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Entra in cella sulle sue gambe, ne esce in carrozzina: l’Italia dovrà risarcirlo (unita.it)

di Angela Stella

Ancora una condanna Cedu

Il caso di un detenuto affetto da patologie ortopediche e neurologiche. In carcere, senza cure adeguate, non camminava più. Ora si appoggia a una stampella. La Cedu: “Trattamenti inumani”

L’Italia è stata condannata dalla Corte Europea dei diritti dell’Uomo per violazione dell’articolo 3 della Convenzione (Proibizione della tortura – Nessuno può essere sottoposto a tortura né a pene o trattamenti inumani o degradanti).

È quanto si legge in una sentenza del 3 ottobre che riguarda il diritto alla salute in carcere. Il ricorso riguardava, infatti, la presunta incompatibilità dello stato di salute del ricorrente con la detenzione e la mancata prestazione di cure mediche adeguate in carcere.

L’uomo aveva ricevuto varie condanne penali per reati gravi ed era stato condannato a una pena cumulativa di 30 anni di reclusione. Il ricorrente soffriva di malattie ortopediche e neurologiche, costituite principalmente da ernia del disco spinale ricorrente, artrite spinale e dolore lombare acuto, che comportavano una mobilità compromessa.

Era stato sottoposto a tre interventi chirurgici e, dopo l’ultimo nel 2006, gli era stata prescritta fisioterapia. Dal 1987, alcuni periodi di detenzione si erano alternati a periodi durante i quali era stato rilasciato per motivi di salute. Era stato detenuto nelle carceri di Ferrara, Torino, Bologna. I medici che avevano svolto su di lui gli accertamenti clinici avevano certificato una “cronicizzazione dei disturbi motori”.

Una situazione clinica tale da richiedere delle cure continue e cicli di fisioterapia costanti. Cure che, però, non sarebbero state somministrate in maniera adeguata all’interno degli istituti di pena dove era recluso. Per questo erano state presentate nel corso degli anni diverse istanze dal suo legale, l’avvocato Carlo Gervasi del foro di Lecce, per ottenere un trattamento consono alle esigenze di salute: in particolare, una detenzione domiciliare, così da poter dare avvio al ricovero in una struttura specializzata.

Ma venivano accordati solo brevi periodi di sospensione dell’esecuzione della pena. “È pacifico – scrive la Cedu – che il ricorrente soffriva di patologie ortopediche e neurologiche. Inoltre, precedenti referti medici e decisioni giudiziarie avevano indicato la necessità di una fisioterapia regolare, se non costante, al punto che era stato ritenuto necessario un periodo di detenzione domiciliare. I referti emessi prima del ritorno del ricorrente in carcere nel novembre 2011 indicavano specificamente che aveva bisogno di fisioterapia di mantenimento due volte a settimana. (…) Nonostante queste indicazioni unanimi durante i due anni in cui è rimasto in carcere, sembra che il ricorrente abbia avuto accesso solo a dieci sedute di fisioterapia”. Non abbastanza per non peggiorare il suo stato di salute. Si legge quindi in conclusione che la Corte ha ritenuto che in uno specifico periodo di detenzione “il ricorrente non ha ricevuto cure adeguate durante la sua detenzione. Vi è stata pertanto una violazione dell’articolo 3 della Convenzione”.

Lo Stato italiano dovrà risarcire l’ex detenuto con 8 mila euro.

Come ci ha spiegato l’avvocato Gervasi “non è tanto importante il risultato singolo, quanto le strade che apre, essendo questa sentenza la prima in tal senso. L’elemento importante di questa decisione della Cedu è che viene rilevata l’inadeguatezza dell’assistenza per il detenuto in carcere. Non basta tenere sotto controllo la malattia, altrimenti il detenuto peggiora. In questa specifica circostanza, il mio assistito era entrato in piedi in carcere e ne è uscito in sedia a rotelle. Da due anni è libero e ha ripreso a curarsi e ora cammina con una stampella”. Conclude l’avvocato: “la giustizia italiana è lenta, ma anche quella della Cedu non è da meno. Io avevo presentato il ricorso nel 2013 e solamente adesso è arrivata la decisione”.

