Dall’Urss a Putin. L’asse Kgb-criminali spiegato da Germani e Jensen (formiche.net)

di Luigi Sergio Germani e Donald N. Jensen

James Bond

La criminalità organizzata è diventata una componente importante delle operazioni ibride condotte dai servizi segreti di Mosca contro le democrazie occidentali. Ecco come rispondere. L’analisi di Luigi Sergio Germani, direttore dell’Istituto Gino Germani, e Donald N. Jensen, adjunct fellow della Foundation for Defense of Democracies

Secondo funzionari di diversi servizi d’intelligence europei, dall’inizio dell’anno la Russia ha intensificato una campagna di attentati con esplosivi, incendi dolosi e sabotaggi alle infrastrutture in tutta Europa. I servizi russi si avvalgono di gruppi criminali e delinquenti comuni come proxy per compiere questi attacchi.

Lo scopo di questa campagna di guerra ibrida, che potrebbe diventare più violenta e destabilizzante nei prossimi mesi, è costringere i decisori politici europei a cessare di assistere militarmente e finanziariamente l’Ucraina. Si tratta di una “escalation orizzontale” operata da Mosca, che evita di attuare una “escalation verticale”, ossia nucleare, spesso minacciata dal Cremlino per esercitare pressione psicologica sui governanti e le opinioni pubbliche in Occidente.

Un recente rapporto del Royal United Services Institute sostiene che, dopo l’invasione su vasta scala dell’Ucraina, le agenzie di intelligence russe utilizzano sempre di più la criminalità organizzata per condurre operazioni di spionaggio e guerra ibrida in Europa.

Dopo l’invasione, l’espulsione in massa in tutta Europa di funzionari dell’intelligence russa ha sconvolto le strutture di supporto di cui essa si avvaleva per eseguire molte operazioni nel Vecchio Continente. Per ricostruire tali strutture di supporto (personale operativo, società di copertura, case sicure, automobili) i servizi russi stanno ricorrendo a organizzazioni criminali russo-eurasiatiche e di altri Paesi.

I servizi segreti di molti regimi autoritari – e soprattutto le agenzie d’intelligence delle principali potenze revisioniste anti-occidentali ossia Russia, Cina, Iran e Corea del Nord – utilizzano costantemente la criminalità organizzata come proxy, fornitori di supporto per attività spionistica, fonti di risorse finanziarie, e assassini a pagamento.

I servizi di intelligence degli Stati democratici occasionalmente si avvalgono della collaborazione di organizzazioni criminali per condurre attività di spionaggio o operazioni occulte di natura politica o militare. Per esempio, durante la Seconda guerra mondiale, l’intelligence statunitense affidò alla mafia siciliana i compiti di raccogliere informazioni e fornire supporto operativo all’invasione alleata della Sicilia.

Le agenzie di intelligence occidentali, tuttavia, tendono a evitare di instaurare rapporti di collaborazione sistematica con il mondo malavitoso, soprattutto a causa dei rischi operativi che tale collaborazione comporta.

La stretta collaborazione tra servizi segreti russi e sodalizi mafiosi non è un fenomeno nuovo: essa ha radici profonde nell’epoca sovietica. Nell’era di Vladimir Putin, l’intreccio tra agenzie di intelligence e mafie post-sovietiche è diventato ancora più stretto e marcato. Di conseguenza, è sempre più difficile distinguere tra la criminalità organizzata russo-eurasiatica, operazioni di intelligence russe e operazioni dello Stato russo.

L’alleanza tra Kgb e criminalità organizzata durante l’epoca sovietica e la sua successiva evoluzione nel periodo post-sovietico è un argomento trascurato dagli analisti occidentali, ma è cruciale per comprendere il regime di Putin e le sue possibili evoluzioni future.

Nel sistema sovietico, il Kgb, un onnipotente “Stato nello Stato”, penetrava il mondo criminale dell’Urss e lo utilizzava sistematicamente come strumento del regime comunista per: reprimere il dissenso politico e ideologico; monitorare e sfruttare l’”economia parallela” sovietica; fornire beni di lusso alla nomenklatura comunista (la casta dominante dell’Unione Sovietica); compromettere e ricattare stranieri che si recavano nell’Urss per reclutarli come fonti informative e agenti d’influenza al servizio del regime sovietico.

