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Dall’Urss a Putin. L’asse Kgb-criminali spiegato da Germani e Jensen (formiche.net)

di Luigi Sergio Germani e Donald N. Jensen

James Bond

La criminalità organizzata è diventata una componente importante delle operazioni ibride condotte dai servizi segreti di Mosca contro le democrazie occidentali. Ecco come rispondere. L’analisi di Luigi Sergio Germani, direttore dell’Istituto Gino Germani, e Donald N. Jensen, adjunct fellow della Foundation for Defense of Democracies

Secondo funzionari di diversi servizi d’intelligence europei, dall’inizio dell’anno la Russia ha intensificato una campagna di attentati con esplosivi, incendi dolosi e sabotaggi alle infrastrutture in tutta Europa. I servizi russi si avvalgono di gruppi criminali e delinquenti comuni come proxy per compiere questi attacchi.

Lo scopo di questa campagna di guerra ibrida, che potrebbe diventare più violenta e destabilizzante nei prossimi mesi, è costringere i decisori politici europei a cessare di assistere militarmente e finanziariamente l’Ucraina. Si tratta di una “escalation orizzontale” operata da Mosca, che evita di attuare una “escalation verticale”, ossia nucleare, spesso minacciata dal Cremlino per esercitare pressione psicologica sui governanti e le opinioni pubbliche in Occidente.

Un recente rapporto del Royal United Services Institute sostiene che, dopo l’invasione su vasta scala dell’Ucraina, le agenzie di intelligence russe utilizzano sempre di più la criminalità organizzata per condurre operazioni di spionaggio e guerra ibrida in Europa.

Dopo l’invasione, l’espulsione in massa in tutta Europa di funzionari dell’intelligence russa ha sconvolto le strutture di supporto di cui essa si avvaleva per eseguire molte operazioni nel Vecchio Continente. Per ricostruire tali strutture di supporto (personale operativo, società di copertura, case sicure, automobili) i servizi russi stanno ricorrendo a organizzazioni criminali russo-eurasiatiche e di altri Paesi.

I servizi segreti di molti regimi autoritari – e soprattutto le agenzie d’intelligence delle principali potenze revisioniste anti-occidentali ossia Russia, Cina, Iran e Corea del Nord – utilizzano costantemente la criminalità organizzata come proxy, fornitori di supporto per attività spionistica, fonti di risorse finanziarie, e assassini a pagamento.

I servizi di intelligence degli Stati democratici occasionalmente si avvalgono della collaborazione di organizzazioni criminali per condurre attività di spionaggio o operazioni occulte di natura politica o militare. Per esempio, durante la Seconda guerra mondiale, l’intelligence statunitense affidò alla mafia siciliana i compiti di raccogliere informazioni e fornire supporto operativo all’invasione alleata della Sicilia.

Le agenzie di intelligence occidentali, tuttavia, tendono a evitare di instaurare rapporti di collaborazione sistematica con il mondo malavitoso, soprattutto a causa dei rischi operativi che tale collaborazione comporta.

La stretta collaborazione tra servizi segreti russi e sodalizi mafiosi non è un fenomeno nuovo: essa ha radici profonde nell’epoca sovietica. Nell’era di Vladimir Putin, l’intreccio tra agenzie di intelligence e mafie post-sovietiche è diventato ancora più stretto e marcato. Di conseguenza, è sempre più difficile distinguere tra la criminalità organizzata russo-eurasiatica, operazioni di intelligence russe e operazioni dello Stato russo.

L’alleanza tra Kgb e criminalità organizzata durante l’epoca sovietica e la sua successiva evoluzione nel periodo post-sovietico è un argomento trascurato dagli analisti occidentali, ma è cruciale per comprendere il regime di Putin e le sue possibili evoluzioni future.

Nel sistema sovietico, il Kgb, un onnipotente “Stato nello Stato”, penetrava il mondo criminale dell’Urss e lo utilizzava sistematicamente come strumento del regime comunista per: reprimere il dissenso politico e ideologico; monitorare e sfruttare l’”economia parallela” sovietica; fornire beni di lusso alla nomenklatura comunista (la casta dominante dell’Unione Sovietica); compromettere e ricattare stranieri che si recavano nell’Urss per reclutarli come fonti informative e agenti d’influenza al servizio del regime sovietico.

Va evidenziato, inoltre, che negli anni Ottanta diversi ricercatori occidentali sostenevano che il Kgb fosse profondamente coinvolto nel traffico internazionale di stupefacenti da regioni di produzione della droga (Afghanistan e America Latina) verso i centri di consumo negli Stati Uniti e nell’Europa occidentale, allo scopo di indebolire, demoralizzare e destabilizzare le società occidentali.

Secondo queste analisi (spesso ignorate o sottovalutate in Occidente), l’Unione Sovietica e i suoi alleati – tra cui Cuba, Bulgaria, Nicaragua e alcune organizzazioni terroristiche internazionali – utilizzavano il traffico internazionale di droga come uno dei tanti strumenti della loro strategia globale di “misure attive” contro l’Occidente.

Durante la perestrojka di Michail Gorbaciov, nella seconda metà degli anni Ottanta, il Kgb e la criminalità organizzata sovietica svilupparono crescenti sinergie tese a penetrare e ad acquisire posizioni dominanti nella nascente economia di mercato. Inoltre, a metà degli anni Ottanta, secondo autorevoli analisti e giornalisti investigativi, quando il sistema sovietico entrò in una fase di profonda crisi sistemica, i vertici del Partito comunista dell’Unione Sovietica (Pcus) incaricarono il Kgb di mettere a punto una strategia per trasferire gli enormi capitali del Pcus a società controllate dal Kgb nel settore privato sovietico e all’estero.

Lo scopo di questa operazione straordinaria era salvaguardare il potere economico e finanziario della nomenklatura comunista e dello stesso Kgb, anche nel caso dovesse crollare il regime.

Così, prima del collasso dell’Unione Sovietica nel dicembre 1991, ingenti risorse finanziarie furono sottratte illecitamente dal Kgb, a beneficio proprio e del Pcus, e riciclate all’estero, specialmente in Occidente, tramite appositi conti bancari e società di copertura.