Intanto è da registrare ancora un suicidio in carcere. Un detenuto si è tolto la vita due sere fa nella casa di reclusione di Vigevano (Pavia), impiccandosi nella sua cella. A darne notizia è stato Gennarino De Fazio, segretario generale della Uilpa polizia penitenziaria. La vittima è un magrebino di circa 40 anni, con un residuo di pena vicino a un anno. 

“Si è trattato del 74esimo detenuto suicida dall’inizio dell’anno – ha sottolineato De Fazio -, cui bisogna aggiungere 7 appartenenti alla polizia penitenziaria che si sono tolti la vita. Una strage senza fine e senza precedenti, rispetto alla quale la politica non pone alcun argine concreto”. Nonostante questa situazione, non si è ancora insediato il nuovo Garante dei diritti delle persone private della libertà personale, Riccardo Turrini Vita. 

L’iter non sarà brevissimo: occorre attendere il parere non vincolante delle Commissioni parlamentari competenti, poi il decreto del Presidente della Repubblica.

Ecco come l’Ucraina può e deve entrare nella Nato (e disinnescare la minaccia russa) (linkiesta.it)

di

Una soluzione c’è

Mentre Zelensky incontra Meloni, uno dei punti del piano ucraino per la vittoria prevede l’invito ad aderire all’Alleanza Atlantica. Ci sono cinque scenari possibili per garantire a Kyjiv sicurezza e integrità territoriale

Il presidente degli Stati Uniti Joe Biden può passare alla storia come il presidente che lascia l’eredità più grande nel percorso di integrazione dell’Ucraina nella Nato, se l’Ucraina dovesse essere invitata a entrare nell’Alleanza atlantica durante il suo mandato.

Questo significherebbe anche correggere gli errori delle precedenti amministrazioni democratiche che hanno contribuito alla denuclearizzazione dell’Ucraina – come accaduto durante l’Amministrazione Clinton, quando l’Ucraina ha rinunciato alle sue testate nucleari, e l’amministrazione Obama-Biden, quando l’Ucraina ha rinunciato all’ultima quota delle scorte di uranio altamente arricchito.

Formalmente, nonostante la percezione diffusa, non esiste un protocollo con un elenco di criteri specifici per invitare un Paese euro-atlantico nella Nato. L’articolo 10 del Trattato di Washington dice: «Le parti possono, con accordo unanime, invitare ad aderire a questo Trattato ogni altro Stato europeo in grado di favorire lo sviluppo dei principi del presente Trattato e di contribuire alla sicurezza della regione dell’Atlantico settentrionale».

Ancora più indicativo è l’articolo 7 dello studio sull’allargamento della Nato, che avrebbe dovuto “chiarire” gli articoli del Trattato di Washington sul tema dell’allargamento e che, di fatto, è la base della politica di allargamento della Nato dal 1995. Questo afferma chiaramente: «Non esiste un elenco fisso o rigido di criteri per invitare nuovi stati membri ad aderire all’Alleanza. L’allargamento sarà deciso caso per caso».

Di conseguenza, l’esecuzione da parte dell’Ucraina della lista di riforme necessarie a ottenere un invito (non l’adesione) è un segno della buona volontà dell’Ucraina e del suo impegno ad accogliere un invito ad aderire all’Alleanza.

L’invito rivolto all’Ucraina sarebbe davvero unico nella storia dell’allargamento della Nato, trattandosi di un invito rivolto a un Paese che si trova nel mezzo di una fase calda della guerra, con la linea del fronte in continuo cambiamento.

Ma quali sono oggi i possibili formati dell’invito dell’Ucraina ad aderire alla Nato, durante una fase attiva della guerra? E quali sono i requisiti per l’invito più favorevole per quanto riguarda la sicurezza dell’Ucraina?

1) Un invito come dichiarazione puramente politica

Un simile invito ha soprattutto un significato politico e psicologico, e non tiene per forza conto del concetto di garanzie di sicurezza nel prossimo futuro.

Pro: da un punto di vista puramente politico è un segnale, che mentre la guerra continua, Vladimir Putin si sta di fatto allontanando dai suoi obiettivi dichiarati (lo status neutrale dell’Ucraina). Da un punto di vista psicologico avrebbe un grande effetto sul morale dell’esercito ucraino e sulla società in generale, aiutando gli ucraini a capire che non ci sarà una nuova aggressione russa o, se dovesse esserci, l’Ucraina non sarà sola.