Va evidenziato, inoltre, che negli anni Ottanta diversi ricercatori occidentali sostenevano che il Kgb fosse profondamente coinvolto nel traffico internazionale di stupefacenti da regioni di produzione della droga (Afghanistan e America Latina) verso i centri di consumo negli Stati Uniti e nell’Europa occidentale, allo scopo di indebolire, demoralizzare e destabilizzare le società occidentali.

Secondo queste analisi (spesso ignorate o sottovalutate in Occidente), l’Unione Sovietica e i suoi alleati – tra cui Cuba, Bulgaria, Nicaragua e alcune organizzazioni terroristiche internazionali – utilizzavano il traffico internazionale di droga come uno dei tanti strumenti della loro strategia globale di “misure attive” contro l’Occidente.

Durante la perestrojka di Michail Gorbaciov, nella seconda metà degli anni Ottanta, il Kgb e la criminalità organizzata sovietica svilupparono crescenti sinergie tese a penetrare e ad acquisire posizioni dominanti nella nascente economia di mercato. Inoltre, a metà degli anni Ottanta, secondo autorevoli analisti e giornalisti investigativi, quando il sistema sovietico entrò in una fase di profonda crisi sistemica, i vertici del Partito comunista dell’Unione Sovietica (Pcus) incaricarono il Kgb di mettere a punto una strategia per trasferire gli enormi capitali del Pcus a società controllate dal Kgb nel settore privato sovietico e all’estero.

Lo scopo di questa operazione straordinaria era salvaguardare il potere economico e finanziario della nomenklatura comunista e dello stesso Kgb, anche nel caso dovesse crollare il regime.

Così, prima del collasso dell’Unione Sovietica nel dicembre 1991, ingenti risorse finanziarie furono sottratte illecitamente dal Kgb, a beneficio proprio e del Pcus, e riciclate all’estero, specialmente in Occidente, tramite appositi conti bancari e società di copertura.

Questa gigantesca operazione di riciclaggio di denaro – denominata “la saga dei miliardi del Kgb” dal compianto Fritz W. Ermarth, uno dei più brillanti analisti della Cia e profondo conoscitore della Russia – fu realizzata dal Kgb stesso in stretta collaborazione con la criminalità organizzata sovietica e altre organizzazioni criminali transnazionali.

All’inizio degli anni Novanta i servizi d’intelligence italiani segnalarono che anche l’Italia veniva utilizzata per riciclare e investire i capitali del Pcus. Secondo diverse fonti, nel 1992 Francesco Cossiga, allora presidente della Repubblica, chiese al magistrato antimafia Giovanni Falcone di avviare un’indagine congiunta con le autorità russe per scoprire dove fossero stati investiti in Italia i fondi del Pcus e se organizzazioni mafiose italiane fossero coinvolte nell’operazione. Falcone avrebbe iniziato a collaborare con il procuratore generale russo Valentin Stepankov in un’indagine comune sull’“Oro di Mosca”.

Tra la fine di maggio e gli inizi di giugno 1992 Falcone avrebbe dovuto recarsi a Mosca per proseguire l’indagine, ma il 23 maggio fu ucciso nella strage di Capaci, insieme a sua moglie Francesca e a tre agenti della sua scorta.

Dopo il fallimento del colpo di Stato dell’agosto 1991, il presidente russo Boris Eltsin decise di non attuare una riforma radicale del Kgb né di smantellarlo, come lo sollecitava a fare il movimento democratico russo. Eltsin, invece, puntò a indebolire la potentissima polizia segreta sovietica dividendola in diverse agenzie di sicurezza e intelligence, di cui stimolò una reciproca rivalità. Allo stesso tempo, chiese il supporto dei “nuovi” servizi segreti russi – gli eredi del “disciolto” Kgb – per rafforzare il proprio regime.