Questa gigantesca operazione di riciclaggio di denaro – denominata “la saga dei miliardi del Kgb” dal compianto Fritz W. Ermarth, uno dei più brillanti analisti della Cia e profondo conoscitore della Russia – fu realizzata dal Kgb stesso in stretta collaborazione con la criminalità organizzata sovietica e altre organizzazioni criminali transnazionali.

All’inizio degli anni Novanta i servizi d’intelligence italiani segnalarono che anche l’Italia veniva utilizzata per riciclare e investire i capitali del Pcus. Secondo diverse fonti, nel 1992 Francesco Cossiga, allora presidente della Repubblica, chiese al magistrato antimafia Giovanni Falcone di avviare un’indagine congiunta con le autorità russe per scoprire dove fossero stati investiti in Italia i fondi del Pcus e se organizzazioni mafiose italiane fossero coinvolte nell’operazione. Falcone avrebbe iniziato a collaborare con il procuratore generale russo Valentin Stepankov in un’indagine comune sull’“Oro di Mosca”.

Tra la fine di maggio e gli inizi di giugno 1992 Falcone avrebbe dovuto recarsi a Mosca per proseguire l’indagine, ma il 23 maggio fu ucciso nella strage di Capaci, insieme a sua moglie Francesca e a tre agenti della sua scorta.

Dopo il fallimento del colpo di Stato dell’agosto 1991, il presidente russo Boris Eltsin decise di non attuare una riforma radicale del Kgb né di smantellarlo, come lo sollecitava a fare il movimento democratico russo. Eltsin, invece, puntò a indebolire la potentissima polizia segreta sovietica dividendola in diverse agenzie di sicurezza e intelligence, di cui stimolò una reciproca rivalità. Allo stesso tempo, chiese il supporto dei “nuovi” servizi segreti russi – gli eredi del “disciolto” Kgb – per rafforzare il proprio regime.

Anche se la polizia segreta sovietica fu formalmente sciolta da Eltsin, il “sistema Kgb” continuò a esistere, e la mancata riforma radicale di tale sistema creò i presupposti per la crescente penetrazione čekista nella politica e nell’economia della Russia post-comunista, e per la rinascita del potere della polizia segreta.

Putin era uno dei tanti esponenti del “sistema Kgb” che riuscirono a infiltrarsi efficacemente nella politica, negli apparati governativi e nel mondo degli affari della Russia degli anni Novanta. Secondo diversi studi approfonditi – come quelli di Karen DawishaCatherine Belton e del Free Russia Forum –Putin (che probabilmente si era già congedato dalla polizia segreta), che in quella fase rivestiva alti incarichi nel governo locale di San Pietroburgo, era strettamente collegato con esponenti di spicco dell’organizzazione criminale Tambovskaja-Malyševskaja, all’epoca il sodalizio mafioso più potente di San Pietroburgo.

Si consolidò allora a San Pietroburgo un’alleanza fra polizia segreta e criminalità organizzata tesa a dominare gran parte dell’economia della città a proprio vantaggio. Questo sistema di collaborazione tra čekisti e mondo criminale si espanse in tutta la Russia dopo che Putin salì al potere nel 2000.

Già nell’era Eltsin, esperti occidentali di controspionaggio avevano segnalato che i servizi segreti russi si avvalevano di organizzazioni mafiose russo-eurasiatiche per potenziare le loro operazioni spionistiche e di influenza/ingerenza contro Paesi dell’area euro-atlantica. Un rapporto analitico del Bnd (il Servizio di intelligence estera tedesco) del 1997 affermava che “le agenzie di intelligence russe e i sodalizi mafiosi hanno instaurato un rapporto simbiotico a beneficio di entrambi”.

Secondo quanto riferivano all’epoca gli analisti del Bnd e di altre agenzie di intelligence europee, importanti gruppi criminali russo-eurasiatici operanti in Europa svolgevano attività di ricerca informativa per conto dei servizi russi, fornivano risorse finanziarie per operazioni d’intelligence, e in vari Paesi europei esercitavano influenza economica e politica occulte per conto dello Stato russo.

In cambio, i servizi garantivano ai gruppi criminali protezione nei confronti di indagini delle forze di polizia russe e spesso facilitavano alcune loro attività delittuose, ad esempio consentendo l’uso di valigie diplomatiche per traffici illeciti (tra cui anche il trasporto di sostanze stupefacenti).

Nell’era Putin, i servizi segreti russi e il crimine organizzato (compresi i gruppi dediti al cyber-crime) sono diventati ancora più strettamente intrecciati. Il ruolo dell’Fsb (il servizio di sicurezza interna) nella protezione della sicurezza del regime di Putin, nel controllo della società e nella lotta alla corruzione politico-amministrativa si è ampliato costantemente, ma allo stesso tempo l’Fsb stesso è diventato sempre più corrotto e tendente alla degenerazione criminale.

Secondo informazioni reperibili su fonti aperte, ampi settori dell’Fsb e di altri servizi russi sono coinvolti in attività come: “protezione”-estorsione di imprese e banche, operazioni di corporate raiding (ossia l’uso di strumenti coercitivi per acquisire il controllo di imprese di interesse), riciclaggio di denaro, frodi e truffe finanziarie su vasta scala, cyber-crime a scopo di lucro e protezione di traffici internazionali di droga e armi.

Un rapporto del Dossier Center di Londra ha analizzato il coinvolgimento di vari dipartimenti-chiave del Fsb – tra cui il Dipartimento di sicurezza economica e il Dipartimento di sicurezza interna (preposto alla lotta anticorruzione all’interno dello stesso Fsb) – nelle già menzionate attività delittuose.

Un altro aspetto della degenerazione criminale dei servizi segreti russi è il coinvolgimento di compagnie militari private legate al Gru (l’intelligence militare), come il gruppo Wagner e i suoi successori, nel traffico internazionale di armi e nel commercio illecito di diamanti, oro e altre risorse critiche in Africa.

