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“Utilizzano il museo per iniziative di partito”. Si dimette il comitato scientifico della Galleria Nazionale (artribune.com)

di Giulia Giaume

I professori Federica Muzzarelli, Augusto Roca e 
Stefania Zuliani si rifiutano di continuare a 
lavorare per l'istituzione romana. 

Che dopo mesi di proteste e le polemiche sulla mostra del Futurismo appare sempre più in ambasce

È stata la presentazione dell’ultimo libro di Italo Bocchino la miccia che, dopo mesi di tensioni, ha fatto scoppiare il caos alla Galleria d’arte moderna di Roma.

Dopo l’appello dei professionisti contro la rinuncia al Fondo Lonzi e le proteste dei lavoratori che chiedevano di annullare lo stesso incontro con Bocchino – segnalati dalla neodirettrice Renata Cristina Mazzantini al Ministero della Cultura – ora tre membri del Comitato Scientifico si sono dimessi per protestare contro l’uso della sede usata “per una manifestazione partitica.

La lettera di dimissioni dei membri del comitato scientifico

Federica Muzzarelli, Augusto Roca e Stefania Zuliani hanno dato le dimissioni “ alla luce della politica culturale recentemente adottata dalla Galleria Nazionale d’Arte Moderna, le cui linee non sono state definite attraverso un sereno confronto con il Comitato Scientifico, che, come previsto all’art.6 dello statuto, è chiamato a svolgere ‘funzione consultiva sulle questioni di carattere tecnico-scientifico nelle materie di competenza della Galleria’“. Da considerarsi questo il più ampio contesto che li ha spinti a questa decisione che, precisano, è stata “maturata anche in considerazione delle ultime vicende conseguenti alla presentazione del libro del direttore del “Secolo d’Italia” tenutasi lo scorso 3 ottobre in Galleria alla presenza del Presidente del Senato Ignazio La Russa“.

L’accusa di aver usato la Gnam “per una manifestazione di carattere politico”

Al che si arriva al dunque: “Una sede istituzionale, e quindi di tutti, è stata usata per una manifestazione di carattere eminentemente partitico senza un adeguato confronto preliminare“. La lettera, firmata mercoledì 9 ottobre 2024, conclude così: “Chi ha sempre lavorato per le istituzioni trova difficoltà ad inserirsi in questo nuovo contesto, preferendo fare un passo indietro rispetto all’attuale uso di una delle più prestigiose istituzioni museali italiane, a cui continueremo a guardare con rispetto ed attenzione come studiosi e come cittadini“, concludono Muzzarelli, professoressa ordinaria di Storia dell’Arte Contemporanea dell’Università degli Studi di Bologna; Roca, professore ordinario di Storia dell’Architettura dell’Università La Sapienza di Roma; e Zuliani, professoressa ordinaria di Storia della Critica d’Arte dell’Università degli Studi di Salerno.

Proteste e problemi alla Galleria Nazionale di Roma

Quest’ultimo scossone arriva dopo mesi di proteste da più parti per le nuove politiche museali, concretizzatasi nell’appello contro la cessione dell’Archivio Lonzi – neanche sei mesi fa, cui non è mai seguita una risposta -, nel caos imbarazzante attorno alla mostra sul Futurismo e appunto nella contestazione della presentazione del libro Perché l’Italia è di destra – Contro le bugie della sinistra di Italo Bocchino alla presenza dell’autore e del presidente del Senato.

A questa contestazione, aveva denunciato la Cgil, era seguita la segnalazione di nomi e cognomi delle persone che avevano espresso il proprio dissenso: “Lo statuto del Museo all’articolo 2 specifica che mostre, convegni, eventi, iniziative, attività didattiche e divulgative, anche se svolte in collaborazione con soggetti terzi, devono riguardare i settori di competenza del Museo stesso e tra questi non c’è la propaganda a sostegno di uno schieramento politico”, aveva fatto notare la Cgil, additando “il comportamento della direttrice che, anziché avviare un dialogo con i propri dipendenti e con le loro rappresentanze, ha ritenuto segnalare i nomi dei lavoratori ‘dissidenti’ ad autorità terze”.