Contro: la mancanza di garanzie di sicurezza per il futuro. Ad esempio il potenziale “ritiro” dell’invito nel caso in cui Donald Trump dovesse essere eletto presidente.

2) Invito, e negoziati di adesione

Nonostante comunemente si pensi che un invito equivalga all’effettiva adesione alla Nato, l’Alleanza ha una procedura di adesione che consiste in tre fasi: invito, colloqui di adesione e ratifica dei protocolli. Di solito, i negoziati di adesione sono una fase formale (nei casi di Finlandia e Svezia sono durati un giorno), ma dati i problemi esistenti sulla prontezza dell’Ucraina per l’adesione alla Nato, sulla guerra in corso e sul contesto delle riforme del settore della sicurezza e della difesa, l’Ucraina può utilizzare questa procedura per soddisfare le condizionalità in termini di riforme in cambio di un invito e dell’avvio delle procedure di adesione (sulla falsariga del percorso in sette fasi del processo di candidatura all’Unione europea).

Pro: l’Ucraina riceverà non solo un invito, ma avvierà anche la procedura di adesione.

Contro: si rischia un ritardo artificiale e di creare ulteriori prerequisiti per l’avvio del processo di  ratifica.

3) Invito, e garanzie di sicurezza temporanee da parte dei Paesi con arsenale nucleare

Questo è considerato come un invito formale alla Nato. Dal momento che la fase temporale che va dall’invito alla piena adesione è la più delicata, è importante rafforzare tale invito con dichiarazioni politiche di garanzie di sicurezza bilaterali da parte di Paesi dotati di arsenale nucleare, come è stato nel caso di Finlandia e Svezia.

Pro: invito con elementi di garanzia di sicurezza prima dell’adesione completa.

Contro: la complessità della conclusione di tali accordi bilaterali con i Paesi con arsenale nucleare.

4) Invito, adattamento della enhanced Forward Presence della Nato e lancio della “Coalizione dei Risoluti”

Mentre nei casi di Finlandia e Svezia una dichiarazione politica (non vincolante) sulle garanzie di sicurezza poteva essere sufficiente nel passaggio tra invito e adesione, nel caso dell’Ucraina, con una fase attiva in corso della guerra, sarebbe più appropriato coinvolgere la componente militare dei singoli Stati che hanno la volontà politica e le capacità belliche adatte. Negli Stati baltici e nell’Europa centrale, l’adesione alla Nato è stata seguita dall’impiego della enhanced Forward Presence (eFP, un contingente multinazionale come quelli presenti nei Paesi baltici, ndt). Nel caso dell’Ucraina, tuttavia, potrebbe essere necessario fare un percorso inverso: l’invio della eFP prima dell’adesione alla Nato.

Pro: utilizzo di elementi di sicurezza collettiva anche prima di raggiungere la piena adesione all’Alleanza. Il fatto che la Nato abbia esperienza pregressa di un simile meccanismo negli Stati baltici e nei Paesi dell’Europa centrale.

Contro: nonostante l’esperienza precedente, questo processo richiederebbe un complesso lavoro diplomatico e burocratico nella “Coalizione dei Risoluti”.

5) Invito, e adesione graduale (modifiche all’articolo 6 del Trattato di Washington)

Questa è un’opzione che può essere eseguita prima della completa liberazione di tutti i territori occupati dell’Ucraina. Va sottolineato che questa sarebbe un’adesione graduale, non parziale: vale a dire, un invito all’intera Ucraina entro i suoi confini riconosciuti a livello internazionale, l’adesione sarà seguita gradualmente dalla copertura dell’articolo 5 (un attacco armato contro uno o più paesi dell’alleanza è considerato come un attacco diretto contro tutte le parti, ndt) man mano che i territori ucraini saranno liberati (da non confondere con l’adesione parziale, che implicherebbe una rinuncia di fatto ai territori occupati).

Questa opzione presuppone almeno una chiara linea amministrativa: potrebbe essere necessario modificare l’articolo 6 del Trattato di Washington per chiarire le coordinate geografiche dell’articolo 5, cosa che è già stata fatta due volte nella storia della Nato (è successo con l’adesione della Turchia nel 1951, e con la perdita dello status di colonia francese dell’Algeria nel 1962).