L’uso offensivo della cyber-criminalità russa rappresenta una componente fondamentale della strategia di guerra ibrida condotta dalla Russia di Putin in diverse regioni del mondo. Le principali agenzie di intelligence e sicurezza russe – Fsb, Gru e Svr (il servizio di intelligence esterna) – hanno stabilito stretti legami con il mondo della criminalità informatica russa e lo utilizzano per condurre operazioni di cyber-spionaggio, attacchi ransomware e attacchi informatici alle infrastrutture critiche nei confronti di Stati occidentali, dell’Ucraina e di altri Paesi del cosiddetto “estero vicino”.

Molti gruppi di cyber-criminali russi, che sono tra i più efficaci e agguerriti del mondo, sono stati reclutati dai servizi segreti. Per esempio, Sandworm, uno dei gruppi criminali più attivi e pericolosi nel cyberspazio, è strettamente legato al Gru.

Il gruppo ha condotto cyber-attacchi altamente distruttivi contro svariati Paesi, prendendo di mira infrastrutture critiche e causando miliardi di dollari di danni. Sandworm rappresenta una minaccia significativa per le popolazioni civili dei Paesi presi di mira.

I servizi d’intelligence di Mosca utilizzano, altresì, la criminalità organizzata tradizionale come proxy nelle operazioni di guerra ibrida. Mosca ha fatto ampio uso di organizzazioni mafiose locali per fomentare il separatismo violento in diversi Paesi dell’ex Unione Sovietica, creando il caos in Transnistria, Abkhazia, Ossezia del Sud, Crimea e Donbass.

Nel febbraio-marzo 2014, il Gru e l’Fsb si servirono delle mafie locali, oltre che degli spetsnaz (forze speciali), per compiere l’annessione della Crimea, e vari capi mafia divennero i leader politici del nuovo regime insediato da Mosca nella penisola. Nell’Ucraina orientale, i sodalizi mafiosi, controllati dai servizi russi, furono impiegati per sostenere insurrezioni armate antigovernative e per eseguire atti di destabilizzazione violenta, tra cui sabotaggi e attacchi terroristici.

leader del mondo criminale entrarono poi a far parte dei nuovi regimi: le autoproclamate “repubbliche popolari” di Donetsk e Luhansk, sostenute dalla Russia.

Negli ultimi anni, secondo le valutazioni di agenzie d’intelligence europee, la criminalità organizzata sarebbe diventata una componente importante delle operazioni ibride condotte dai servizi segreti di Mosca contro le democrazie occidentali. Tali operazioni includono la corruzione strategica di personalità politiche occidentali, l’incitamento a proteste e disordini, il sostegno a movimenti politici estremisti e l’assassinio di defezionisti e oppositori del regime putiniano.

Gli analisti occidentali dovrebbero, pertanto, dedicare maggiore attenzione alle sinergie tra servizi segreti russi e criminalità organizzata, e a come esse impattano sull’evoluzione interna del regime di Putin e sulle attività sovversive della Russia all’estero. L’utilizzo della criminalità organizzata e della delinquenza comune, oltre che del terrorismo, come strumenti di guerra ibrida dovrebbe essere maggiormente attenzionato dalle agenzie di intelligence e dalle forze di polizia dei Paesi europei, inclusa l’Italia.

In questo quadro di minacce non vanno trascurati possibili collegamenti tra crimine organizzato e terrorismo. Per esempio, indagini condotte dalla polizia italiana e dai carabinieri hanno scoperto sinergie tra Hezbollah e ’Ndrangheta calabrese nel traffico di sostanze stupefacenti e nel riciclaggio di denaro.

I governi europei dovrebbero, inoltre, promuovere una sempre maggiore collaborazione e condivisione delle informazioni tra le loro agenzie di intelligence e gli apparati info-investigativi delle forze di polizia nel monitoraggio e contrasto di organizzazioni criminali collegate con servizi di intelligence stranieri.

Il governo italiano, dal canto suo, dovrebbe promuovere una maggiore consapevolezza e comprensione, in tutte le istituzioni dello Stato, delle minacce ibride in generale, che includono molteplici azioni destabilizzanti promosse da potenze straniere: la disinformazione; l’incitamento all’estremismo politico, alla violenza, all’odio razziale e all’antisemitismo; l’utilizzo di flussi immigratori clandestini; il reclutamento di esponenti politici e giornalisti come agenti di influenza.

Il contrasto alle minacce ibride, infine, non dovrebbe essere assegnato esclusivamente al comparto intelligence (Aisi, Aise e Dis) ma dovrebbe coinvolgere l’intero sistema di sicurezza nazionale e ordine pubblico, con la creazione di centri specializzati presso la presidenza del Consiglio dei ministri, il ministero della Difesa, il ministero dell’Interno, il ministero dell’Economia e delle finanze e il ministero degli Affari esteri.

Per approfondire il tema delle collusioni fra servizi segreti russi e criminalità organizzata” vedi il video del webinar a titolo gratuito “The Chekist-Gangster Nexus: the Weaponization of Organized Crime by Russian Secret Services in Russia and Abroad” (in lingua inglese). Per un più completo aggiornamento sulle tecniche di intelligence per la sicurezza nazionale l’Istituto Germani promuove il corso di alta formazione Tecniche avanzate di Human Intelligence – Corso operativo per l’Intelligence istituzionale e privata”, che si terrà a novembre. Qui maggiori informazioni.

I 130 che hanno detto «signornò» perché «questa non è più guerra di difesa» (avvenire.it)

di Lucia Capuzzi

Israele

Con una lettera aperta, un gruppo di riservisti ha dichiarato il rifiuto a combattere fino a quando non ci sarà un accordo per liberare gli ostaggi. Rischiano fino a un anno di carcere

«Not in their name», «non nel loro nome». Michael Ofer Ziv sintetizza così il motivo che ha spinto lui e altri 129 soldati israeliani a dichiarare lo sciopero dal servizio fin quando il premier Benjamin Netanyahu non raggiungerà un accordo per il rilascio dei 101 ostaggi ancora prigionieri a Gaza.

«Non sono più disposto a uccidere o a morire per un governo che non rappresenta né me né gli interessi del Paese. È il mio punto di vista ma è anche il sentire comune di quanti hanno deciso di firmare la lettera aperta all’esecutivo e al ministero della Difesa», afferma il 29enne impiegato nel settore dell’high-tech che, tra ottobre e dicembre, per tre mesi, ha prestato servizio come riservista e ufficiale di fanteria nella Brigata Gerusalemme nel nord di Gaza. Prima di entrare nella Striscia, è stato per alcune settimane a Sde Teiman, la base diventata tragicamente nota per gli abusi sui detenuti palestinesi.

