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Luzi: «Una legge di cittadinanza per gli stranieri nati in Italia» (corriere.it)

di Goffredo Buccini

Il comandante dell’arma

«Gli stranieri nati in Italia sono italiani».

Alla guida dei carabinieri da metà gennaio 2021, Teo Luzi lascia, a novembre, con la stessa attenzione al sociale che l’ha distinto in quasi quattro anni da comandante generale dell’Arma. «La legge del ’92 — spiega — è obsoleta».

Una legge sulla cittadinanza «non più aderente al cambiamento che c’è stato» e, dunque, da ripensare ex novo nel senso dell’integrazione. Periferie dove non basta la risposta securitaria, «perché servono scuole, decoro urbano, qualità di vita dei quartieri». Un Paese stressato da Covid e guerre, «due macigni».

Arrivato alla guida dei carabinieri a metà gennaio 2021, Teo Luzi è prossimo al passo d’addio (andrà via a novembre). E lascia con la stessa attenzione al sociale che l’ha accompagnato in quasi quattro anni da comandante generale dell’Arma.

Com’è l’Italia oggi?

«Dovessi indicarle il sentimento prevalente tra i nostri compatrioti, direi: la preoccupazione. Che sfocia in tensioni, litigiosità… nei condomini, tra i banchi, sul lavoro. Nelle nostre sale operative si riversano episodi talvolta inspiegabili».

Parlando l’altro giorno ai suoi cadetti dell’Accademia di Modena ha proposto loro un antidoto: l’altruismo. Parola desueta.

«Questo è un mondo sempre più egoista, è vero. Ma ai ragazzi ho parlato di assistenza reciproca, anche nelle piccole difficoltà quotidiane. La capacità di ascolto dei carabinieri è una forma di altruismo».

Ed è uno strumento di lavoro per non perdere di vista uno snodo decisivo della nostra convivenza democratica: le periferie. I problemi di sistema in Germania e Francia lo dimostrano. È così anche per l’Italia?

«Assolutamente sì. Le periferie sono un vulnus nell’equilibrio sociale delle democrazie occidentali, bisogna garantire a chi ci vive la stessa qualità di vita di chi abita altrove. Sono aree che in Italia richiedono molta attenzione. Ma in Francia ne richiedono ancor di più: da noi non esistono banlieue dove le forze di polizia non possono entrare. Tanto è stato fatto. Ma molto ancora c’è da fare per rimuovere ostacoli che danno l’idea di vivere in serie B».

Quali ostacoli ad esempio?

«Penso alla qualità dell’istruzione. Alle strutture sportive. Alle strade e alle piazze. Penso a Caivano…».

Ci sarei arrivato. Sia sincero: è tutta realtà o anche spot?

«Sono stati fatti passi importanti, a 360 gradi. E non è solo un problema di polizia ma di socialità complessiva. L’Arma si è impegnata prima che arrivasse l’attenzione mediatica su Caivano. La Compagnia lì è nata nel 2021, voluta dall’allora ministro Lamorgese. Si è lavorato sulle scuole, anche in sinergia con noi. Non è un’isola felice, certo. Ma la qualità di vita è assimilabile al resto del territorio nazionale. E il modello Caivano va esportato in altre aree».

Quali sono quelle che vi preoccupano di più e su cui state intervenendo?

«A mente, Palermo, lo Zen: dove siamo riusciti a far accettare la stazione dei carabinieri nel quartiere, cosa non banale. I nostri lì fanno attività sociale: un tempo io allo Zen non potevo entrare. Bari, San Paolo. Librino a Catania. A Nord, Genova, il quartiere di Diamante. Pilastro a Bologna. Poi Cagliari Sant’Elia. Tor Bella Monaca a Roma. Lì abbiamo lavorato molto sulle occupazioni abusive. È un tema fondamentale».

La casa contesa tra ultimi e penultimi.

«Parliamo di migliaia di case occupate abusivamente, lo Stato non mette abbastanza attenzione al tema. Dietro un’occupazione c’è chi gestisce, si alimenta la criminalità territoriale. Serve una politica più concreta».