Pro: per ottenere la piena adesione non sarà necessario liberare l’intera Ucraina.

Contro: questa soluzione sarà possibile solo con una tregua/cessate il fuoco temporaneo. E ci potrebbero essere complicazioni diplomatiche legate alla modifica dell’articolo 6.

In conclusione, considerando tutte le possibili opzioni, si può dire che ci sono tre requisiti necessari e preferibili per l’invito dell’Ucraina nella Nato.

In primo luogo, è necessario che l’invito sia esteso a tutta l’Ucraina, con i confini riconosciuti a livello internazionale. In secondo luogo, un requisito fondamentale è definire un algoritmo per il processo di adesione, anche nella fase di un cessate il fuoco temporaneo (adesione graduale). Vale la pena considerare la possibilità di modificare l’articolo 6 del Trattato di Washington che definisce l’area geografica su cu si applica l’articolo 5.

In terzo luogo, un requisito sarà lo sviluppo parallelo di garanzie di sicurezza temporanee fino al momento della piena adesione, e con possibile coinvolgimento della componente militare, se non a livello di Nato almeno a livello di una “Coalizione dei risoluti”: un gruppo di Paesi (con la presenza obbligatoria di Paesi dotati di arsenale nucleare) pronti a inviare i loro militari in Ucraina.

In questo contesto, dovremmo considerare di riprodurre il modello Nato di enhanced Forward Presence (eFP): lo spiegamento e l’addestramento delle truppe a rotazione e non necessariamente della Nato.

Questo articolo è stato originariamente pubblicato in inglese sul sito dello New Europe Center di Kyjiv. La versione originale si può leggere qui.

Intervista a Stefano Levi Della Torre: “Se il fondamentalismo ebraico agisce come quello islamico, Israele resterà solo” (unita.it)

di Umberto De Giovannangeli

Saggista e nipote di Carlo Levi

«L’opposizione che si era sollevata contro il governo di destra e le sue leggi volte a stravolgere la democrazia in democratura e in etnocrazia, ha aggirato il punto centrale: la questione palestinese e del regime di apartheid coloniale»

Stefano Levi Della Torre, saggista, critico d’arte, nipote di Carlo Levi, è tra le figure più autorevoli, sul piano culturale e per il coraggio delle sue posizioni, dell’ebraismo italiano.

Tra i suoi numerosi saggi, ricordiamo, per la sua acutezza e stringente attualità, Essere fuori luogo. Il dilemma ebraico tra diaspora e ritorno (Donzelli Editore). Stefano Della Torre è uno dei promotori dell’appello “Mai indifferenti. Voci ebraiche per la pace”, in cui c’è scritto, tra l’altro: “Il 7 ottobre, non solo gli israeliani ma anche noi che viviamo qui siamo stati scioccati dall’attacco terroristico di Hamas e abbiamo provato dolore, rabbia e sconcerto. E la risposta del governo israeliano ci ha sconvolti: Netanyahu, pur di restare al potere, ha iniziato un’azione militare che ha già ucciso oltre 28.000 palestinesi e molti soldati israeliani, mentre a tutt’oggi non ha un piano per uscire dalla guerra e la sorte della maggior parte degli ostaggi è ancora incerta.

Purtroppo, sembra che una parte della popolazione israeliana e molti ebrei della diaspora non riescano a cogliere la drammaticità del presente e le sue conseguenze per il futuro. I massacri di civili perpetrati a Gaza dall’esercito israeliano sono sicuramente crimini di guerra: sono inaccettabili e ci fanno inorridire. Si può ragionare per ore sul significato della parola “genocidio”, ma non sembra che questo dibattito serva a interrompere il massacro in corso e la sofferenza di tutte le vittime, compresi gli ostaggi e le loro famiglie.

Molti di noi hanno avuto modo di ascoltare voci critiche e allarmate provenienti da Israele: ci dicono che il paese è attraversato da una sorta di guerra tra tribù – ebrei ultraortodossi, laici, coloni – in cui ognuno tira l’acqua al proprio mulino senza nessuna idea di progetto condiviso. Quello che succede in Israele ci riguarda personalmente: per la presenza di parenti o amici, per il significato storico dello Stato di Israele nato dopo la Shoah, per tante altre ragioni. Per questo non vogliamo restare in silenzio.