Anche se la polizia segreta sovietica fu formalmente sciolta da Eltsin, il “sistema Kgb” continuò a esistere, e la mancata riforma radicale di tale sistema creò i presupposti per la crescente penetrazione čekista nella politica e nell’economia della Russia post-comunista, e per la rinascita del potere della polizia segreta.

Putin era uno dei tanti esponenti del “sistema Kgb” che riuscirono a infiltrarsi efficacemente nella politica, negli apparati governativi e nel mondo degli affari della Russia degli anni Novanta. Secondo diversi studi approfonditi – come quelli di Karen DawishaCatherine Belton e del Free Russia Forum –Putin (che probabilmente si era già congedato dalla polizia segreta), che in quella fase rivestiva alti incarichi nel governo locale di San Pietroburgo, era strettamente collegato con esponenti di spicco dell’organizzazione criminale Tambovskaja-Malyševskaja, all’epoca il sodalizio mafioso più potente di San Pietroburgo.

Si consolidò allora a San Pietroburgo un’alleanza fra polizia segreta e criminalità organizzata tesa a dominare gran parte dell’economia della città a proprio vantaggio. Questo sistema di collaborazione tra čekisti e mondo criminale si espanse in tutta la Russia dopo che Putin salì al potere nel 2000.

Già nell’era Eltsin, esperti occidentali di controspionaggio avevano segnalato che i servizi segreti russi si avvalevano di organizzazioni mafiose russo-eurasiatiche per potenziare le loro operazioni spionistiche e di influenza/ingerenza contro Paesi dell’area euro-atlantica. Un rapporto analitico del Bnd (il Servizio di intelligence estera tedesco) del 1997 affermava che “le agenzie di intelligence russe e i sodalizi mafiosi hanno instaurato un rapporto simbiotico a beneficio di entrambi”.

Secondo quanto riferivano all’epoca gli analisti del Bnd e di altre agenzie di intelligence europee, importanti gruppi criminali russo-eurasiatici operanti in Europa svolgevano attività di ricerca informativa per conto dei servizi russi, fornivano risorse finanziarie per operazioni d’intelligence, e in vari Paesi europei esercitavano influenza economica e politica occulte per conto dello Stato russo.

In cambio, i servizi garantivano ai gruppi criminali protezione nei confronti di indagini delle forze di polizia russe e spesso facilitavano alcune loro attività delittuose, ad esempio consentendo l’uso di valigie diplomatiche per traffici illeciti (tra cui anche il trasporto di sostanze stupefacenti).

Nell’era Putin, i servizi segreti russi e il crimine organizzato (compresi i gruppi dediti al cyber-crime) sono diventati ancora più strettamente intrecciati. Il ruolo dell’Fsb (il servizio di sicurezza interna) nella protezione della sicurezza del regime di Putin, nel controllo della società e nella lotta alla corruzione politico-amministrativa si è ampliato costantemente, ma allo stesso tempo l’Fsb stesso è diventato sempre più corrotto e tendente alla degenerazione criminale.

Secondo informazioni reperibili su fonti aperte, ampi settori dell’Fsb e di altri servizi russi sono coinvolti in attività come: “protezione”-estorsione di imprese e banche, operazioni di corporate raiding (ossia l’uso di strumenti coercitivi per acquisire il controllo di imprese di interesse), riciclaggio di denaro, frodi e truffe finanziarie su vasta scala, cyber-crime a scopo di lucro e protezione di traffici internazionali di droga e armi.

Un rapporto del Dossier Center di Londra ha analizzato il coinvolgimento di vari dipartimenti-chiave del Fsb – tra cui il Dipartimento di sicurezza economica e il Dipartimento di sicurezza interna (preposto alla lotta anticorruzione all’interno dello stesso Fsb) – nelle già menzionate attività delittuose.

Un altro aspetto della degenerazione criminale dei servizi segreti russi è il coinvolgimento di compagnie militari private legate al Gru (l’intelligence militare), come il gruppo Wagner e i suoi successori, nel traffico internazionale di armi e nel commercio illecito di diamanti, oro e altre risorse critiche in Africa.