«Ma non mi trovavo nella parte “incriminata” del compound», precisa. Il documento, sottoscritto a settembre, è diventato pubblico questa settimana, suscitando scalpore nell’opinione pubblica nazionale. L’esercito – Tzahal, dall’acronimo – è uno dei pilastri di Israele: ragazzi e ragazze prestano servizio militare obbligatorio da uno a tre anni. A

l termine, inoltre, sono arruolabili come riservisti per i successivi vent’anni. Solo un’esigua minoranza rifiuta la chiamata, anzi molti si rendono disponibili anche dopo, come volontari. Contribuire alla difesa è un valore socialmente condiviso. Dopo il massacro di Hamas, le defezioni si sono praticamente azzerate.

Dan Eliav, all’epoca 63enne e, dunque, esentato, anzi ha fatto di tutto per tornare sul campo. Ci è riuscito entrando nella guardia di sicurezza della comunità in cui risiede, Zichron Yaakov, vicino ad Haifa. Per questo, si presenta all’appuntamento alle porte di Gerusalemme con il fucile d’ordinanza in spalla. «L’ho tenuto nonostante abbia lasciato. Ero nella mia fattoria al sud e là mi sento più sicuro con questa», dice, a mo’ di giustificazione, indicando la voluminosa arma.

All’indomani del 7 ottobre ho avvertito l’urgenza di combattere per la sopravvivenza di Israele. E l’ho fatto – racconta –. Ora, però, la minaccia è stata rimossa. Non si tratta più, dunque, della salvaguardia del Paese bensì della volontà del premier di prolungare a oltranza il conflitto per raggiungere i propri obiettivi. Cioè restare al potere il più a lungo e evitare i processi. Un’agenda che si combina perfettamente con quella della sua base sociale: i coloni e gli ultraortodossi ai quali la deflagrazione offre l’opportunità di realizzare il proprio sogno della “grande Israele” mediante la rioccupazione della Striscia e del sud del Libano.

Tzahal, come dice la parola stessa, è un esercito di difesa: deve garantire la sicurezza del Paese. E quest’ultima non si ottiene solo con la forza, bensì con la politica e il negoziato. Proprio quanto Netanyahu ostinatamente rifiuta».

«Lo abbiamo compreso di colpo a novembre quando, dopo il primo accordo con cui sono stati rilasciati 105 sequestrati, l’esecutivo ha deciso di riprendere i combattimenti», afferma uno dei 64 che hanno firmato la lettera con il proprio nome ma che ora chiede di restare anonimo per tenere un basso profilo. Allora, il ricercatore 26enne era arruolato nel Battaglione 923, in servizio a Beer Sheva.

«All’inizio pensavo di essere là per una causa concreta: salvare le vite dei civili nel sud. Poi, man mano che diventava palese la distruzione massiccia della Striscia, mi sono reso conto che le ragioni erano ben altre – racconta di fronte a un lunghissimo caffè americano –. Per questo, quando mi hanno offerto di entrare a Gaza, ho detto no».

Da tali riflessioni è scaturito, ad aprile, un primo documento che minacciava l’obiezione in seguito all’incursione dell’esercito a Rafah dove erano ammassati quasi due milioni di profughi. Micheal, Dan e il 26enne l’hanno sottoscritto, insieme a 39 colleghi. Cinque mesi dopo, quando è stato lanciato un nuovo documento, le adesioni sono triplicate.

«Le ragioni sono due: il protrarsi del conflitto e l’avere scelto di concentrarci sull’urgenza di riportare a casa gli ostaggi, su cui c’è ampio consenso nella società israeliana», sottolinea il ricercatore 26enne. «Il ritorno degli ostaggi tocca i fondamenti etici su cui si basa l’identità stessa Israele: la cura reciproca e la certezza di non lasciare indietro nessuno – ribadisce Dan –. Consentire che vengano meno, con l’abbandono dei rapiti, vuol dire mutare il Dna del Paese. Israele non sarebbe più ciò che è.

Salvare l’essenza della nazione è la vera battaglia che dobbiamo combattere». Il costo può essere salato. Chi rifiuta di tornare in servizio come riservista rischia fino a un anno di carcere.

Sia Michael sia il 26enne l’anno fatto: il primo a giugno, il secondo una settimana fa. Possono, dunque, essere processati in ogni momento. «Ne varrebbe la pena», dice Michael. «La reazione furibonda della ministra dei Trasporti, Miri Regev, la quale, sbattendo un pugno sul tavolo, ha minacciato di farci arrestare tutti e 130, indica che abbiamo toccato un punto cruciale», aggiunge Dan. L’esercito, da parte sua, minimizza.

Alla richiesta di un commento si è limitato a rispondere: «Ci risulta che solo cinque dei firmatari siano in servizio come riservisti. L’effetto reale non è, dunque, rilevante». «Rispetto alla lettera di aprile – conclude il 26enne –, stavolta stiamo ricevendo molti più messaggi da colleghi che, pur non avendo aderito, condividono la nostra posizione. La pressione internazionale è condizione necessaria ma non sufficiente per fermare la guerra. Occorre anche l’opposizione interna. Esiste. Si tratta solo di farla emergere. Ciascuno di noi deve fare la sua parte».

Con Pertini a Pechino, fra folle festanti e agguati per sabotarlo. Un aneddoto (finora) riservato (ilfoglio.it)

di Adriano Sofri

Piccola Posta

Il presidente partigiano scalda i cuori dei giovani cinesi, mentre una ressa di giornalisti cerca di provocarlo per metterlo in cattiva luce e puntare alle dimissioni. Un pericolo scampato per poco, attraverso un punto di vista inedito, raccontato da chi c’era

Caro Giuseppe De Rita, mi ha rallegrato la sua rivendicata appartenenza a un’oligarchia del bene pubblico nell’intervista a Fubini per il Corriere. Lei vi ha ricordato di essere stato molto amico di Antonio Maccanico, “uno degli oligarchi più riconosciuti”, che “come segretario generale, con la sua cucitura orizzontale, è stato determinante per il Quirinale di Pertini”.

