l’una né con l’altra parte nei giorni precedenti. Ma con l’Aventino non si incide in politica».

Il premierato si può ancora correggere? Così com’è la convince?

«Ho più volte detto e scritto che il premierato risponde a un’esigenza importante, quella di assicurare continuità e coesione ai governi. Il testo presentato in origine è stato riconosciuto dalla stessa maggioranza come perfettibile, tant’è vero che l’ha modificato. Ulteriori modifiche dovrebbero essere apportate, e sono state proposte dall’esterno e dall’interno della stessa maggioranza».

I referendum saranno un banco di prova decisivo per la tenuta della maggioranza…

«I referendum vanno utilizzati con molto giudizio. La storia ha dimostrato che i votanti non rispondono alla domanda referendaria quanto piuttosto esprimono un orientamento favorevole o contrario al proponente. Quindi, il referendum finisce per diventare quasi sempre un plebiscito, positivo o negativo».

Inizia a farsi largo la tentazione di rimettere mano alla legge elettorale. Nascono comitati per il proporzionale. Un aggiustamento proporzionalistico permetterebbe di uscire dal bipolarismo forzoso?

«Quella che chiamiamo legge elettorale, e che è più accuratamente dovremmo chiamare formula elettorale, cioè il modo di traduzione dei voti in seggi, non può essere modificata ogni giorno. Tutti gli studi sulle formule elettorali delle più antiche democrazie dimostrano che esse dettano regole di lunga durata, sono longeve. Negli ultimi anni abbiamo avuto numerose modifiche della formula elettorale e sarebbe saggio non introdurne altre».

Ieri era sette ottobre. Si è discusso molto della manifestazione del 5. Era giusto il divieto di scendere in piazza?

«Quando ci sono pericoli per l’ordine pubblico certo che è giusto. C’è libertà di riunione e di manifestazione, ma se ci sono problemi di ordine pubblico il ministero dell’Interno e la Polizia debbono valutarli, nell’interesse della collettività e degli stessi violenti».

Grande eco aveva avuto il ddl sicurezza. Nuovi reati, stretta securitaria. Ne avevamo bisogno?

«Il ddl sicurezza è stato approvato dalla Camera e deve andare in Senato. Ha contenuti numerosi che vanno dall’ordinamento penitenziario alle droghe, alla protezione delle forze dell’ordine. Abbiamo visto con quanta violenza i rappresentanti delle forze dell’ordine sono stati attaccati. Quello che ha attirato l’attenzione è stata la disciplina del blocco stradale, che ora prevede la carcerazione. Penso che in questi casi si debba regolare queste materie come il diritto di sciopero: ci sono i diritti di chi sciopera, ma anche quelli degli altri, di chi subisce il fermo dei trasporti, ad esempio. Sono diritti che vanno contemperati. Il diritto di circolazione per cui non si possono bloccare stazioni e autostrade, interessa il diritto dei cittadini a muoversi, ad andare al lavoro, ad andare a scuola».

“Massacrato un detenuto fragile nel carcere di Marassi”. La denuncia choc (ildubbio.news)

di Damiano Aliprandi

Genova

Yousef, un giovane con disturbi della personalità, sarebbe stato brutalmente aggredito da agenti penitenziari nella sala colloqui. Esposto dell’Associazione Yairaiha che chiede un’indagine approfondita

Il 3 ottobre, una sconvolgente vicenda di presunta violenza ha turbato la quiete del carcere di Marassi a Genova. Secondo l’esposto presentato dall’Associazione Yairaiha Ets, impegnata nella tutela dei diritti dei detenuti, un giovane detenuto con disturbi della personalità sarebbe stato vittima di un brutale pestaggio da parte di agenti penitenziari.

L’episodio, secondo la ricostruzione che Il Dubbio ha potuto visionare, avrebbe avuto inizio in sala colloqui, mentre il giovane, Yousef, si preparava a incontrare il proprio avvocato. Durante il tragitto, un alterco con un brigadiere della polizia penitenziaria sarebbe degenerato rapidamente.

Stando alla testimonianza, tutto sarebbe iniziato con un semplice saluto, percepito da Yousef, particolarmente fragile dal punto di vista psichico, come una provocazione. La reazione esclusivamente verbale del detenuto, seppur aggressiva, sarebbe stata scatenata da questo episodio.

Il brigadiere, a sua volta, avrebbe reagito in modo sproporzionato, sia verbalmente che fisicamente. Avrebbe cominciato a urlare: «Tu non sai con chi hai a che fare, come ti permetti di rispondere così, tu sai chi cazzo sono io?». Poi il brigadiere avrebbe colpito Yousef con uno schiaffo, rompendogli gli occhiali da vista e ferendolo al volto.

