Alla fine del buio (corriere.it)

di Antonio Polito

Definendo nella loro piattaforma il 7 ottobre 
come «l’inizio della rivoluzione palestinese», i 
ragazzi del corteo di Roma, forse senza saperlo, 
hanno dato una risposta alla domanda cruciale: 
chi ha cominciato questa guerra? 

In effetti un anno fa fu Hamas a cominciare.

E non per liberare dei territori occupati da Israele, perché i kibbutz e i villaggi che furono assaltati sono parte integrante dello Stato ebraico fino dalla sua fondazione nel 1948. Né per liberare il territorio da cui partirono i commando, visto che la Striscia di Gaza è stata restituita ai palestinesi nel 2005 da uno dei capi storici della destra israeliana, Ariel Sharon, che la liberò con la forza dai coloni ebrei insediativisi.

Hamas ne ha il controllo, assunto con un cruento colpo di stato contro i «fratelli» di Al Fatah, da quasi vent’anni: avrebbe potuto fare della Striscia un modello del futuro Stato palestinese, libero e in pace; ha usato invece tutte le (non poche) risorse che vi facevano affluire il Qatar e l’Iran, ma anche l’Onu e l’Europa, per perseguire l’obiettivo di colpire e distruggere lo Stato di Israele. Il 7 ottobre è stato il momento di maggior successo di questa strategia.

M a ha anche dato inizio all’anno più tragico nella storia di quel disgraziatissimo popolo.

Appena dodici mesi dopo, questi fatti sono dimenticati. La strage di palestinesi, forse quarantamila civili uccisi; l’esodo, la fuga, la sofferenza di altre decine di migliaia di esseri umani che non avevano alcuna responsabilità nel progrom anti-ebraico del 7 ottobre, hanno nascosto alla nostra vista ogni altra considerazione che non siano la pietà per le vittime e l’indignazione per i carnefici.

È comprensibile. Stando a un sondaggio dell’Ispi, tra gli italiani che si sono fatti un’opinione la maggioranza attribuisce la responsabilità della guerra di Gaza, e anche di quella con Hezbollah, a Israele e al suo governo.

Ma non è solo per l’enormità della tragedia umanitaria cui da dodici mesi assistiamo nella Striscia se tanti di noi, e soprattutto tanti nostri figli, vedono oggi in primo piano i torti di Israele. Non è neanche per l’ignoranza — pure diffusissima — delle radici storiche di quel conflitto, che spinge a non considerare Israele una nazione come ogni altra, legittimamente costituita in Stato da una decisione a stragrande maggioranza dell’Onu, ma piuttosto come una potenza coloniale, oscuramente finanziata e sostenuta dalla lobby ebraica mondiale, che avrebbe così usurpato il diritto del più debole. Nell’isolamento in cui Israele sta combattendo la sua ennesima guerra «esistenziale» c’è infatti anche un giudizio sulla politica che ha condotto nel lungo ventennio dell’era Netanyahu.

Da troppo tempo i governi israeliani sembrano rassegnati all’odio dei loro nemici in armi, e determinati a contrastarlo con le armi e solo con quelle. La speranza di pace di quel grande popolo, che è stato capace di fare di un pezzo di deserto la «start-up nation», sembra essersi spenta insieme con la vita di Itzhak Rabin, il premier di un’altra e diversa Israele, assassinato dopo aver firmato con Arafat gli accordi di Oslo: l’ultimo tentativo di far convivere sulla stessa terra i due popoli, ebreo e palestinese, in due Stati.

Netanyahu è il figlio (e anche l’artefice) di quella delusione, che ha rafforzato gli estremisti in Israele, ma ancor di più gli estremisti di Hamas. La destra israeliana ha tollerato il feroce regime islamico a Gaza finché ha creduto che non avesse abbastanza denti per azzannare, sperando che anzi rappresentasse il miglior alibi possibile per seppellire ogni ipotesi di pace e di Stato palestinese.

Così oggi siamo arrivati a un punto in cui parlare di «due popoli, due Stati» sembra ormai una formula vuota, un’illusione. Come se non restasse che la soluzione della mutua distruzione. Hamas e Hezbollah non hanno mai cancellato dai loro statuti l’obiettivo della cancellazione dello Stato di Israele, cioè di una «Palestina libera dal fiume al mare», come ripetono gli studenti nei cortei forse senza capire che vuol dire buttare in mare fino all’ultimo ebreo.

Bisogna contrastare con tutte le forze questo disegno, difendere senza incertezze il diritto a esistere in pace e sicurezza dello Stato ebraico, di uno Stato cioè in cui gli ebrei non siano più costretti a temere o a nascondersi, come invece ancora e di nuovo avviene nella nostra civilissima Europa.