Così le racconto un antico episodio che ho tenuto per me: lei saprà capirne più di quanto non ne capissi io allora. Cioè nel 1980, al tempo del viaggio ufficiale del presidente Pertini in Cina, il primo, il più lungo e delicato.

Avevo fatto amicizia con Sandro Pertini nel 1977, quando presiedeva la Camera, e gli chiesi di venire a commemorare Walter Rossi, un nostro compagno di vent’anni ucciso da fascisti a Roma mentre distribuiva un volantino. Pertini ringraziò dell’invito, chiese di rifletterci, all’indomani si disse dispiaciuto di non tenere l’orazione, però sarebbe venuto al funerale. Da allora avemmo un rapporto frequente e cordiale.

Dopo la sua elezione alla presidenza della Repubblica venni accolto nei viaggi presidenziali, gratis, da imbucato, in considerazione della povertà di Lotta Continua e grazie alla gentilezza del portavoce Bruno Agrò e del fotografo del Quirinale Marcello Picchi. Andai in Jugoslavia due volte, per la visita ufficiale e poi, nel maggio 1980, per il funerale di Tito.

Nel settembre fu la volta del viaggio in Cina. Pertini aveva 84 anni. Lo accompagnava Emilio Colombo, allora ministro degli Esteri. Nel seguito egregio di giornalisti spiccava per solitudine altera (con la compagnia di sua sorella Paola) Oriana Fallaci, che aveva appena messo a segno l’intervista celebre a Deng Xiaoping.

Fummo tutti introdotti graziosamente da Deng. L’incontro fra Pertini e Deng fu epico: “Un combattente saluta un altro combattente”, ”un compagno partigiano saluta un altro compagno partigiano”.

Avevo il privilegio di un rapporto molto confidenziale con Pertini, e di dargli del tu, come mi aveva intimato di fare dal primo incontro: in qualche rievocazione mi si deplora l’impertinenza (così il veterano Roberto Tumbarello: “Il solo a dargli del tu era Adriano Sofri. A me dava molto fastidio, sebbene fosse uno dei colleghi che apprezzavo maggiormente per intelligenza e acume nei suoi resoconti. Neppure deputati e ministri si permettevano tanta confidenza con l’anziano presidente”).

Maccanico aveva ragioni di preoccupazione per il viaggio: c’era il fresco precedente del licenziamento dell’ottimo Antonio Ghirelli, l’annullamento di un viaggio ufficiale in Thailandia per delle frasi imprudenti del presidente, e l’allarme generale per l’imprevedibilità delle sue mosse. E la convinzione di un’inopportunità cerimoniale della partecipazione della moglie di Pertini, Carla Voltolina (nel “Diario” Maccanico avrebbe annotato: “La novità della partecipazione di Carla Pertini al viaggio ha creato seri problemi”).

Come quando si avverte un ospite di stare attento a non urtare il prezioso vaso cinese, il guaio non tardò ad avvenire. Il 20 settembre, all’università di Pechino. Pertini interruppe bruscamente una sofisticata esibizione ginnica degli studenti: al diavolo la ginnastica, sono venuto a parlare coi ragazzi, come un nonno coi nipoti.

Panico nel protocollo, interdetto fra i ragazzi, e finalmente la paternale di Pertini accolta dagli applausi dei giovani e le felicitazioni del rettore. Buona parte degli inviati italiani si mostrò più scandalizzata degli impassibili cerimonieri cinesi, e mentre Pertini andava fiero della riconfermata popolarità e della trasgressione del regolamento, si diffuse un sentimento di imbarazzo o di vero fallimento.

Cui una parte della stampa si era mostrata per così dire predisposta, dal momento che fin dallo sbarco a Pechino Pertini fece un’intemerata al corrispondente del Corriere, Piero Ostellino. Ostellino aveva pubblicato sul settimanale del Pli, l’Opinione, un reportage preventivo singolarmente irriguardoso – si portava appresso una moglie bizzosa e indisposta ai rapporti diplomatici, decisa ad andare in giro da sola e a svegliarsi all’ora che preferiva… – che fece infuriare Pertini. “Mia moglie non si tocca!”.

Gli incidenti si moltiplicavano. Sulla Tienanmen Pertini, invano inseguito, lasciò di colpo il collega presidente Hua Guofeng per andare ad abbracciare e baciare la folla di bambini, donne e giovani radunati ad agitare bandierine e applaudire: Hua si mise ad applaudire anche lui.

Nella serata ultima all’ambasciata di Pechino, conclusi gli impegni con gli ospiti, i giornalisti si intrattennero con Pertini, e si adoperarono, allegramente o malevolmente, a provocarne la famosa e ingenua vanità, sul proprio anticonformismo e il successo coi giovani.

Maccanico mi prese in disparte e mi disse accoratamente che c’era una vera cospirazione per mettere in cattiva luce Pertini, fino a mirare alle dimissioni, che questo disegno faceva capo, oltre al Corriere, a Eugenio Scalfari, e che il suo esito avrebbe dovuto essere la successione di Bruno Visentini. Mi chiese di estrarre il presidente da quella ressa, persuaderlo che si era fatto tardi e che ci aspettava un giorno impegnativo, il viaggio a Xi’an, e con l’aiuto di Picchi accompagnarlo al suo alloggio.

Ciò che mi sbrigai a fare, con la scherzosa rassegnazione di Pertini. In effetti gli eventuali cospiratori avevano sottovalutato l’imperturbabile tranquillità degli ospiti cinesi, che subissarono di elogi i modi così affabili del vecchio partigiano italiano dal cuore giovane, che aveva scaldato i cuori dei giovani cinesi, e così via.

Maccanico fu sollevato dallo scampato pericolo, e mi fu grato oltremisura. Nel suo “Diario”, pubblicato dal Mulino con la prefazione di Scalfari, i giorni tormentati del viaggio sono taciuti. Al 1° ottobre si legge: “Il viaggio in Cina è terminato con un drammatico e precipitoso rientro da Hong Kong in seguito al voto a scrutinio segreto della Camera che ha bocciato il decretone economico e ha provocato la crisi di governo mezz’ora dopo aver votato la fiducia.