Però ora il governo ha sterzato, si colpiscono più duramente le occupazioni.

«E io sono assolutamente d’accordo. Poi capisco che servono anche soluzioni, ma quando questa soluzione è abusiva è il peggio: alimenta il distacco della percezione pubblica rispetto allo Stato».

A Casal di Principe, terra che davamo per bonificata, ci sono state due «stese» a poche ore dalle elezioni di giugno: rischiamo di tornare indietro in territori che pensavamo recuperati allo Stato?

«Io sono un po’ più ottimista. Ora lo Stato ha il controllo. Resta latente una forma, diciamo, culturale della criminalità, le “stese” sono messaggi criminali. Non siamo però agli anni Ottanta. E comunque quando lei parla di condizionamenti, bisogna pensare anche al Nord».

È, per dirla con Sciascia, la risalita della linea della palma?

«Beh, la criminalità organizzata rispetto alla politica locale si sente, hanno sciolto Comuni per infiltrazioni mafiose anche al Nord. Lì lavorano con un profilo economico-politico».

E allora da dove viene l’ottimismo?

«Abbiamo un quadro normativo avanzato. Una grande sensibilità della magistratura. Pochi Paesi al mondo, oggi, possono affrontare la criminalità organizzata come possiamo fare noi. L’arma del sequestro preventivo è fondamentale».

Non è il massimo del garantismo.

«Beh, se i beni provengono dal crimine e lo si dimostra con le indagini…».

La questione migratoria e la questione sociale delle periferie quanto si sovrappongono?

«Tanto. Le tensioni nelle periferie non sono risolte. Ci sono aspetti culturali, criminalità etnica. La nostra interposizione abbassa la conflittualità che però rimane latente. E c’è un altro tema…».

Dica.

«Quello degli italiani con genitori stranieri, le seconde generazioni. È emerso specie al Nord, in maniera non virulenta come in Francia: ma è una questione su cui bisogna aprire una riflessione».

Cioè?

«Bisogna favorire quanto più possibile l’integrazione. Sono italiani».

Favorirla con la cittadinanza?

«Sono italiani. Nelle periferie l’integrazione deve essere la regola. Non la fanno le forze di polizia. Si fa con la scuola, l’avviamento al lavoro».

Semplificando: se sono nato in Italia, faccio un certo numero di anni di scuola, devo averla o no la cittadinanza?

«Tutti i maggiori Paesi in Europa hanno un meccanismo di integrazione e anche l’Italia deve averlo. Quale sia, lo decida la politica. Ma il meccanismo di integrazione, con equilibrio politico, va trovato: si guardi alla Germania, alla Francia, all’Inghilterra».

Ma qui non c’è.

«Non c’è la legge. Ci vuole una legge. Tocca al Parlamento sovrano».

Per dirla chiara: la legge che oggi c’è, quella del 1992, è obsoleta?

«Non rispecchia più il cambiamento che c’è stato. Poi come debba essere la nuova, per tutelare la cultura italiana, tocca alla politica dirlo. La contrapposizione non porta da nessuna parte. Io personalmente sono molto aperto: occorre una normativa più moderna».

Quest’Italia è travagliata anche da gravi rigurgiti di antisemitismo. È una questione di sicurezza nazionale?

«Lo è. Si batte su un piano culturale. E non lasciando sole le comunità ebraiche. Un nostro generale, Angelosanto, è commissario del governo contro questo fenomeno».

I nostri anziani sono l’anello più debole della società.

«Sì, sono molto più vulnerabili, più soli. E quindi sono il bersaglio dei truffatori. Per l’anziano essere truffato è un trauma vero, dà un senso di vergogna, di fine. Così abbiamo messo su col Viminale una campagna d’informazione. Alla messa domenicale, nelle scuole per arrivare ai nonni, sui media. Anche Lino Banfi ci ha aiutato. Lui è per tutti il nonno d’Italia».

(ANSA/CLAUDIO PERI)

Addio a Massimo Battista, che lottò contro l’Ilva (ilfoglio.it)

di Adriano Sofri

Piccola posta

È stato operaio, ha promosso l’impegno dei Cittadini liberi e pensanti, l’iniziativa del Concerto dell’Uno Maggio, è stato, era ancora, consigliere comunale.