Non resta, adesso, che aspettare di capire come la situazione si evolverà a margine dei nuovi eventi, ma tra lo scempio fatto nella Rai, l’inquietante vicenda di Sangiuliano e le sempre più singolari scelte e nomine (si attende quella del curatore del Padiglione Italia alla Biennale di Architettura, tra un tris rigorosamente over 60), il rapporto del governo col mondo della cultura a dir poco preoccupa…

La lettera di sostegno ai membri del comitato scientifico dimesso

Pubblichiamo, a seguito di un aggiornamento, la lettera integrale che artisti, curatori, critici, docenti e operatori del settore dell’arte contemporanea hanno sottoscritto in merito alla presentazione del libro di Italo Bocchino e conseguente segnalazione al MIC dei dipendenti dissidenti.

Oggetto: segnalazione dipendenti GNAM in occasione della presentazione del libro di Italo Bocchino intitolato: “Perché l’Italia è di destra – contro le bugie della sinistra”.

Esprimiamo il nostro sostegno ai dipendenti della GNAM individuati e segnalati al Ministero della Cultura dall’attuale Direttrice del Museo, in risposta alla lettera di protesta da loro redatta contro l’uso improprio di un’istituzione pubblica a fini politici e propagandistici. Sottolineiamo la nostra indignazione per l’uso di un museo pubblico di tale livello per scopi che non attengono in alcun modo al campo di competenza della Galleria Nazionale d’Arte Moderna di Roma, da sempre dedicata alla conservazione, valorizzazione e divulgazione dell’arte. Oltre a ciò la situazione si è ulteriormente aggravata con l’improvvida segnalazione dei dipendenti che a pieno titolo e nel rispetto della legge, hanno dimostrato il loro dissenso criticando nel merito le scelte dell’attuale Direzione della GNAM. Segnalazione che fa emergere un clima arrogante e repressivo dell’espressione del libero pensiero.

Ci auguriamo che in futuro il prestigio della GNAM non sia più avvilito da scelte e comportamenti che ne danneggiano l’immagine, mantenendo un profilo degno di questa istituzione, da sempre espressione di alto livello culturale.

Distinti saluti,

Seguono firme

Conte le prova tutte per tornare a Palazzo Chigi, ma è senza speranze (linkiesta.it)

di

Povero Giuseppi

L’avvocato vuole tentare l’impresa impossibile di tornare a governare: il suo elettorato è sempre più piccolo e Schlein è l’unico volto possibile del centrosinistra.

C’è anche l’ipotesi di buttarsi a destra, ma quella è terra di Meloni. Per lui non c’è spazio da nessuna parte, ed è un bene per l’Italia

Povero Giuseppi! Se la sua unica ambizione in questa fase della vita è tornare a Palazzo Chigi, be’, non deve leggere questo articolo. Perché come la metti la metti, per lui si tratta di un obiettivo irraggiungibile. Per il centrosinistra, nella sfida a Giorgia Meloni, correrà Elly Schlein: per la buona ragione che il Partito democratico è il partito più forte – e nel partito non c’è chi voglia o possa farle le scarpe – e ragionevolmente questo è un dato che non è destinato a cambiare.

L’avvocato oggi è sul dieci per cento, con forti probabilità di scendere se, come appare probabile, Beppe Grillo gli tirerà lo scherzetto di fare un altro partito più in linea con il Movimento prima maniera, fregandogli un due-tre per cento, chi può dirlo adesso.

Così che il partito di Conte sarà ridotto alle dimensioni di un bel cespuglio (lui aborre questa parola, ma è così) più o meno delle dimensioni di Alleanza Verdi e Sinistra (Avs), con cui ipotizza un accordo politico e chissà se anche elettorale: ma, anche sommati, i rossoverdigialli – mamma mia – difficilmente potrebbero arrivare anche solo alla metà dei voti di Schlein.

Tutto questo Conte lo sa benissimo, e infatti ha avuto un’altra bella pensata: le primarie del “campo largo” per scegliere il candidato premier. Ma anche in questo caso avrebbe la sorte segnata: perderebbe. Perché stante la sproporzione di forza tra i dem e la sinistra populista Fratoianni-Conte non si vede come concretamente l’avvocato potrebbe battere la leader di un partito come il Partito democratico, che con tutti gli acciacchi, malgrado abbia solo diciassette anni, resta pur sempre una macchinetta di guerra.

Né può seriamente pensare, Conte, che «la gente non vede l’ora di rivedermi a Palazzo Chigi» – frase che gli è stata attribuita – anche considerando il tasso di autostima che confina con la megalomania.

Lui punta a un indebolimento della segretaria dem a partire dalle elezioni in quella Liguria dove ha montato un casino enorme ai danni di Matteo Renzi, una mossa che ha creato problemi nel disorientato elettorato del centrosinistra, e quindi una sconfitta di Andrea Orlando sarebbe anche addebitabile alle sue bizze antirenziane.