La scena, stando sempre al racconto, si sarebbe spostata nella sala colloqui. Yousef, visibilmente scosso, gli occhiali rotti a testimoniare l’accaduto, cerca conforto nel suo avvocato che l’attende nella sala colloqui. Ma la tregua è breve. Il brigadiere, come un predatore che non vuole lasciare andare la sua preda, irrompe nella sala, rinnovando le sue provocazioni, gli insulti, le minacce.

La tensione sale, l’aria si fa elettrica. In un disperato tentativo di autodifesa, il detenuto avrebbe cercato di reagire. Ed è qui che la situazione sarebbe degenerata del tutto. Come rispondendo a un richiamo silenzioso 5 o 6 agenti penitenziari sarebbero arrivati in rinforzo. E poi… il buio. Un pestaggio brutale, sproporzionato, che non avrebbe tenuto conto né della vulnerabilità psicologica del detenuto, né dei principi più basilari di umanità.

L’Associazione Yairaiha, nell’esposto, sottolinea che il disturbo borderline di Yousef lo rende particolarmente vulnerabile allo stress e alle provocazioni, una condizione che avrebbe dovuto indurre il personale a maggiore cautela.

Viene menzionata la presenza di potenziali testimoni, incluso l’avvocato di Yousef e un altro avvocato presente nella sala colloqui. Inoltre, l’esposto riporta che la sorella di Yousef sarebbe stata contattata dalla madre di un altro detenuto, il quale avrebbe notato le condizioni di Yousef durante l’ora d’aria.

Suscita perplessità il successivo trasferimento improvviso di quest’ultimo detenuto, avvenuto il 5 ottobre, che potrebbe far sorgere dubbi sulla possibilità di allontanare potenziali testimoni. L’Associazione Yairaiha Ets chiede pertanto un’indagine urgente, con l’acquisizione di tutte le testimonianze disponibili e di eventuali registrazioni video. Richiede inoltre l’adozione immediata di misure volte a garantire la sicurezza e l’integrità psicofisica di Yousef, nonché un costante monitoraggio del suo stato di salute mentale durante la detenzione.

L’esposto-querela è stato presentato contro i soggetti responsabili dei presunti fatti delittuosi, con riserva di costituirsi parte civile. L’Associazione chiede di essere costantemente informata sull’andamento delle indagini, sull’eventuale archiviazione del procedimento o sull’esercizio dell’azione penale.

A corredo dell’esposto, sono state allegate una copia della perizia psichiatrica del giugno 2023, che attesta il disturbo di Yousef, e delle immagini degli ematomi riportati dal detenuto, acquisite tramite screenshot durante una videochiamata con la sorella. Tali elementi, a parere dell’Associazione, corroborano la versione dei fatti denunciata.

L’Associazione Yairaiha, rappresentata dall’avvocato Vito Daniele Cimiotta del Foro di Marsala, intende fare piena luce su questa grave vicenda, che getta l’ennesima ombra inquietante sul sistema carcerario. Come può un luogo deputato alla riabilitazione trasformarsi in un teatro di violenza? E come può un disturbo psicologico, che richiederebbe comprensione e supporto, diventare invece il pretesto per un’escalation di brutalità?

Queste sono le domande a cui si chiede di rispondere.

Trump, il test covid mandato a Putin e le telefonate segrete: le rivelazioni (adnkronos.com)

Bob Woodward, nel nuovo libro, descrive i contatti 
costanti tra l'ex presidente americano e il 
presidente russo

Donald Trump in aiuto di Vladimir Putin durante la pandemia di covid.

I fatti risalgono al 2020, come ricostruisce Bob Woodward, firma di punta del Washington Post, nel suo nuovo libro ‘War’. Putin, alle prese con l’emergenza coronavirus, ha ricevuto il soccorso dell’allora presidente degli Stati Uniti. Trump ha inviato al leader del Cremlino forniture di test e tamponi a stretto uso personale. Un dono gradito, anche se scomodo.

“Non voglio che tu lo dica a nessuno, la gente se la prenderebbe con te. Non con me”, avrebbe detto Putin al ‘collega’ accettando il regalo. Il legame tra il presidente russo e l’ex presidente degli Stati Uniti, secondo Woodward, è rimasto solido nel corso degli anni.