La famiglia e le compagne e i compagni, e Taranto, oggi lo piangono

Massimo Battista è morto, a 51 anni, per il tumore, ultima eredità della vita e della lotta contro l’Ilva. Ha salutato. “Dopo aver lottato con tutte le mie forze, per me, per la mia fantastica moglie e per i miei magnifici figli, la mia battaglia termina qui. Ho lottato tanto per questa città, ho sempre cercato di dare un futuro migliore alla mia amata Taranto. Ho combattuto come solo un leone sa fare”.

È stato operaio, ha promosso l’impegno dei Cittadini liberi e pensanti, l’iniziativa del Concerto dell’Uno Maggio, è stato, era ancora, consigliere comunale. L’avevo conosciuto prima alla fabbrica, poi al Circolo Nautico dell’Ilva (!), dove era esiliato, visitato fedelmente da vecchi compagni di lavoro e di lotta, con qualche bravo cane. Qualche scemo aveva scritto sul cancelletto (ma piccolo…) : “M. Battista imboscato”. (Gli esilii dell’Ilva sono stati scoperchiati dal bellissimo film di Michele Riondino, “La palazzina Laf”).

Oggi non ho ritrovato i miei appunti con il racconto di Battista, sono troppo disordinato, sono passati molti anni. Avevo, allora, pubblicato questa piccola posta, che ripeto, salutando la famiglia e le compagne e i compagni di Massimo, e Taranto, che oggi lo piange.

“Massimo Battista, operaio dell’Ilva di Taranto e cittadino libero e pensante, ha messo sul suo facebook (da ieri abbrunato per la nuova morte di lavoro) questo raccontino esemplare: ‘Capitano tutte a me, stasera mentre camminavo in via Plateja si avvicina una nonnina mi chiede sint bell piccinn taghi vist in televisione ma l sol d l’imu quand m lann dà’ / ‘Senti bello mio ti ho visto in televisione, ma i soldi dell’Imu quando me li danno’ / trad. mia, / ‘io gli ho risposto signora vedete meno la televisione e facim a rivoluzion ma no quedd civil’ / ‘e facciamo la rivoluzione ma non quella civile’ (trad. mia)”.

Meloni non la racconta giusta sul G7 e l’immigrazione (pagellapolitica.it)

di CARLO CANEPA

LA DICHIARAZIONE
«Questo G7, per la prima volta nella storia, ha parlato anche di governo dei flussi migratori»
FONTE: YOUTUBE | 14 GIUGNO 2024

Il 14 giugno la presidente del Consiglio Giorgia Meloni ha pubblicato un breve video sui social network per commentare il G7 tenutosi in Puglia. Tra i vari risultati rivendicati dalla leader di Fratelli d’Italia, ce n’è anche uno dedicato all’immigrazione. Secondo Meloni, infatti, durante il G7 si è parlato «per la prima volta nella storia» del «governo dei flussi migratori».

Abbiamo controllato se è vero oppure e no, e la presidente del Consiglio non la racconta giusta.

Le conclusioni del G7 in Puglia

Il G7 è un’organizzazione di sette Paesi (Canada, Francia, Germania, Giappone, Italia, Regno Unito e Stati Uniti) che si incontrano ogni anno per discutere e per coordinare le politiche su varie questioni globali. La presidenza del G7 spetta a turno a uno dei sette Paesi membri e quest’anno è toccata all’Italia, guidata dal governo Meloni.

Il vertice con i capi di Stato e di governo dei sette Paesi si è tenuto dal 13 al 15 giugno a Borgo Egnazia, un resort nel comune di Fasano, in Puglia. Al termine di ogni vertice sono pubblicate le cosiddette “conclusioni” (o communiqué in francese), una sorta di risoluzione finale dove sono raccolti gli impegni presi dai Paesi del G7.