Ci sembra urgente spezzare un circolo vizioso: aver subito un genocidio non fornisce nessun vaccino capace di renderci esenti da sentimenti d’indifferenza verso il dolore degli altri, di disumanizzazione e violenza sui più deboli. Per combattere l’odio e l’antisemitismo crescenti in questo preciso momento, pensiamo che l’unica possibilità sia provare a interrogarci nel profondo per aprire un dialogo di pace costruendo ponti anche tra posizioni che sembrano distanti”. L’Unità lo ha intervistato.

Gaza, Libano. Iran. Non c’è pace in Medio Oriente. È un destino ineluttabile?

La guerra è in corso. Le guerre tendono a protrarsi per interessi combinati, a cominciare dall’economia delle armi e delle loro sperimentazioni. Più in generale, si protraggono per una perversa inerzia di azione e reazione fino al punto in cui i superstiti si inventano di tutto pur di uscirne.

Come siamo creativi nell’inventare ordigni di distruzione, così, costretti dalla necessità da noi stessi prodotta, lo siamo nell’inventare sbocchi prima impensabili. Le guerre di religione che hanno devastato l’Europa l’hanno poi riconfigurata e dalla loro terrificante esperienza regressiva sono nati nuovi criteri nei rapporti tra popoli e poteri, istanze di tolleranza pluralista e inclusiva attraverso Grozio o Locke o Montesquieu, fino all’illuminismo.

Per poi magari ricadere nella regressione dei fondamentalismi nazionalistici e religiosi e nella guerra, come oggi. Purtroppo, è questo l’andamento della storia che non sappiamo evitare, in cui le vittime, o meglio i vittimisti, si fanno carnefici. Il nuovo nasce dalle necessità imposte dalle catastrofi. Ciò vale per l’ambiente come per la politica. Non sappiamo anticipare gli esiti delle crisi, ma nelle crisi non possiamo né dobbiamo rinunciare ad elaborare prospettive del futuro.

Da quel tragico 7 ottobre 2023 Israele è un paese in guerra. Una guerra “per sempre”.

Israele vincerà militarmente e perderà politicamente. L’ossessione di una deterrenza stragista in sostituzione di una politica propositiva produce il suo isolamento, il crollo del suo prestigio e del suo consenso internazionale. Mentre lungo i secoli le potenze salivano e scendevano, la durata degli ebrei è un fenomeno anomalo che non si è mai basato sulla forza. L’affidarsi alla forza come fa adesso Israele contraddice la storia ebraica e le sue strategie di durata.

Quanto più la destra, di governo e anche nel senso comune, condurrà Israele da un lato a insistere, nei territori occupati, secondo i modi desueti di un colonialismo d’altri tempi; quanto più il nazionalismo e il fondamentalismo ebraico si spingerà ad assimilarsi ai modi e alle mentalità dei fondamentalismi islamisti da cui Israele deve difendersi, tanto più Israele si troverà isolato, corpo estraneo nella sua regione e nel mondo. In una china da cui dovrà risalire per vivere e sopravvivere.

Avendo vissuto nei secoli nel mondo dei vinti, dopo la Shoah il mondo ebraico si è trovato inscritto nel mondo dei vincitori e se ne è valso. Ma ora sono appunto i “vincitori” della Seconda guerra mondiale e della guerra fredda a veder declinare la loro centralità nel mondo, ad essere contestati e sotto attacco. Proporsi come baluardo di un mondo in declino (finché non saprà rinnovarsi) non è promettente per Israele.

C’è ancora spazio per realizzare una pace fra Israeliani e Palestinesi fondata sul principio due popoli, due Stati”?

La prospettiva “due popoli due Stati” (proprio quella che portò la destra estrema ad assassinare Rabin, con la complicità di personaggi ora al governo) è attuale come orientamento, non lo è per l’oggi: implicherebbe una guerra civile in Israele ad opera dei coloni e della destra che li sostiene, li incoraggia e li arma.

La loro missione è esattamente quella di impedire la prospettiva di un’indipendenza palestinese. C’è chi dice che Israele non ha una politica. Effettivamente solo la destra estrema ha un programma chiaro, ed è quello di risolvere definitivamente la questione palestinese, facendone strage e cacciando in massa i palestinesi dalla loro terra, e quello di risolvere con la guerra la minaccia iraniana.