L’uso offensivo della cyber-criminalità russa rappresenta una componente fondamentale della strategia di guerra ibrida condotta dalla Russia di Putin in diverse regioni del mondo. Le principali agenzie di intelligence e sicurezza russe – Fsb, Gru e Svr (il servizio di intelligence esterna) – hanno stabilito stretti legami con il mondo della criminalità informatica russa e lo utilizzano per condurre operazioni di cyber-spionaggio, attacchi ransomware e attacchi informatici alle infrastrutture critiche nei confronti di Stati occidentali, dell’Ucraina e di altri Paesi del cosiddetto “estero vicino”.

Molti gruppi di cyber-criminali russi, che sono tra i più efficaci e agguerriti del mondo, sono stati reclutati dai servizi segreti. Per esempio, Sandworm, uno dei gruppi criminali più attivi e pericolosi nel cyberspazio, è strettamente legato al Gru.

Il gruppo ha condotto cyber-attacchi altamente distruttivi contro svariati Paesi, prendendo di mira infrastrutture critiche e causando miliardi di dollari di danni. Sandworm rappresenta una minaccia significativa per le popolazioni civili dei Paesi presi di mira.

I servizi d’intelligence di Mosca utilizzano, altresì, la criminalità organizzata tradizionale come proxy nelle operazioni di guerra ibrida. Mosca ha fatto ampio uso di organizzazioni mafiose locali per fomentare il separatismo violento in diversi Paesi dell’ex Unione Sovietica, creando il caos in Transnistria, Abkhazia, Ossezia del Sud, Crimea e Donbass.

Nel febbraio-marzo 2014, il Gru e l’Fsb si servirono delle mafie locali, oltre che degli spetsnaz (forze speciali), per compiere l’annessione della Crimea, e vari capi mafia divennero i leader politici del nuovo regime insediato da Mosca nella penisola. Nell’Ucraina orientale, i sodalizi mafiosi, controllati dai servizi russi, furono impiegati per sostenere insurrezioni armate antigovernative e per eseguire atti di destabilizzazione violenta, tra cui sabotaggi e attacchi terroristici.

leader del mondo criminale entrarono poi a far parte dei nuovi regimi: le autoproclamate “repubbliche popolari” di Donetsk e Luhansk, sostenute dalla Russia.

Negli ultimi anni, secondo le valutazioni di agenzie d’intelligence europee, la criminalità organizzata sarebbe diventata una componente importante delle operazioni ibride condotte dai servizi segreti di Mosca contro le democrazie occidentali. Tali operazioni includono la corruzione strategica di personalità politiche occidentali, l’incitamento a proteste e disordini, il sostegno a movimenti politici estremisti e l’assassinio di defezionisti e oppositori del regime putiniano.

Gli analisti occidentali dovrebbero, pertanto, dedicare maggiore attenzione alle sinergie tra servizi segreti russi e criminalità organizzata, e a come esse impattano sull’evoluzione interna del regime di Putin e sulle attività sovversive della Russia all’estero. L’utilizzo della criminalità organizzata e della delinquenza comune, oltre che del terrorismo, come strumenti di guerra ibrida dovrebbe essere maggiormente attenzionato dalle agenzie di intelligence e dalle forze di polizia dei Paesi europei, inclusa l’Italia.

In questo quadro di minacce non vanno trascurati possibili collegamenti tra crimine organizzato e terrorismo. Per esempio, indagini condotte dalla polizia italiana e dai carabinieri hanno scoperto sinergie tra Hezbollah e ’Ndrangheta calabrese nel traffico di sostanze stupefacenti e nel riciclaggio di denaro.

I governi europei dovrebbero, inoltre, promuovere una sempre maggiore collaborazione e condivisione delle informazioni tra le loro agenzie di intelligence e gli apparati info-investigativi delle forze di polizia nel monitoraggio e contrasto di organizzazioni criminali collegate con servizi di intelligence stranieri.