Una parte delle conclusioni del vertice pugliese, lunghe 36 pagine, è dedicata alla gestione dell’immigrazione, intesa come un «fenomeno globale». In breve: il G7 si è preso l’impegno di adottare un «approccio bilanciato e integrato», in linea con il diritto internazionale, per affrontare i flussi migratori. Secondo i sette Paesi, è necessario adottare «soluzioni sostenibili e inclusive» per gestire in modo efficace i flussi, rispettando i diritti umani.

La cooperazione tra gli Stati deve seguire un approccio che allo stesso tempo affronti le «cause profonde» dell’immigrazione irregolare, migliori il controllo delle frontiere e crei percorsi sicuri per i migranti regolari. In più, il vertice del G7 ha preso l’impegno di «combattere» i trafficanti di esseri umani e di rafforzare le iniziative che informano i migranti sui rischi nell’abbandonare il proprio Paese di origine.

Secondo il G7, è necessario poi continuare a sostenere gli investimenti economici in Africa, per rafforzare la tenuta democratica dei Paesi africani e migliorare le condizioni di vita dei loro abitanti.

Ricapitolando: è vero che le conclusioni del G7 in Puglia hanno dedicato più spazio all’immigrazione rispetto a quelle dei precedenti vertici. Ma a differenza di quanto da Meloni, non è vero che «per la prima volta nella storia» si è parlato di questo tema durante un vertice tra i sette Paesi membri.

I precedenti G7

Facciamo un passo indietro di sette anni. Dal 26 al 27 maggio 2017 si è tenuto a Taormina, in Sicilia, l’ultimo vertice del G7 sotto la presidenza italiana, durante il governo di Paolo Gentiloni (Partito Democratico). Anche nelle conclusioni di quel vertice, lunghe solo sei pagine, si era parlato di immigrazione e di gestione dei flussi migratori, con frasi per certi versi simili – sebbene meno dettagliate – di quelle contenute nelle conclusioni del vertice in Puglia.

«Il movimento continuo su larga scala di migranti e rifugiati è una tendenza globale che, data la sua implicazione per la sicurezza e i diritti umani, richiede sforzi coordinati a livello nazionale e internazionale. Riconosciamo che la gestione e il controllo dei flussi migratori – tenendo conto della distinzione tra rifugiati e migranti – richiedono sia un approccio d’emergenza sia un approccio a lungo termine», si legge nel primo paragrafo dedicato all’immigrazione nelle conclusioni pubblicate dopo il G7 di Taormina.

«Riconosciamo anche la necessità di sostenere i rifugiati il più vicino possibile ai loro Paesi di origine, permettendo loro di tornare in sicurezza e aiutare a ricostruire le loro comunità d’origine. Allo stesso tempo, pur sostenendo i diritti umani di tutti i migranti e rifugiati, riaffermiamo i diritti sovrani degli Stati, individualmente e collettivamente, di controllare le proprie frontiere e di stabilire politiche nel loro interesse nazionale e sicurezza nazionale».

In più, nel 2017 i Paesi del G7 avevano concordato di stabilire partenariati con altri Stati per aiutarli a creare le condizioni adatte per affrontare le cause dell’immigrazione, riconoscendo una «responsabilità condivisa» nella gestione dei flussi migratori, nella protezione dei rifugiati e nel contrasto dei trafficanti di esseri umani.

Riferimenti all’immigrazione, seppure molto brevi, sono presenti anche nelle conclusioni di altri G7. «Affermiamo l’importanza di combattere la tratta di esseri umani e i relativi flussi finanziari illeciti, e il traffico di migranti», si legge per esempio nelle conclusioni pubblicate il 28 giugno 2022, dopo il vertice a Elmau, in Germania.

«Il G7 riconosce che i movimenti su larga scala di migranti e rifugiati rappresentano una sfida globale che richiede una risposta globale. Ci impegniamo ad aumentare l’assistenza globale per soddisfare le necessità immediate e a lungo termine dei rifugiati e di altre persone sfollate, nonché delle loro comunità ospitanti.

Il G7 incoraggia le istituzioni finanziarie internazionali e i donatori bilaterali a rafforzare la loro assistenza finanziaria e tecnica», si legge invece nelle conclusioni del G7 del 2016 a Shima, in Giappone.