Sotto il prevalere della destra, e anzi fin dall’assassinio di Rabin nel 1995, Israele era già in una guerra, latente ma sistemica, con i palestinesi in Cisgiordania e nell’accerchiamento di Gaza. L’aggressione e il massacro compiuto da Hamas e Jihad il 7 ottobre 2023, ha traumatizzato profondamente Israele, ha travolto l’illusione in una sicurezza raggiunta, e ha trasformato la guerra da implicita in esplicita E ha attivato i nemici di Israele dal Libano e dallo Yemen.

Con l’uccisione, il primo aprile 2024, di funzionari iraniani a Damasco, Netanyahu ha voluto aprire direttamente il fronte con l’Iran, per internazionalizzare la crisi, proponendosi come risolutore per conto dello schieramento geo-politico in cui si inscrive, del disordine mediorientale, per guadagnare un consenso logorato dai crimini contro l’umanità, dalla palude di sangue e sofferenza su cui insiste a Gaza in cui si è impantanato, non solo contro Hamas ma contro il popolo palestinese.

Israele è anche, sempre più, un paese lacerato tra le sue due anime. Una spaccatura che spesso è sottaciuta o sottovalutata dalla stampa di casa nostra.

Israele è certamente spaccato in due. Da un lato, un Israele in prevalenza laico e liberale; dall’altro un Israele nazionalistico e fondamentalista che agita i miti “messianici” della terra promessa, la religione ebraica e l’etnocrazia come vessilli idolatrici. Quando si invoca l’unità nella solidarietà con Israele aggredito da Hamas, per quale Israele la si invoca? D’altra parte, l’opposizione che si era potentemente sollevata contro il governo di destra e le sue leggi volte a stravolgere la democrazia in democratura e in etnocrazia, ha aggirato il punto centrale: la questione palestinese lasciata suppurare senza prospettive, la questione del regime di apartheid coloniale nei territori occupati, da cui promana un inquinamento ideologico e razzistico nel senso comune e nelle stesse istituzioni di Israele.

Come muoversi, anche da parte della diaspora ebraica, in questo scenario?

Certamente occorre contare ed appoggiare in tutti i modi quella parte di Israele che resiste alla mutazione negativa di Israele e dello stesso sionismo. Il quale era partito per rivendicare il diritto degli ebrei di farsi Stato ed ora si presenta come pretesa di negare ad altri quello stesso diritto. Anche se ridotta dalla guerra che chiama all’unità nazionale, è in quella opposizione che stanno le possibilità di risalire, forse in un’altra generazione, da questa catastrofe.

E certo l’antisemitismo riattivato, a destra e a sinistra, dalla conduzione di Israele, e quel palestinismo che inneggia a Hamas e al suo fondamentalismo come rappresentante del riscatto palestinese e alla distruzione di Israele non aiutano, anzi sono nemici radicali. Essi alimentano la destra oltranzista ebraica e il suo vittimismo secondo cui “sono tutti contro di noi e solo ci resta la deterrenza militare”; e offrono alla destra non ebraica e magari di tradizione fascista, l’occasione di velare le sue responsabilità antisemite ponendosi a “difesa degli ebrei contro l’antisemitismo”. Ma con l’antisemitismo occorre confrontarsi.

In che modo?

A differenza di quella destra, in Israele e in diaspora, che considera l’antisemitismo un male metafisico e fatale, per cui non mette conto di confrontarsi con esso, per cui solo la forza e la deterrenza militare ce ne salva. Israele non se la caverà da solo. Ha bisogno della diaspora se in essa non rimarrà solo l’incanto subordinato allo “Stato guida”, ma si farà strada una critica solidale.

E mentre la destra scava la solitudine di Israele accusando l’opinione e il diritto internazionale e l’Onu di antisemitismo, Israele si salverà solo con l’aiuto critico del mondo, in appoggio alle sue forze democratiche e progressiste interne.