Il governo italiano, dal canto suo, dovrebbe promuovere una maggiore consapevolezza e comprensione, in tutte le istituzioni dello Stato, delle minacce ibride in generale, che includono molteplici azioni destabilizzanti promosse da potenze straniere: la disinformazione; l’incitamento all’estremismo politico, alla violenza, all’odio razziale e all’antisemitismo; l’utilizzo di flussi immigratori clandestini; il reclutamento di esponenti politici e giornalisti come agenti di influenza.

Il contrasto alle minacce ibride, infine, non dovrebbe essere assegnato esclusivamente al comparto intelligence (Aisi, Aise e Dis) ma dovrebbe coinvolgere l’intero sistema di sicurezza nazionale e ordine pubblico, con la creazione di centri specializzati presso la presidenza del Consiglio dei ministri, il ministero della Difesa, il ministero dell’Interno, il ministero dell’Economia e delle finanze e il ministero degli Affari esteri.

Per approfondire il tema delle collusioni fra servizi segreti russi e criminalità organizzata” vedi il video del webinar a titolo gratuito “The Chekist-Gangster Nexus: the Weaponization of Organized Crime by Russian Secret Services in Russia and Abroad” (in lingua inglese). Per un più completo aggiornamento sulle tecniche di intelligence per la sicurezza nazionale l’Istituto Germani promuove il corso di alta formazione Tecniche avanzate di Human Intelligence – Corso operativo per l’Intelligence istituzionale e privata”, che si terrà a novembre. Qui maggiori informazioni.

I 130 che hanno detto «signornò» perché «questa non è più guerra di difesa» (avvenire.it)

di Lucia Capuzzi

Israele

Con una lettera aperta, un gruppo di riservisti ha dichiarato il rifiuto a combattere fino a quando non ci sarà un accordo per liberare gli ostaggi. Rischiano fino a un anno di carcere

«Not in their name», «non nel loro nome». Michael Ofer Ziv sintetizza così il motivo che ha spinto lui e altri 129 soldati israeliani a dichiarare lo sciopero dal servizio fin quando il premier Benjamin Netanyahu non raggiungerà un accordo per il rilascio dei 101 ostaggi ancora prigionieri a Gaza.

«Non sono più disposto a uccidere o a morire per un governo che non rappresenta né me né gli interessi del Paese. È il mio punto di vista ma è anche il sentire comune di quanti hanno deciso di firmare la lettera aperta all’esecutivo e al ministero della Difesa», afferma il 29enne impiegato nel settore dell’high-tech che, tra ottobre e dicembre, per tre mesi, ha prestato servizio come riservista e ufficiale di fanteria nella Brigata Gerusalemme nel nord di Gaza. Prima di entrare nella Striscia, è stato per alcune settimane a Sde Teiman, la base diventata tragicamente nota per gli abusi sui detenuti palestinesi.

«Ma non mi trovavo nella parte “incriminata” del compound», precisa. Il documento, sottoscritto a settembre, è diventato pubblico questa settimana, suscitando scalpore nell’opinione pubblica nazionale. L’esercito – Tzahal, dall’acronimo – è uno dei pilastri di Israele: ragazzi e ragazze prestano servizio militare obbligatorio da uno a tre anni. A

l termine, inoltre, sono arruolabili come riservisti per i successivi vent’anni. Solo un’esigua minoranza rifiuta la chiamata, anzi molti si rendono disponibili anche dopo, come volontari. Contribuire alla difesa è un valore socialmente condiviso. Dopo il massacro di Hamas, le defezioni si sono praticamente azzerate.

Dan Eliav, all’epoca 63enne e, dunque, esentato, anzi ha fatto di tutto per tornare sul campo. Ci è riuscito entrando nella guardia di sicurezza della comunità in cui risiede, Zichron Yaakov, vicino ad Haifa. Per questo, si presenta all’appuntamento alle porte di Gerusalemme con il fucile d’ordinanza in spalla. «L’ho tenuto nonostante abbia lasciato. Ero nella mia fattoria al sud e là mi sento più sicuro con questa», dice, a mo’ di giustificazione, indicando la voluminosa arma.