Si è concluso così un viaggio che è stato di estremo interesse politico: il presidente ha avuto un grande successo personale e ha aperto la strada a intese con la Cina che potrebbero essere fruttuosissime a medio e a lungo termine. /…/ Il viaggio ha puntualmente confermato le previsioni pessimistiche sulla presenza di Carla Pertini, che con le sue stramberie ha pesato negativamente sulla missione; ma nonostante ciò, il presidente ha avuto successo, anche se la sua immagine risulta un po’ più appannata (episodio dell’Università, di Ilario Fiore e di Ostellino). Mi pare, comunque, che, in seguito a ciò, abbia capito la necessità di una maggiore prudenza”.

Il 24 novembre Maccanico nota: “Scalfari continua a chiamare in causa il presidente, il quale questa mattina mi ha detto di cercarlo per esprimergli il suo disappunto”.

Io al ritorno non mi occupai più della cosa, ero disinteressato agli intrighi di palazzo, del resto fu pubblico in quel 1980 il progetto di Visentini – antifascista precoce, azionista, repubblicano, “oligarca orizzontale” di rango, anche lui – di istituzionalizzare un governo dei tecnici, sottratto al potere dei partiti. Ci fu poi un viaggio in Grecia (Maccanico: “…trionfale, come tutti i viaggi all’estero del presidente. Ormai Pertini è un grande illusionista: fa credere agli stranieri che esista un’Italia seria e affidabile”).

Il 20 dicembre ancora Maccanico: “Le cose politiche non vanno bene. Visentini ha fatto una proposta estemporanea (governo presidenziale) che ha irritato tutti”. In anni molto successivi i miei rapporti con Scalfari si fecero cordiali, ma non lo interpellai mai su quel 1980.

Nel 2011, al momento del governo Monti, Scalfari lo evocò come un antecedente illustre, benché mancato: “Il nostro giornale appoggiò pienamente la proposta di Visentini e aprì un ampio dibattito che naturalmente vide quasi tutti i partiti – compreso quello repubblicano – contrari a quel ritorno alla Costituzione auspicato da Visentini. /…/ Quello che desidero segnalare è che il governo Monti, voluto e seguito passo passo da Giorgio Napolitano, realizza a distanza di trent’anni l’idea-guida di Bruno Visentini che lo vedeva non come una situazione emergenziale ma come l’organizzazione ottimale dello stato di diritto e della democrazia parlamentare.

Dedico queste riflessioni a quanti continuano a piangere sulla sospensione anzi sulla confisca della democrazia effettuata dal governo dei tecnici”.
Probabilmente lei, De Rita, sa riconoscere i contorni effettivi della vicenda alla quale si riferisce il mio aneddoto.

Lo zar spalle al muro alza ancora la posta (lastampa.it)

di Anna Zafesova

«Nei più di due anni e mezzo di invasione russa dell’Ucraina, è diventata ormai evidente una correlazione ricorrente: Vladimir Putin torna a parlare di schiacciare il pulsante dell’attacco atomico soltanto quando le sue truppe sono in difficoltà.
Soltanto tre mesi fa, dopo aver permesso ai suoi consiglieri e propagandisti di alzare il grado delle minacce nucleari a un punto tale da renderle quasi ordinaria amministrazione, aveva deciso di tranquillizzare l’opinione pubblica russa e internazionale dicendo che il Cremlino «non sentiva il bisogno nemmeno di pensare» al ricorso al nucleare. In quel momento, l’offensiva russa nel Donbass stava avanzando, seppure lentamente e a costo di pesantissime perdite, e l’Ucraina sembrava condannata a subire un permanente martirio, per nulla addolcito dalla costante solidarietà internazionale.
Oggi, la situazione è molto diversa: gli ucraini hanno assestato diversi colpi molto dolorosi agli arsenali nella Russia profonda (grazie anche all’autorizzazione a colpire con le loro armi concessa da molti alleati occidentali), e lo sfondamento delle truppe di Kyiv nella regione di Kursk ha trasformato Putin agli occhi del mondo e dei propri elettori da un dittatore inarrestabile in un comandante supremo che da due mesi ha il nemico in casa.
E le minacce tonanti di un’apocalisse atomica non fanno che confermare la difficoltà di una guerra convenzionale che un Paese che si proponeva come seconda potenza mondiale non riesce a vincere da quasi tre anni.
La dichiarazione del leader russo sulla revisione della dottrina nucleare di Mosca, con un drastico abbassamento della soglia della minaccia che lo autorizzerebbe a un «contenimento atomico», arriva pochi giorni dopo che in Rete hanno iniziato a circolare i filmati del presunto test fallito del missile Sarmat, la superarma sulla quale Putin aveva scommesso nella sua escalation. Un test che avrebbe dovuto svolgersi proprio mentre Volodymyr Zelensky partiva per gli Usa, a presentare il suo «piano della vittoria».
È una partita a poker che Kyiv, assieme agli alleati occidentali, e Mosca conducono ormai da diversi mesi, calando ciascuno le proprie carte, cercando di ottenere il sostegno degli amici e di dissuadere con le minacce gli avversari.
Una partita che ha preso una accelerazione vertiginosa nelle ultime settimane, con l’apertura del fronte di Kursk e soprattutto con l’avvicinarsi delle elezioni americane, e quando Zelensky dice che la soluzione della guerra potrebbe essere «più vicina di quanto sembri», probabilmente allude anche a questo secondo fattore. Il tempo stringe per tutti.
L’Ucraina si prepara al quarto anno di guerra, con un inverno che promette di essere tragico – lo stesso presidente ucraino ha rivelato dalla tribuna dell’Onu che le bombe russe hanno devastato tutte le centrali termoelettriche del Paese – e un’economia che dipende dagli aiuti occidentali quasi quanto la sua indipendenza militare. Il regime putiniano sta affrontando una crisi di consensi – perfino dai sondaggi ufficiali si vede che i sostenitori di una soluzione negoziale superano di numero i fan della guerra – e fa sempre più fatica a mandare avanti un’economia ormai totalmente imperniata sul settore militare.
L’Occidente è consapevole dei rischi del putinismo per l’Europa, ma è angosciato anche dall’espandersi della crisi mediorientale, con Mosca sempre più vicina all’Iran. Anche perché, come nota il politologo kyviano Viktor Andrusiv, il problema dell’Occidente non è «immaginarsi i benefici di una vittoria dell’Ucraina, è quello di valutare i rischi di una sconfitta della Russia».
Questo è anche il motivo per il quale la diplomazia di Putin è in difensiva: escluso da buona parte dei consessi globali e limitato nei suoi viaggi dal mandato di cattura internazionale, promette l’atomica per impedire una «minaccia critica alla sovranità russa» (anche se restano da capire i criteri di questa minaccia, e soprattutto quanto al Cremlino distinguano tra la sovranità nazionale e la sopravvivenza del regime putiniano).
La diplomazia di Zelensky è invece proattiva, come si vede anche dalla sua intensa agenda americana, e dall’allarme che ha lanciato dalla tribuna delle Nazioni Unite sul rischio di un attacco russo a tre centrali nucleari ucraine.
Un messaggio rivolto non soltanto agli europei: è sempre più evidente come il vero campo di battaglia diplomatica sia altrove, e mentre Putin cerca di soffiare sui sentimenti antioccidentali del “Sud globale”, Kyiv cerca di sconfiggere lo scetticismo di capitali africane e sudamericane, e The Politico scrive che il vero negoziatore con Mosca potrebbe essere il premier indiano Narendra Modi, che ne avrebbe discusso con Zelensky durante la sua recente visita a Kyiv.
Un cambiamento delle geometrie globali di cui l’Occidente, nella sua valutazione dei rischi e dei benefici, della vittoria ucraina e della sconfitta russa, deve tenere conto: se una escalation nucleare spaventa Usa ed Europa come Cina e India, un collasso del regime russo – incubo degli occidentali già alle prese con altri conflitti che gli stanno scappando di mano – aprirebbe invece, oltre ai pericoli, anche numerose opportunità che a Sud e a Est potrebbero apparire molto allettanti».