Il verdetto

Secondo Giorgia Meloni, «per la prima volta nella storia» il G7 tenutosi in Puglia dal 13 al 15 giugno «ha parlato anche di governo dei flussi migratori». Abbiamo controllato e la dichiarazione della presidente del Consiglio è esagerata.

È vero che una parte delle conclusioni pubblicate alla fine del G7 in Puglia è dedicata alla gestione dei flussi dei migranti, in particolare di quelli irregolari. Di questo tema, però, si era già parlato per esempio nel vertice del 2017 a Taormina e, seppure con frasi molto più brevi, in altri incontri.

I primi passi della comunità europea sulle ceneri delle tragedie globali (linkiesta.it)

di

Mondo aperto

In “La grande incertezza” (Mondadori), Nathalie Tocci racconta l’importanza del percorso d’integrazione intrapreso dal nostro Continente a partire dal Secondo dopoguerra.

Un progetto che ha permesso di voltare pagina dopo decenni di violenze e catastrofi

La maggior parte dei cittadini italiani ed europei è nata e vissuta in un mondo aperto. L’Italia e l’Europa occidentale del dopoguerra voltarono le spalle a secoli di violenze, ingiustizie e atrocità. Si chiuse la tragica pagina della prima fase del secolo breve, «l’età della catastrofe», come la definì lo storico Eric Hobsbawm, che vide due guerre mondiali, carestie, genocidi, la Grande Depressione, totalitarismi e rivoluzioni.

Avendo toccato il fondo, l’Europa si risollevò, dando vita al progetto di pace più longevo, innovativo e trasformativo mai sperimentato, per certi versi il più rivoluzionario nella storia delle relazioni internazionali. È facile dimenticarlo o darlo per scontato, ma siamo le prime generazioni di cittadini dell’Europa occidentale che non hanno vissuto direttamente una guerra. La osserviamo, sempre più spesso, in televisione, alla radio e sui nostri cellulari. Ma non sappiamo realmente cosa sia.

L’integrazione europea nacque dalle ceneri di queste tragedie concatenate. Come scrisse saggiamente nelle sue memorie uno dei padri fondatori dell’Unione europea, Jean Monnet: «L’Europa si farà nelle crisi e sarà la somma delle soluzioni a queste crisi».

La previsione di Monnet si rivelò non solo acuta, ma anche sorprendentemente accurata, soprattutto negli ultimi decenni. Era innestata nel seme che diede vita alla Comunità economica europea: essere stata la soluzione che aveva permesso agli europei di voltare pagina dopo la seconda guerra mondiale, la più grande catastrofe che siamo stati capaci di infliggere a noi stessi.

Il progetto di integrazione fu certamente il frutto di idealismo, di valori e di progresso: consolidare la democrazia e rendere la guerra materialmente impossibile tra i paesi europei; un obiettivo fortemente voluto e avallato anche dagli Stati Uniti, che nel frattempo si erano legati a doppio filo all’Europa attraverso il Piano Marshall e l’Alleanza atlantica, il cui Trattato fondativo fu firmato nel 1949 a Washington.

Ma fu anche (e questa è la storia più scomoda, spesso ignorata dagli studiosi europei così come dalla politica di quegli anni) un modo per gestire la decolonizzazione dando vita a qualcosa di più grande dello Stato-nazione, che avrebbe permesso agli ex imperi europei di continuare a proiettare la loro «grandezza» al di là dei confini nazionali, o perlomeno a sperare di farlo.

Inizialmente si era tentata la via diretta. Lo stesso Monnet, all’epoca commissario generale per il piano di modernizzazione della Francia, propose nel 1950 una difesa europea al suo primo ministro, René Pleven, che a sua volta presentò quello che divenne noto come il Piano Pleven al Parlamento francese e successivamente alle democrazie dell’Europa occidentale. Il concetto di fondo ruotava attorno all’obiettivo strategico, anzi esistenziale, di assicurare che il riarmo tedesco venisse blindato in una cornice europea.