Open non censura dai social le pagine pro-Palestina accusandole di fake news inesistenti (open.online)

di David Puente

FACT-CHECKING

L’accusa parte da un post segnalato dagli automatismi di Meta e non oggetto di valutazione da parte di Open Fact-checking
«Come Open censura dai social le pagine pro-Palestina accusandole di fake news inesistenti» titola un articolo de L’Indipendente di Matteo Gracis, accusando la nostra testata di compiere un’attività censoria e di parte contro i sostenitori della causa palestinese. La vicenda ruota intorno a un’immagine condivisa in un post Facebook pubblicato dal blogger Giuseppe Salamone, segnalata come falsa allegando un nostro fact-check riguardo un video di Benjamin Netanyahu. L’immagine, non ha nulla a che fare con la nostra verifica, che riguarda appunto un video. Prima di procedere nella spiegazione su quanto accaduto, è bene riportare una doverosa premessa.
Il programma
Open Fact-checking è una realtà certificata dall’International Fact-checking Network e partner di Meta nel programma di fact-checking indipendente con il compito di individuare, controllare e valutare la disinformazione su Facebook, Instagram e Threads. Ogni volta che valutiamo un contenuto, secondo una rigorosa metodologia, Meta lo etichetta e ne riduce la visibilità, senza impedire in alcun modo la consultazione, condivisione o nuova pubblicazione.
Contrariamente a quanto molti falsamente affermano, Open e gli altri membri del programma di fact-checking non rimuovono i contenuti. Tale operazione viene messa in moto da Meta nel caso questi violino gli Standard della communiti, che prescindono dal programma di fact-checking.

Il fact-check e l’automazione errata

Un video, particolarmente virale sulle piattaforme Meta (e non solo), mostra Benjamin Netanyahu mentre corre nei corridoi di un edificio. La clip viene condivisa senza audio o con il suono dell’allarme antiaereo, facendo intendere che il leader israeliano stesse scappando verso un bunker durante un bombardamento iraniano. Il video, così diffuso con tali caratteristiche, è stato oggetto di una nostra valutazione dove abbiamo riscontrato il reale contesto: si trattava di una scena ripresa nel 2021 che mostrava Netanyahu mentre correva in Parlamento per votare.

Meta, a seguito del fact-check, ha provveduto ad etichettare i post dove riconosceva la presenza del video oggetto di valutazione, ma qualcosa è andato storto. Infatti, nel caso del blogger Giuseppe Salamone, l’automazione di Meta ha erroneamente etichettato un’immagine che non era stata in alcun modo valutata da Open.

Un errore noto, anche per il collega della BBC

Non è la prima volta che accade. Un esempio è quello del nostro collega di BBC Verify, Shayan Sardarizadeh, che su Threads si ritrova spesso segnalato ingiustamente quando riporta un’immagine falsa sebbene etichettata come tale. Un caso recente riguarda una foto generata con l’Intelligenza Artificiale, già oggetto di valutazione di un altro membro del programma (i colleghi di Check Your Fact) ed etichettata in automatico da Meta.

Shayan Sardarizadeh, a seguito dell’errata segnalazione, ha contestato l’accaduto e in particolare il sistema automatico che non riesce a distinguere un post di disinformazione da uno di fact-checking come il suo.

Cosa bisogna fare in questi casi?

Gli autori dei post possono fare ricorso seguendo le istruzioni presenti nella segnalazione del fact-check, risolvendo l’eventuale inconveniente in tempi molto brevi. Inoltre, è possibile richiedere una ulteriore verifica inviando una mail all’apposito indirizzo presente nell’area “contattaci” della nostra sezione (nota: la casella mail è vittima dell’Operation Overload della propaganda russa, ma controlliamo costantemente per non perdere le richieste).

Nel caso del blogger Salamone, non riscontriamo attraverso queste due vie delle richieste di intervento, ma abbiamo provveduto a segnalare questa mattina l’errore a Meta che ha rimosso dal suo post l’etichettatura.

Accuse infondate di partigianeria pro Israele

Ricordiamo, infine, che rimandiamo al mittente qualunque accusa di “partigianeria” a favore di Israele contro i sostenitori della causa palestinese. Come partner di Meta, Open Fact-checking ha valutato numerosi contenuti falsi, decontestualizzati e alterati diffusi dai sostenitori di Israele, ritrovandosi questi ultimi l’etichettatura nei rispettivi post.