“Utilizzano il museo per iniziative di partito”. Si dimette il comitato scientifico della Galleria Nazionale (artribune.com)

di Giulia Giaume

I professori Federica Muzzarelli, Augusto Roca e 
Stefania Zuliani si rifiutano di continuare a 
lavorare per l'istituzione romana. 

Che dopo mesi di proteste e le polemiche sulla mostra del Futurismo appare sempre più in ambasce

È stata la presentazione dell’ultimo libro di Italo Bocchino la miccia che, dopo mesi di tensioni, ha fatto scoppiare il caos alla Galleria d’arte moderna di Roma.

Dopo l’appello dei professionisti contro la rinuncia al Fondo Lonzi e le proteste dei lavoratori che chiedevano di annullare lo stesso incontro con Bocchino – segnalati dalla neodirettrice Renata Cristina Mazzantini al Ministero della Cultura – ora tre membri del Comitato Scientifico si sono dimessi per protestare contro l’uso della sede usata “per una manifestazione partitica.

La lettera di dimissioni dei membri del comitato scientifico

Federica Muzzarelli, Augusto Roca e Stefania Zuliani hanno dato le dimissioni “ alla luce della politica culturale recentemente adottata dalla Galleria Nazionale d’Arte Moderna, le cui linee non sono state definite attraverso un sereno confronto con il Comitato Scientifico, che, come previsto all’art.6 dello statuto, è chiamato a svolgere ‘funzione consultiva sulle questioni di carattere tecnico-scientifico nelle materie di competenza della Galleria’“. Da considerarsi questo il più ampio contesto che li ha spinti a questa decisione che, precisano, è stata “maturata anche in considerazione delle ultime vicende conseguenti alla presentazione del libro del direttore del “Secolo d’Italia” tenutasi lo scorso 3 ottobre in Galleria alla presenza del Presidente del Senato Ignazio La Russa“.

L’accusa di aver usato la Gnam “per una manifestazione di carattere politico”

Al che si arriva al dunque: “Una sede istituzionale, e quindi di tutti, è stata usata per una manifestazione di carattere eminentemente partitico senza un adeguato confronto preliminare“. La lettera, firmata mercoledì 9 ottobre 2024, conclude così: “Chi ha sempre lavorato per le istituzioni trova difficoltà ad inserirsi in questo nuovo contesto, preferendo fare un passo indietro rispetto all’attuale uso di una delle più prestigiose istituzioni museali italiane, a cui continueremo a guardare con rispetto ed attenzione come studiosi e come cittadini“, concludono Muzzarelli, professoressa ordinaria di Storia dell’Arte Contemporanea dell’Università degli Studi di Bologna; Roca, professore ordinario di Storia dell’Architettura dell’Università La Sapienza di Roma; e Zuliani, professoressa ordinaria di Storia della Critica d’Arte dell’Università degli Studi di Salerno.

Proteste e problemi alla Galleria Nazionale di Roma

Quest’ultimo scossone arriva dopo mesi di proteste da più parti per le nuove politiche museali, concretizzatasi nell’appello contro la cessione dell’Archivio Lonzi – neanche sei mesi fa, cui non è mai seguita una risposta -, nel caos imbarazzante attorno alla mostra sul Futurismo e appunto nella contestazione della presentazione del libro Perché l’Italia è di destra – Contro le bugie della sinistra di Italo Bocchino alla presenza dell’autore e del presidente del Senato.

A questa contestazione, aveva denunciato la Cgil, era seguita la segnalazione di nomi e cognomi delle persone che avevano espresso il proprio dissenso: “Lo statuto del Museo all’articolo 2 specifica che mostre, convegni, eventi, iniziative, attività didattiche e divulgative, anche se svolte in collaborazione con soggetti terzi, devono riguardare i settori di competenza del Museo stesso e tra questi non c’è la propaganda a sostegno di uno schieramento politico”, aveva fatto notare la Cgil, additando “il comportamento della direttrice che, anziché avviare un dialogo con i propri dipendenti e con le loro rappresentanze, ha ritenuto segnalare i nomi dei lavoratori ‘dissidenti’ ad autorità terze”.