Il piano prevedeva, infatti, la creazione di un esercito comune di centomila uomini, costituito da battaglioni di sei paesi europei, inclusa la Germania occidentale, posti sotto il comando supremo della Nato. Integrando gli eserciti europei, questi non sarebbero stati più in grado di scendere in guerra gli uni contro gli altri. Il Piano Pleven diede vita al Trattato sulla Comunità

di difesa europea, che però, nonostante la ratifica degli altri Stati europei, si infranse sul rigetto dell’Assemblea nazionale francese nel 1954. Il risultato fu paradossale, data la genesi francese dell’iniziativa, ma, a ben vedere, non lo era. La seconda guerra mondiale e l’occupazione nazista erano finite da meno di un decennio.

Basti pensare al risentimento ancora a fior di pelle tra i paesi europei generato dalla crisi del debito sovrano per rendersi conto che la memoria e il terrore dei conflitti erano ancora troppo vivi, e la sovranità riconquistata troppo giovane per cederla proprio nell’ambito più strategico ed esistenziale di uno Stato: la difesa.

Tuttavia, i padri fondatori non demorsero, trovando una via indiretta per raggiungere lo stesso scopo. Mettendo a fattor comune le industrie del carbone e dell’acciaio, alla base dell’industria della difesa, i sei paesi fondatori diedero vita a un processo di integrazione, apparentemente «solo» economico, ma in realtà profondamente politico e strategico. Se gli Stati membri della nuova comunità avessero fuso le loro industrie dell’acciaio e del carbone, questo non avrebbe solamente generato un’interdipendenza economica fra loro, ma anche intrecciato indirettamente le rispettive industrie della difesa, alimentate da quelle stesse materie prime.

Come avevano previsto e auspicato i padri dell’Europa unita, tra cui Robert Schuman, Jean Monnet e Altiero Spinelli, all’emergere di ogni nuova sfida si rivelava una diversa sfaccettatura dell’insufficienza dello Stato-nazione a fornire risposte ottimali.

Conseguentemente, si poneva un ulteriore mattoncino della casa comune europea, aggiungendo e talvolta trasferendo competenze (nel senso sia giuridico sia professionale del termine) al livello sovranazionale europeo. Così nel corso dei decenni si è andata costruendo una Comunità e poi un’Unione europea (Ue), con le sue istituzioni, i suoi processi decisionali e democratici, e il suo mercato unico, in cui vennero sancite le quattro libertà di movimento dei beni, dei servizi, del capitale e delle persone.

Fiore all’occhiello dell’integrazione economica europea fu la moneta unica – l’euro –, introdotta formalmente nel 1999 dopo un decennio di preparativi, e utilizzata come contante tra un gruppo leggermente più ristretto di Stati membri – noto come Eurogruppo – dal 2002.

Negli anni dell’Europa aperta fu creata anche l’area Schengen, con l’abolizione delle frontiere interne tra gli Stati europei e la creazione di una frontiera esterna comune. Importante ricordare, però, che all’inizio l’apertura dei confini interni non fu accompagnata dal tentativo parallelo di chiudere la frontiera esterna, certamente non della sua securitizzazione avvenuta successivamente.

Negli anni Ottanta quando fu firmato il Trattato Schengen, e nei Novanta quando venne attuato e si ampliò l’area Schengen in concomitanza con l’allargamento Ue ai paesi scandinavi, vigeva infatti un equilibrio sostanzialmente precario ma apparentemente stabile ai nostri confini esterni.

Nell’Europa meridionale, fatta eccezione per l’Italia, che già iniziava a zoppicare dalla metà degli anni Novanta, le economie erano in forte miglioramento. Soprattutto la Spagna, ma anche le più piccole Grecia e Portogallo, voltata la pagina della dittatura e abbracciata la democrazia, vissero anni di crescita economica e quindi di capacità di assorbimento socio-politico dei flussi moderati di immigrazione dal Nord Africa.

Sull’altra sponda del Mediterraneo apparivano invece stabili le autocrazie, da Hosni Mubarak in Egitto a Muammar Gheddafi in Libia e Zine el-Abidine Ben Ali in Tunisia. Era una stabilità solo apparente, che non faceva perno su una forte legittimazione interna, bensì sul controllo esercitato da quei dittatori sui propri cittadini e su una loro legittimazione esterna assicurata proprio dai rapporti cooperativi con i paesi europei. Il do ut des risiedeva in una cooperazione tra i regimi nordafricani e il Vecchio Continente, che colmava parzialmente la mancanza di legittimità interna dei primi.