Ma se vogliamo contrastare l’antisemitismo che oggi nelle piazze si traveste da antisionismo, perché nega il diritto degli ebrei ad avere uno Stato, abbiamo anche il dovere di dire che Israele è diverso. Che deve essere diverso. Se davvero è l’unica propaggine in Medio Oriente della libertà e della democrazia occidentali, non può confondere la distruzione del nemico con l’eliminazione del pericolo. Ieri il capo delle forze armate israeliane ha dichiarato che «l’ala militare di Hamas è stata sconfitta».

È stato per questo eliminato il pericolo che viene dalla Striscia di Gaza? E se anche Israele colpisse, come farà, le strutture militari del regime iraniano, sarà per questo eliminato il pericolo che viene dalla teocrazia degli ayatollah? Israele ha diritto a difendersi dalla guerra con la guerra.

Ma non può mai smettere di muovere guerra per fare la pace.

L’imborghesimento urbano, e la tenace suscettibilità da codice postale (linkiesta.it)

di

Rozzano siamo noi

Provate a dire qualcosa di Roma, Napoli o Bologna e ve la dovrete vedere con gli offesi locali.

Anche nell’hinterland milanese se la prendono quando Fedez allude a un suo passato estremo in quanto rozzanese, dimenticando la cosa più importante: è di Buccinasco

Era la fine degli anni Ottanta, ero in gita a Roma, in visita a cugini colà residenti. Oggi i liceali porterebbero la cugina in visita a instagrammarsi ai Musei Vaticani, all’epoca non c’era necessità di fotogenia e quindi mi fecero fare l’esperienza più estrema della mia vita: prendemmo un autobus per andare a comprare il fumo a Portonaccio.

Successivamente avrei abitato a Roma per diciassette anni, e non solo a Portonaccio non sarei in diciassette anni mai tornata, ma neanche l’ho in diciassette (più altri sedici) anni mai più sentito nominare. Per citarlo in questo articolo (magari era un falso ricordo) l’ho cercato su Google, e tra i primi risultati m’è uscito il titolo “Portonaccio e Pietralata: l’altra Roma tra Soho e via Margutta”.

Non c’è periferia il cui degrado sia più forte del bisogno di metterli da qualche parte, questi esponenti del turismo di massa, della necessità di riqualificare tutto, di riconvertire tutto in bed and breakfast. L’imborghesimento urbano fattura ormai più del commercio di droga.

(Per l’intero giro di frase del paragrafo precedente ho pensato al Sanremo 2011, all’intervista di Elisabetta Canalis a Robert De Niro, all’Italia intera di opinionisti da divano che sui social sbeffeggia lei che non sa tradurre «gentrification», per poi passare i successivi tredici anni ad altrettanto non sapere come tradurlo in quella lingua morta che è l’italiano, e quindi ricalcarlo mettendo una vocale alla fine).

In quegli stessi anni, Achille Occhetto annunciò la fine del Pci nella sezione della Bolognina, meno di tre chilometri a piedi dove abitavo e dove ero cresciuta, ma a Bologna tre chilometri sono una distanza intercontinentale, e leggendo della Bolognina sui giornali avevo la percezione d’esotismo che ricavavo dagli articoli su New York (anzi meno: a New York ci ero stata).

Trentacinque anni e non so quanti nomi di partito dopo, non sono più sicura di non essere mai stata alla Bolognina: di recente un tassista mi ha lasciato in via dei Carracci perché aveva una specie di suv o come si chiamano, troppo alto per entrare nel sottopassaggio che porta all’infernale stazione dell’alta velocità.

Via dei Carracci è Bolognina, no? Posso dire d’essere stata in periferia, o è come quando prendi una coincidenza all’aeroporto di Amsterdam e non vale come aver visitato l’Olanda? E, soprattutto, se la periferia è ormai divenuta fighetta sempre per il meccanismo spiegato da De Niro alla Canalis, fa punteggio esotico quanto la periferia degradata?

Sì, lo so che ora arriveranno quelli che mi dicono che la Bolognina non è periferia come ti permettiiii. I bolognesi sono romani in sessantaquattresimo, convinti che tutto sia centro. Conosco romani residenti un paio di chilometri oltre san Giovanni che ti dicono che quello è centro: io avrei già delle obiezioni al considerare centro piazza Barberini.

È meno centro la periferia di quei dieci centimetri quadrati di città che è Bologna, dove qualunque forestiero di passaggio ti guarda con lo sguardo di chi si sente originalissimo citandoti il «non si perde neanche un bambino» di Dalla, o di una città sterminata come Roma, sterminata e quindi più autorizzata a estendere il concetto di «centro»? Se Portonaccio è Soho, vale tutto, anche considerare la Bolognina un Meat Packing District coi negozi più brutti?