All’inizio del 2024, Trump e Putin si sono sentiti in una telefonata privata: The Donald, dalla sua residenza di Mar-a-Lago in Florida, ha chiesto ad un collaboratore di lasciare la stanza e, una volta solo, ha telefonato.

I dettagli della conversazione non sono noti. Secondo il collaboratore di Trump, anonima fonte citata dal giornalista, i colloqui con Putin sarebbero stati almeno 7 dal 2021, quando il mandato dell’ex presidente si è concluso. “Trump è stato il presidente più sconsiderato e impulsivo nella storia americana e sta dimostrando lo stesso carattere come candidato alla presidenza nel 2024”, scrive Woodward nel suo volume, con affermazioni a cui la campagna di Trump non ha replicato.

Nel libro, l’autore si sofferma anche sulla posizione di Trump in relazione alla guerra tra Ucraina e Russia. Woodward fa riferimento all’opposizione dell’ex presidente all’invio di massicci aiuti a Kiev e evidenzia il peso di Trump nell’opposizione di un’ala del partito repubblicano al maxipacchetto da 61 miliardi autorizzato dal Congresso solo a maggio, dopo mesi di melina. Ad ammorbidire la posizione dell’ex presidente è stato lo speaker Mike Johnson.

Trump si sarebbe convinto non per un genuino sostegno alla causa ucraina ma per valutazioni elettorali: aiutare almeno in parte Kiev porterà vantaggi nel voto del 5 novembre.

L’ombra della disinformazione russa sull’ascesa dell’estrema destra in Europa (linkiesta.it)

di

Illiberalia

Guerra ibrida

Negli ultimi anni, la propaganda del Cremlino ha contribuito al successo di partiti politici. Al centro di queste operazioni c’è la tech company Social Design Agency, che diffonde contenuti online per influenzare il dibattito pubblico, puntando a indebolire la fiducia nelle istituzioni democratiche

Nel corso dell’ultimo anno, forze politiche di estrema destra hanno vinto varie elezioni nazionali e regionali in Europa. È successo, di recente, in Slovacchia, Austria e Germania. L’estrema destra è andata molto bene anche alle scorse elezioni europee: oggi il gruppo che raduna queste forze politiche, i Patrioti per l’Europa, è il terzo gruppo al Parlamento europeo per numero di seggi (ottantaquattro).

Se il successo di questi partiti deriva da un insieme di fattori, alcuni dei quali ineffabili, uno di questi è dimostrato: l’estrema destra attrae voti diffondendo i messaggi propugnati dalle campagne di disinformazione condotte dalla Russia. Alcuni documenti fatti circolare dal Dipartimento di giustizia americano e dall’Fbi nelle scorse settimane hanno permesso di descrivere con precisione il funzionamento di queste campagne.

Come ricostruito dal consorzio investigativo Vsquare, al centro di queste operazioni c’è l’azienda tech russa Social Design Agency (Sda), già sotto sanzioni da parte dell’Unione europea per la sua collaborazione con le autorità russe. Secondo i documenti fatti filtrare alla stampa, alla Sda lavorano «ideologi», commentatori e un creatore di bot. Tra le sue forme di intervento ci sono: produzione di commenti, creazione di meme, video e fumetti, partecipazione a thread sui social media e diffusione di falsi.

Nei primi quattro mesi del 2024, l’esercito di bot della Sda avrebbe prodotto poco meno di trentaquattro milioni di commenti su vari social media e quasi quarantamila «contenuti», inclusi quattromilaseicentoquarantuno video e duemila cinquecentosedici meme e grafiche, secondo un report interno ottenuto dall’intelligence americana.

Come nota Foreign Affairs, il report del Sda è anche un prodotto di marketing: l’azienda punta a convincere il proprio cliente – il governo russo – di aver svolto un buon lavoro. I dati e i risultati citati vanno quindi presi con le pinze. Restituiscono, ad ogni modo, la dimensione dell’intervento di questa fabbrica di disinformazione nel dibattito europeo.

Un dato interessante dell’azione della Sda è la serialità. L’azienda hi-tech russa opera producendo contenuti standard, che vengono poi adattati ai rispettivi contesti nazionali che si cerca di influenzare in una forma di produzione in serie di disinformazione. Per ogni paese sono indicate delle quote da raggiungere.

In un progetto rivolto a Germania e Francia si indicavano, per esempio: «sessanta fumetti; centottanta meme e quattrocento commenti sotto ad articoli». Il report interno della Sda notava inoltre come i risultati delle elezioni del 2024 in Germania, negli Stati Uniti e nell’Unione Europea avrebbero determinato l’evoluzione delle sanzioni contro la Russia e il supporto all’Ucraina decisi dai governi occidentali.