Un’attività indipendente e imparziale verificabile consultando sia gli articoli presenti nella nostra sezione, che presentano in fondo la dicitura del programma di fact-checking di Meta, che gli elenchi relativi alle bufale pro Israele e le bufale pro Palestina.

L’Europa approva un prestito di 35 miliardi all’Ucraina usando i beni russi congelati come garanzia (euronews.com)

di Jorge Liboreiro

Gli extraprofitti guadagnati sui beni russi congelati in Europa saranno utilizzati per rimborsare gradualmente il prestito multimiliardario concesso a Kiev per sostenere la sua economia

I Paesi dell’Unione europea hanno dato il via libera a un piano senza precedenti per l’emissione di un prestito di 35 miliardi di euro a sostegno dell’economia dell’Ucraina, colpita dalla guerra, utilizzando come garanzia gli interessi sugli asset congelati della Banca centrale russa.

L’accordo fa parte di una più ampia iniziativa degli alleati del G7 per fornire 45 miliardi di euro a Kiev il prima possibile. Il Paese sta lottando per contenere una nuova offensiva russa che ha gravemente danneggiato il suo sistema energetico e impoverito le sue scorte militari.

Secondo i funzionari dell’Ue i 35 miliardi di euro saranno “non designati” e “non mirati”, il che significa che il governo ucraino avrà la massima flessibilità nello spendere il denaro.

L’Ungheria minaccia la riuscita del progetto

L’accordo, raggiunto mercoledì dagli ambasciatori a Bruxelles, arriva un giorno dopo che l’Ungheria ha confermato che bloccherà un cambiamento chiave nel regime di sanzioni europeo fino a quando gli Stati Uniti non avranno eletto il loro prossimo presidente il 5 novembre.

La modifica proposta prevede che gli Stati membri rinnovino le sanzioni sui beni congelati, circa 210 miliardi di euro in tutto il blocco, ogni 36 mesi anziché ogni sei, come prevede la prassi attuale.

“Crediamo che la questione debba essere decisa – il prolungamento delle sanzioni russe – dopo le elezioni americane. Questa è la posizione ungherese”, ha dichiarato martedì Mihály Varga, ministro delle Finanze ungherese, dopo una riunione ministeriale in Lussemburgo.

Il periodo di rinnovo più lungo ha lo scopo di rendere il progetto più prevedibile e di rassicurare le perplessità espresse dagli alleati del G7. Gli Stati Uniti, in particolare, temono che un singolo Paese dell’Ue possa, in qualsiasi momento, bloccare il rinnovo delle sanzioni, scongelare i beni e mandare all’aria l’intero progetto.

I timori riguardano appunto soprattutto l’Ungheria, lo Stato membro più favorevole alla Russia, che ha acquisito la reputazione di bloccare le sanzioni finché non ottiene concessioni controverse.

Secondo il piano del G7, gli extraprofitti guadagnati dagli asset congelati saranno sfruttati per rimborsare gradualmente la somma di denaro che ogni alleato presterà all’Ucraina. Se questi profitti non saranno più disponibili, l’Occidente dovrà pagare il conto.

L’esitazione degli Stati Uniti

In origine, l’Ue e gli Stati Uniti avrebbero dovuto contribuire al prestito in parti uguali, con 18 miliardi di euro ciascuno, ma la mancanza di indicazioni specifiche da parte di Washington ha portato Bruxelles ad aumentare drasticamente la sua quota fino a 35 miliardi di euro.

Il contributo del blocco potrebbe essere ridotto se gli Stati Uniti, il Canada, il Regno Unito e il Giappone finissero per impegnarsi maggiormente. Anche l’Australia, che non fa parte del G7, potrebbe contribuire.

L’accordo di mercoledì, che deve ancora essere ratificato dal Parlamento europeo, apre la strada all’Ue per raccogliere la sua quota multimiliardaria entro la fine dell’anno. Tuttavia, il rifiuto dell’Ungheria di modificare il regime di sanzioni potrebbe rallentare la decisione finale a livello di G7.

Si prevede che gli Stati Uniti metteranno sul tavolo più denaro se il periodo per il rinnovo verrà esteso a 36 mesi. La proposta è già al di sotto dell’obiettivo ideale di Washington (un rinnovo a tempo indeterminato), quindi è improbabile che il blocco di Budapest aiuti i negoziati.

(Diritti d’autore European Union, 2023)