Perché alla fine c’è sempre il leader di Italia Viva nei suoi incubi: ora si è fissato su un patto segreto tra Elly e Renzi ai suoi danni. Forse sono i contiani del Partito democratico, che poi è solo Goffredo Bettini, a insufflargli queste sciocchezze, ma vero è che in eventuali primarie Renzi – e probabilmente Riccardo Magi e Carlo Calenda (anche se non è affatto detto che Azione vi parteciperebbe) – voterebbero per Schlein.

C’è infine una terza possibilità che, data l’attitudine trasformista dell’uomo, Giuseppe Conte possa trasferirsi armi e bagagli nell’altro campo, a destra (con la quale flirta spesso e volentieri, vedi Rai) magari sfruttando il vento reazionario alzato da una vittoria dell’amico Donald Trump. Ma è quasi superfluo ricordare che la destra la sua campionessa ce l’ha, e forte, si chiama Giorgia Meloni.

Che cosa resta? Un governo di larghe intese che lui, ex premier, potrebbe guidare? È un’ipotesi dell’irrealtà. Sia perché l’unità nazionale non la vuole nessuno; sia soprattutto perché un governo di quel tipo sarebbe per forza presieduto da una figura alta.

Che non è esattamente la sua.

Scarpinato accusa Colosimo: ma è vittima di un complotto o di se stesso? (ildubbio.news)

di Damiano Aliprandi

Difendendosi per le conversazioni intercettate 
con l’ex collega Natoli, attacca l’Antimafia per 
non aver seguito le sue indicazioni. 

Ma la commissione non può riciclare vecchi teoremi fallimentari

Non c’è nulla di male nell’aver parlato con il suo ex collega Gioacchino Natoli in vista dell’audizione in commissione Antimafia, e soprattutto afferma di non aver concordato nulla.

Si ritiene vittima di un complotto per farlo estromettere da commissario, perché dà fastidio. E ancora, si lamenta che la presidente Chiara Colosimo non abbia accolto le sue indicazioni scritte nella memoria, sottoscritta da tutti i commissari grillini, non dando valore al metodo di indagine di Giovanni Falcone.

Questo in sostanza è il contenuto dell’intervista rilasciata – come da prassi – al Fatto Quotidiano dell’ex capo procuratore e ora senatore grillino Roberto Scarpinato, che ha dalla sua parte anche l’intero Pd pronto a difenderlo a prescindere, tanto da aver scritto un comunicato in sua difesa addirittura anticipando quello del Movimento Cinque Stelle. Un caso unico nel panorama politico italiano.

La vicenda è nota. Gioacchino Natoli, indagato dalla procura di Caltanissetta, era sotto intercettazione. Come riporta La Verità, e non smentito su questo punto, ha svolto circa 30 telefonate con l’ex collega Scarpinato. Altro punto non smentito è che i dialoghi vertevano sul discorso della questione mafia-appalti e più nello specifico sul filone proveniente da Massa Carrara, finito per essere archiviato con tanto di richiesta della distruzione dei brogliacci e smagnetizzazione delle bobine.

Il caso vuole che l’avvocato Fabio Trizzino, legale dei figli di Borsellino, ben prima che giungesse l’avviso di garanzia a Natoli, abbia messo in rilievo proprio il problema della nota del procuratore di Massa Carrara Augusto Lama sulle indagini svolte dall’ex maresciallo Franco Angeloni sui fratelli Buscemi, Cimino e Francesco Bonura relativo ai loro affari con la Ferruzzi Gardini. Elemento che sarebbe stato un’ottima integrazione con il dossier mafia-appalti, redatto dagli ex Ros sotto la supervisione di Giovanni Falcone.

È scoppiato il putiferio. Natoli ha rilasciato l’intervista al Fatto Quotidiano, Verini del Pd, prontamente, ha chiesto alla commissione Antimafia di sentirlo visto che, a detta sua, avrebbe smontato la ricostruzione dell’avvocato Trizzino. In quel frangente, Scarpinato ha dialogato con Natoli sul punto. Se effettivamente il senatore grillino si è limitato ad esortare Natoli a riferire, con rigore, all’Antimafia la vicenda per fare chiarezza, non c’è assolutamente nulla di male.