I contenuti diffusi online avrebbero dovuto quindi battere su questi temi cari al regime russo, come emerge dal format dei commenti suggeriti dalla Sda ai suoi collaboratori: «Scrivete un commento da parte di una trentottenne tedesca, che crede che la Germania stia perdendo la propria principale fonte di entrate: l’industria e un’economia forte.

Dobbiamo smettere di sprecare soldi per l’Ucraina e ritornare ad avere economia a basso prezzo dalla Russia»; «Scrivete un commento da parte di una trentottenne americana che crede che i fondi a Ucraina e Israele debbano essere tagliati. Zelenskij sta sprecando i soldi dei contribuenti [americani]».

Tra le linee narrative da portare avanti tramite queste campagne, sostengono gli estensori del report, ci sarebbero letture come: «I liberali e i globalisti vogliono che abbiamo paura. Vogliono che abbiamo paura della guerra, dei disastri climatici, dei virus, di un attacco russo. Con la paura puntano a sottometterci.

Vogliono anche sfruttare le contraddizioni dei valori familiari, dei diritti Lgbt, e l’incertezza economica causata dalla guerra in ambiti come energia e agricoltura», o anche «Gli Usa stanno conducendo una guerra ibrida ed economica contro la Russia a spese della Germania. Le decisioni anti-russe della Nato e dell’Ue danneggiano innanzitutto i tedeschi». Ovvero, narrazioni molto simili a quelle propagandate da molti partiti di estrema destra in Ue.

Per comprendere il senso e il contesto di questo tipo di «guerra ibrida» bisogna infatti concentrarsi su tre elementi. Primo, come sempre nelle campagne di disinformazione, lo scopo primario non è convincere la maggioranza delle persone raggiunte. È suscitare dubbio e generare sfiducia, indebolendo così il sostegno per le tesi più fondate su qualsiasi tema, dal cambiamento climatico all’invasione russa dell’Ucraina.

Queste campagne puntano allora a intorpidire le opinioni pubbliche europee, spingendo i governi a ammorbidire la propria linea sulla Russia. Come concluso da una recente ricerca sul tema, che ha analizzato circa tre milioni di tweet su tre temi specifici (elezioni americane nel 2016, pandemia da Covid-19 e annessione russa della Crimea), l’impatto diretto della disinformazione esterna sui risultati elettorali resta limitato, ma esse riescono a plasmare i termini del dibattito pubblico online e a influenzare le percezioni del pubblico.

Secondo, il grado di sistematicità e strutturazione raggiunto da queste campagne di disinformazione le rende uno strumento impareggiabile di politica estera, contro cui le pur svariate iniziative delle istituzioni Ue possono poco.

La professionalità del tipo di servizio offerto conferma come operazioni simili non siano più iniziative estemporanee, bensì parte integrante dell’azione di politica estera di stati autocratici come Russia e Cina. Il livello di sistematicità è molto alto: vengono indicati target, obiettivi, modalità di verifica dei risultati, format da replicare e adattare, come se si trattasse di una normale agenzia di consulenza che presta assistenza a enti governativi.

Terzo, l’utilizzo di troll di stato non è un’esclusiva delle autocrazie (vedere l’azione su Facebook della Francia nel Sahel), ma va riconosciuto come i regimi illiberali di Russia e Cina possano sfruttare il modo stesso in cui funzionano le sfere pubbliche in occidente: la piena libertà d’espressione garantita in Europa e Usa permette loro di diffondere teorie del complotto e disinformazione allo scopo di destabilizzare i propri rivali strategici.

In quest’ottica, dunque, chiedersi se e quanto i partiti filorussi credano effettivamente alle tesi che sostengono diventa meno urgente di chiedersi quanto queste tesi facciano il gioco di Russia e Cina, in una fase di crisi del multilateralismo ed emersione di un modello multipolare a livello globale.

Toccando un principio cardine come la libertà d’espressione, questa dinamica pone le società europee di fronte al dilemma esistenziale di trovare un equilibrio tra il diritto a sostenere e diffondere qualunque opinione e la necessità di difendersi da questa forma di guerra ibrida. Il semplice fatto che i paesi occidentali siano oggi costretti ad affrontare questo dilemma conferma quanto le attività di disinformazione condotte da autocrazie intenzionate a ribaltare gli equilibri globali abbiano avuto successo: miravano a far diventare l’occidente più simile a loro, e ci stanno riuscendo.