E De Niro è ancora preoccupato per la gentrificazione (ecco, ho usato la parola più orrenda della neolingua, spero siate contenti, voialtri che vi preoccupate per «apericena» e non per i veri orrori), o dobbiamo prendere per significativo il suo essersi quest’estate schierato (assieme ad altri ricchi e famosi teoricamente di sinistra, da Patti Smith a Martin Scorsese) contro la costruzione di case popolari, a New York, al posto dei giardinetti di Elizabeth Street? La gentrificazione è brutta, ma essere ricchi coi giardinetti sotto casa è meglio che essere ricchi coi poveri per vicini di casa, no?

Tutti questi interrogativi filosofici li avevo accantonati l’altro giorno, quando sui giornali è uscita la notizia che l’ex marito della Ferragni, in mezzo a non so quale dei casini dai quali i due sono oberati al momento, avrebbe detto di non so chi «Lasciatemi, lo ammazzo, io sono di Rozzano».

Li avevo accantonati perché mi ero messa a ripensare a quando mi avevano raccontato di lui che diceva che mettersi a litigare sui social era il meno. La frase riferita faceva più o meno così: io sono di Rozzano, la metà dei miei amici sono morti e l’altra metà in galera, è già tanto se non finisce a coltellate.

Era vera? Non era vera? Non importa: mi era piaciuta moltissimo, era stata la prima volta in cui mi aveva fatto simpatia. Anche se c’era un problema in questa citazione riferita di terza mano: Federico Lucia non è di Rozzano, è di Buccinasco.

Lo so perché, quando aveva fatto un concerto in Duomo, aveva detto che per lui cantare in Duomo era una grande emozione perché «io sono di Milano». E io ero andata a controllare di che banlieue fosse, onde essere informata mentre pensavo: ma non è di Milano. Se sei dell’hinterland ma il sabato pomeriggio da piccolo facevi le vasche in san Babila, sei di Milano? Se sei dei sobborghi ma finalmente vivi a piazza Castello, sei di Milano?

(Secondo me sì. Secondo me sei di dove abiti, e infatti a Bologna ho dovuto smettere di portare i vestiti al lavasecco di proprietà d’una cinese che mi restituiva le cose senza averle lavate. Se vivi a Bologna prendi le caratteristiche locali, la principale delle quali è la non voglia di lavorare. Quando pensate che i cinesi siano gran lavoratori, è perché pensate ai cinesi milanesi. O ai cinesi rozzanesi).

«Non ci riferiamo solo a questo episodio e non abbiamo nulla contro Fedez, ma siamo stufi di essere etichettati così. Rozzano ha i suoi problemi e le sue criticità, ma li affrontiamo a testa alta». Lo dice alle pagine milanesi del Corriere un imprecisato rozzanese dell’amministrazione comunale, e non c’è di che sorprendersi: tra tutte le suscettibilità, quella con matrice il codice postale è la più tenace.

L’unica eccezione sono proprio i milanesi, forse perché non esistono: a Milano la gente arriva, non nasce, e quindi nessuno si picca di difendere la città in cui vive, essendo impegnato a offendersi a nome di quella in cui è nato. Ma provate a dire qualcosa di Roma, di Bologna, di Napoli, e vi troverete sommersi di notifiche da parte degli offesi locali (alcuni dei quali difendono il buon nome della città d’origine ma col cazzo che ci vivono, essendo la città d’origine in genere persino peggio di come l’avete descritta offensivamente voi).

«Rozzano siamo noi. La nostra è una comunità di gente per bene, persone oneste che vivono la città ogni giorno con senso civico, rispetto delle regole e attenzione al bene comune che non hanno nulla a che fare con la malavita», scrive in una lettera aperta il sindaco, e io vorrei obiettare ma non riesco a capire se in «sono di Rozzano» Rozzano sia sineddoche o metonimia (metti che obietto con la figura retorica sbagliata e poi vengo corretta dal sindaco di Rozzano, che umiliazione).

Chissà se a Roma qualche esponente dell’undicesimo municipio ha messo per iscritto la propria indignazione per il disinvolto uso dell’espressione «banda della Magliana». Me lo chiedo andando avanti a leggere la lettera aperta del sindaco rozzanese, su Facebook. «Siamo stanchi di essere identificati con etichette negative che dipingono Rozzano come sinonimo di malavita. Questa reputazione non ci appartiene, e lo affermiamo con determinazione e orgoglio». Non trovo l’unica frase che mi aspettavo: «E comunque quello è di Buccinasco».

In compenso il post subito sotto è una foto di materassi con scritto «Perché abbandonare gli ingombranti sulla strada senza chiamare il servizio GRATUITO di Ama per programmarne il ritiro?». Diceva la canzone che «gli altri siamo noi, ma qui sulla stessa via, vigliaccamente eroi, lasciamo indietro i pezzi di altri nomi», e vale anche per i rozzanesi.

Che non sono malavitosi, solo gente che molla i rifiuti per strada. Tali e quali ai bolognesi, ai romani, ai napoletani.