Non resta, adesso, che aspettare di capire come la situazione si evolverà a margine dei nuovi eventi, ma tra lo scempio fatto nella Rai, l’inquietante vicenda di Sangiuliano e le sempre più singolari scelte e nomine (si attende quella del curatore del Padiglione Italia alla Biennale di Architettura, tra un tris rigorosamente over 60), il rapporto del governo col mondo della cultura a dir poco preoccupa…

La lettera di sostegno ai membri del comitato scientifico dimesso

Pubblichiamo, a seguito di un aggiornamento, la lettera integrale che artisti, curatori, critici, docenti e operatori del settore dell’arte contemporanea hanno sottoscritto in merito alla presentazione del libro di Italo Bocchino e conseguente segnalazione al MIC dei dipendenti dissidenti.

Oggetto: segnalazione dipendenti GNAM in occasione della presentazione del libro di Italo Bocchino intitolato: “Perché l’Italia è di destra – contro le bugie della sinistra”.

Esprimiamo il nostro sostegno ai dipendenti della GNAM individuati e segnalati al Ministero della Cultura dall’attuale Direttrice del Museo, in risposta alla lettera di protesta da loro redatta contro l’uso improprio di un’istituzione pubblica a fini politici e propagandistici. Sottolineiamo la nostra indignazione per l’uso di un museo pubblico di tale livello per scopi che non attengono in alcun modo al campo di competenza della Galleria Nazionale d’Arte Moderna di Roma, da sempre dedicata alla conservazione, valorizzazione e divulgazione dell’arte. Oltre a ciò la situazione si è ulteriormente aggravata con l’improvvida segnalazione dei dipendenti che a pieno titolo e nel rispetto della legge, hanno dimostrato il loro dissenso criticando nel merito le scelte dell’attuale Direzione della GNAM. Segnalazione che fa emergere un clima arrogante e repressivo dell’espressione del libero pensiero.

Ci auguriamo che in futuro il prestigio della GNAM non sia più avvilito da scelte e comportamenti che ne danneggiano l’immagine, mantenendo un profilo degno di questa istituzione, da sempre espressione di alto livello culturale.

Distinti saluti,

Seguono firme

Conte le prova tutte per tornare a Palazzo Chigi, ma è senza speranze (linkiesta.it)

di

Povero Giuseppi

L’avvocato vuole tentare l’impresa impossibile di tornare a governare: il suo elettorato è sempre più piccolo e Schlein è l’unico volto possibile del centrosinistra.

C’è anche l’ipotesi di buttarsi a destra, ma quella è terra di Meloni. Per lui non c’è spazio da nessuna parte, ed è un bene per l’Italia

Povero Giuseppi! Se la sua unica ambizione in questa fase della vita è tornare a Palazzo Chigi, be’, non deve leggere questo articolo. Perché come la metti la metti, per lui si tratta di un obiettivo irraggiungibile. Per il centrosinistra, nella sfida a Giorgia Meloni, correrà Elly Schlein: per la buona ragione che il Partito democratico è il partito più forte – e nel partito non c’è chi voglia o possa farle le scarpe – e ragionevolmente questo è un dato che non è destinato a cambiare.

L’avvocato oggi è sul dieci per cento, con forti probabilità di scendere se, come appare probabile, Beppe Grillo gli tirerà lo scherzetto di fare un altro partito più in linea con il Movimento prima maniera, fregandogli un due-tre per cento, chi può dirlo adesso.

Così che il partito di Conte sarà ridotto alle dimensioni di un bel cespuglio (lui aborre questa parola, ma è così) più o meno delle dimensioni di Alleanza Verdi e Sinistra (Avs), con cui ipotizza un accordo politico e chissà se anche elettorale: ma, anche sommati, i rossoverdigialli – mamma mia – difficilmente potrebbero arrivare anche solo alla metà dei voti di Schlein.

Tutto questo Conte lo sa benissimo, e infatti ha avuto un’altra bella pensata: le primarie del “campo largo” per scegliere il candidato premier. Ma anche in questo caso avrebbe la sorte segnata: perderebbe. Perché stante la sproporzione di forza tra i dem e la sinistra populista Fratoianni-Conte non si vede come concretamente l’avvocato potrebbe battere la leader di un partito come il Partito democratico, che con tutti gli acciacchi, malgrado abbia solo diciassette anni, resta pur sempre una macchinetta di guerra.

Né può seriamente pensare, Conte, che «la gente non vede l’ora di rivedermi a Palazzo Chigi» – frase che gli è stata attribuita – anche considerando il tasso di autostima che confina con la megalomania.

Lui punta a un indebolimento della segretaria dem a partire dalle elezioni in quella Liguria dove ha montato un casino enorme ai danni di Matteo Renzi, una mossa che ha creato problemi nel disorientato elettorato del centrosinistra, e quindi una sconfitta di Andrea Orlando sarebbe anche addebitabile alle sue bizze antirenziane.

Perché alla fine c’è sempre il leader di Italia Viva nei suoi incubi: ora si è fissato su un patto segreto tra Elly e Renzi ai suoi danni. Forse sono i contiani del Partito democratico, che poi è solo Goffredo Bettini, a insufflargli queste sciocchezze, ma vero è che in eventuali primarie Renzi – e probabilmente Riccardo Magi e Carlo Calenda (anche se non è affatto detto che Azione vi parteciperebbe) – voterebbero per Schlein.

C’è infine una terza possibilità che, data l’attitudine trasformista dell’uomo, Giuseppe Conte possa trasferirsi armi e bagagli nell’altro campo, a destra (con la quale flirta spesso e volentieri, vedi Rai) magari sfruttando il vento reazionario alzato da una vittoria dell’amico Donald Trump. Ma è quasi superfluo ricordare che la destra la sua campionessa ce l’ha, e forte, si chiama Giorgia Meloni.

Che cosa resta? Un governo di larghe intese che lui, ex premier, potrebbe guidare? È un’ipotesi dell’irrealtà. Sia perché l’unità nazionale non la vuole nessuno; sia soprattutto perché un governo di quel tipo sarebbe per forza presieduto da una figura alta.

Che non è esattamente la sua.