All’indomani del 7 ottobre ho avvertito l’urgenza di combattere per la sopravvivenza di Israele. E l’ho fatto – racconta –. Ora, però, la minaccia è stata rimossa. Non si tratta più, dunque, della salvaguardia del Paese bensì della volontà del premier di prolungare a oltranza il conflitto per raggiungere i propri obiettivi. Cioè restare al potere il più a lungo e evitare i processi. Un’agenda che si combina perfettamente con quella della sua base sociale: i coloni e gli ultraortodossi ai quali la deflagrazione offre l’opportunità di realizzare il proprio sogno della “grande Israele” mediante la rioccupazione della Striscia e del sud del Libano.

Tzahal, come dice la parola stessa, è un esercito di difesa: deve garantire la sicurezza del Paese. E quest’ultima non si ottiene solo con la forza, bensì con la politica e il negoziato. Proprio quanto Netanyahu ostinatamente rifiuta».

«Lo abbiamo compreso di colpo a novembre quando, dopo il primo accordo con cui sono stati rilasciati 105 sequestrati, l’esecutivo ha deciso di riprendere i combattimenti», afferma uno dei 64 che hanno firmato la lettera con il proprio nome ma che ora chiede di restare anonimo per tenere un basso profilo. Allora, il ricercatore 26enne era arruolato nel Battaglione 923, in servizio a Beer Sheva.

«All’inizio pensavo di essere là per una causa concreta: salvare le vite dei civili nel sud. Poi, man mano che diventava palese la distruzione massiccia della Striscia, mi sono reso conto che le ragioni erano ben altre – racconta di fronte a un lunghissimo caffè americano –. Per questo, quando mi hanno offerto di entrare a Gaza, ho detto no».

Da tali riflessioni è scaturito, ad aprile, un primo documento che minacciava l’obiezione in seguito all’incursione dell’esercito a Rafah dove erano ammassati quasi due milioni di profughi. Micheal, Dan e il 26enne l’hanno sottoscritto, insieme a 39 colleghi. Cinque mesi dopo, quando è stato lanciato un nuovo documento, le adesioni sono triplicate.

«Le ragioni sono due: il protrarsi del conflitto e l’avere scelto di concentrarci sull’urgenza di riportare a casa gli ostaggi, su cui c’è ampio consenso nella società israeliana», sottolinea il ricercatore 26enne. «Il ritorno degli ostaggi tocca i fondamenti etici su cui si basa l’identità stessa Israele: la cura reciproca e la certezza di non lasciare indietro nessuno – ribadisce Dan –. Consentire che vengano meno, con l’abbandono dei rapiti, vuol dire mutare il Dna del Paese. Israele non sarebbe più ciò che è.

Salvare l’essenza della nazione è la vera battaglia che dobbiamo combattere». Il costo può essere salato. Chi rifiuta di tornare in servizio come riservista rischia fino a un anno di carcere.

Sia Michael sia il 26enne l’anno fatto: il primo a giugno, il secondo una settimana fa. Possono, dunque, essere processati in ogni momento. «Ne varrebbe la pena», dice Michael. «La reazione furibonda della ministra dei Trasporti, Miri Regev, la quale, sbattendo un pugno sul tavolo, ha minacciato di farci arrestare tutti e 130, indica che abbiamo toccato un punto cruciale», aggiunge Dan. L’esercito, da parte sua, minimizza.

Alla richiesta di un commento si è limitato a rispondere: «Ci risulta che solo cinque dei firmatari siano in servizio come riservisti. L’effetto reale non è, dunque, rilevante». «Rispetto alla lettera di aprile – conclude il 26enne –, stavolta stiamo ricevendo molti più messaggi da colleghi che, pur non avendo aderito, condividono la nostra posizione. La pressione internazionale è condizione necessaria ma non sufficiente per fermare la guerra. Occorre anche l’opposizione interna. Esiste. Si tratta solo di farla emergere. Ciascuno di noi deve fare la sua parte».