Tratto da “La grande incertezza. Navigare le contraddizioni del disordine globale” (Mondadori), di Nathalie Tocci, pp. 192, 18.00 €

USA – Perché la Corte Suprema potrebbe esprimere il voto finale per il presidente (politico.com)

di Aziz Huq

In panchina

Tre scenari per i grandi interventi.

Il nuovo mandato della Corte Suprema che è iniziato questa settimana non è traboccante di ovvi successi. I giudici hanno preso in considerazione un grande caso di guerra culturale – una sfida al divieto del Tennessee sull’assistenza sanitaria per l’affermazione di genere per i giovani trans – ma hanno rifiutato gli inviti ad approfondire l’assalto della corte allo stato amministrativo.

Durerà questa modestia? Una ragione per pensare di no è questa: il ciclo delle elezioni presidenziali sta appena arrivando al punto in cui i conflitti politici potrebbero trasformarsi in casi costituzionali. In effetti, la Corte Suprema ha già dimostrato di non aver paura di rimescolare le regole elettorali poche settimane prima dell’inizio del ballottaggio: ha recentemente accettato un tentativo repubblicano di richiedere la prova della cittadinanza per alcune schede elettorali dell’Arizona.

E’ impossibile prevedere se un altro Bush contro Gore è dietro l’angolo. Eppure la corte potrebbe presto trovarsi di fronte a una disputa di alto profilo senza una risposta legale ovviamente “giusta” – e dove il risultato decide le elezioni.

Esistono già tre strade per la Corte Suprema se vuole rimodellare l’esito del 2024.

Il primo percorso consiste nell’impugnare la sentenza di un tribunale statale sulla legge elettorale statale. La Corte Suprema di solito ascolta solo i casi di diritto federale. Ma una decisione del 2022 in Moore v. Harper ha stabilito che i giudici potevano intervenire se i giudici statali “superavano i limiti del controllo giudiziario ordinario” nel pronunciarsi sulla legge elettorale statale. I giudici non hanno mai chiarito cosa potesse comportare questo linguaggio vago. Ciò significa che hanno mano libera per rimettere in discussione le decisioni della legge statale dei tribunali statali quando si tratta di elezioni federali.

Nella Carolina del Nord, diverse cause sono state presentate in un tribunale statale per contestare le liste elettorali dello stato e le procedure di voto per corrispondenza. Forse il più significativo – sostenere che 225.000 elettori sono stati registrati in modo improprio – si è appena spostato alla corte federale.

Che rimanga lì o che venga rimbalzato al tribunale statale, è uno dei numerosi veicoli per i giudici per decidere potenzialmente la corsa presidenziale del 2024 se lo stato di Tar Heel è fondamentale. Una sfida alle pratiche di registrazione degli elettori in Pennsylvania, respinta dai giudici proprio questo lunedì, è un promemoria del fatto che questo problema potrebbe presentarsi in uno qualsiasi degli stati in bilico.

Un secondo percorso per la corte si apre dopo che le votazioni sono state espresse. Dopo che il vincitore di uno stato è stato dichiarato, una lista di elettori deve essere “certificata” da ogni stato prima che il collegio elettorale si riunisca per ungere formalmente il prossimo presidente. Cosa succede, tuttavia, se uno Stato non riesce a presentare la sua lista al Congresso in tempo?

Fino a poco tempo fa, la risposta non era molto. L’Electoral Count Act del 1887 affermava che le proposte entro una data di “approdo sicuro” di dicembre erano trattate come “conclusive”, ma le presentazioni tardive potevano ancora essere prese in considerazione.

Tuttavia, quando il Congresso ha rivisto lo statuto nel 2022 per cercare di prevenire un altro caso di frode e caos che ha avuto luogo il 6 gennaio 2021, ha modificato la scadenza del “porto sicuro” per renderla obbligatoria. Lo statuto, tuttavia, tace su cosa succede se uno Stato supera la data di presentazione obbligatoria.

Il Congresso può ancora prendere in considerazione la lista? O i seggi del Collegio Elettorale dello Stato sarebbero stati eliminati dal conteggio finale? La nuova legge sottopone la questione ai tribunali e crea un meccanismo accelerato per le controversie relative alla certificazione per raggiungere i giudici.

Immaginate, quindi, che la commissione elettorale dello stato della Georgia, sostenuta dal MAGA, si rifiuti di certificare la vittoria di Harris. A dire il vero, la legge statale impone quella che alcuni chiamano una scadenza “cristallina” per la certificazione dello stato.

Ma i membri del MAGA del consiglio potrebbero dire che i loro giuramenti costituzionali vietano loro di prestare attenzione a una legge statale che richiede loro di benedire quello che etichettano (falsamente) come risultato fraudolento. Il conflitto sulla legge statale potrebbe legare le mani del governatore, aprendo la porta a una sfida legale ai sensi della legge sul conteggio elettorale modificata.

E se ciò accadrà, i giudici si troveranno nella scomoda posizione di cercare di colmare una lacuna nel nuovo statuto – che, ricordiamolo, non dice cosa fare se non viene certificata alcuna lista – in un caso che determina chi presterà giuramento presidenziale poche settimane dopo.

La terza strada per la corte si apre dopo che una sessione congiunta del Congresso si è riunita per benedire il conteggio del Collegio Elettorale. È il meno probabile che si svolga – forse fortunatamente, perché sarebbe anche il più esplosivo.

Secondo la legge federale, un quinto dei senatori e un quinto dei rappresentanti possono opporsi alla certificazione del collegio elettorale di uno stato. Un motivo di obiezione è che i voti non sono stati “dati regolarmente”. Ancora una volta, questo linguaggio legislativo non è esattamente chiaro, ma un importante resoconto accademico suggerisce che significhi un cast coerente con “la Costituzione federale, la legge federale e la legge statale”. I voti per qualcuno che non è qualificato per essere presidente rientrerebbero probabilmente in questa categoria.

Consideriamo quindi la possibilità che alcuni democratici vogliano ricordare alla gente che Donald Trump ha avuto un ruolo attivo nelle violenze del 6 gennaio 2021 e vogliano fare un ultimo disperato tentativo di far deragliare il suo ritorno alla presidenza. Ricordiamo che il Colorado ha cercato di squalificare Trump dal ballottaggio delle primarie, sulla base del fatto che era un insurrezionalista escluso dalla Sezione 3 del 14° Emendamento.

La Corte Suprema ha respinto questa argomentazione. Ma i giudici lo hanno fatto sostenendo che solo gli attori federali, e non gli stati, potevano squalificare un candidato presidenziale. Anche se spesso oscuro, il parere di squalifica della corte non esclude una conclusione dell’ultima ora secondo cui Trump, in quanto insurrezionalista, non può ricoprire una carica federale.

Senza dubbio, questi democratici avrebbero difficoltà a convincere le maggioranze sia della Camera che del Senato ad essere d’accordo. Anche se perdono, potrebbero appellarsi ai tribunali sostenendo che i loro colleghi hanno frainteso il loro potere – e il loro dovere – nella sessione congiunta?

Potrebbero trovare un giudice della corte distrettuale comprensivo, disgustato dalle presunte macchinazioni del giudice capo John Roberts nei casi Trump, che sia d’accordo? E allora la questione della squalifica di Trump tornerebbe davanti ai giudici – proprio mentre la clessidra elettorale si svuota.

In un certo senso, non ci si può aspettare che i giudici apprezzino la prospettiva di decidere questi casi: tutti sembrano godere almeno dell’apparenza di stare al di sopra della politica. Ma questo è opera loro. La Corte Suprema si è posizionata come l’ultima parola necessaria su quasi tutte le questioni di importanza nazionale.

Le sue stravaganti pretese di autorità – ben oltre ciò che i Padri Fondatori avevano previsto – potrebbero finalmente tornare a perseguitarlo questo autunno.

Le persone passano fuori dalla Corte Suprema degli Stati Uniti.