Se alla battuta di Natoli “Tu lancia la palla e io schiaccio”, Scarpinato – da uomo delle istituzioni – si è indignato visto che è poco edificante scambiare l’Antimafia per un campo di pallavolo, dove giocano per segnare punti, questo gli renderà onore. Al contrario, la questione ha una enorme rilevanza politica.

Ma non possiamo dubitare delle parole di Scarpinato e sicuramente sarà lui stesso a pretendere che siano rese pubbliche tutte le sue intercettazioni, non avvalendosi delle doverose prerogative da parlamentare. “Non ho nulla da nascondere”, ha replicato. Nel caso emergesse quello che dichiara, sarà giusto che pretenda delle scuse.

Ma il problema non sono solo le intercettazioni. Già dalle audizioni dell’avvocato Trizzino e Lucia Borsellino, si è verificato uno scontro. Inevitabilmente, durante la ricostruzione fiume è emerso più volte il nome di Scarpinato, tanto è vero che c’è stato un battibecco tra lui e l’avvocato, al punto che la presidente Colosimo ha dovuto richiamarli.

Quando poi Scarpinato stesso è intervenuto per porre la domanda al legale dei Borsellino, ha premesso: “Io non farò alcuna domanda sulle parti delle dichiarazioni dell’avvocato Fabio Trizzino che riguardano la mia persona”. Lo ha fatto, disse, per eleganza istituzionale. Sacrosanto.

Ma poi ha proseguito con mezz’ora di domande, scambiandole forse per una requisitoria, sul procedimento mafia-appalti che, appunto, riguardava anche lui. Inevitabilmente, qualche commissario della maggioranza ha posto una questione di “conflitto di interesse”.

Mai si è verificata una situazione del genere e nel regolamento non c’è alcun articolo che regoli la questione. La presidente Colosimo ha rimesso la questione a Scarpinato stesso. Il quale non solo ha deciso di rimanere, ma si professa vittima.

Non finisce qui. Il senatore pentastellato lamenta di essere oggetto di una campagna per estrometterlo dall’Antimafia, motivata, a suo dire, dalla volontà di impedire l’emersione della verità. Ma quale verità? Scarpinato insiste affinché la presidente Colosimo prenda in considerazione le sue tesi, ritenute fondamentali per approfondire le stragi del ’92 e del ’93.

Tuttavia, la situazione è paradossale: un magistrato che ha dedicato decenni alla ricerca di “entità”, senza risultati concreti, pretende ora che la commissione riprenda le sue indagini che non hanno avuto alcuno sbocco.

Il rischio di un uso privatistico di un organismo politico è all’orizzonte. Per ora, scongiurato. Sarebbe singolare che la commissione diventi l’ultimo appello per inchieste giudiziarie fallimentari, soprattutto quando si tratta di riaprire una riedizione di “Sistemi criminali”, che lo stesso Scarpinato aveva chiesto di archiviare per totale mancanza di prove.

Come già evidenziato da Il Dubbio, lo stesso Scarpinato, in un’intervista televisiva della Rai, ha sostenuto l’esistenza di un documento che, a suo dire, proverebbe la presenza di Stefano Delle Chiaie a Capaci. Anzi, ha affermato che se lo avesse avuto, ai tempi non avrebbe archiviato “Sistemi criminali”. Tale affermazione, tuttavia, si scontra con la realtà: il documento in questione è inutilizzabile, essendo un doppio “de relato” privo di qualsiasi valore probatorio.

Analogamente, la richiesta alla Colosimo di riaprire piste investigative ormai come la “pista nera”Gladio, P2, e fare tutto un minestrone, appare del tutto infondata. Queste teorie, vagliate innumerevoli volte nel corso degli anni, non hanno mai trovato alcun riscontro concreto. Riproporre, giusto per fare un esempio, le dichiarazioni di un Roberto Volo, senza specificare che Falcone stesso le ha vagliate e cestinate, è davvero singolare.

Va inoltre ricordato che la questione delle “donne bionde” (rientra nel romanzo fantagiudiziario) era già stata al centro della commissione precedente presieduta da Nicola Morra, con la consulenza di Gianfranco Donadio. Quest’ultimo è lo stesso che da magistrato non solo non ha prodotto risultati significativi sul punto, ma è stato anche oggetto di denunce disciplinari da parte di ben due procure.

Se la presidente Colosimo avesse seguito le indicazioni di Scarpinato, si sarebbe perso tempo prezioso e oggi non sapremmo quali carte avesse in ufficio Borsellino e quali indagini stesse effettivamente svolgendo. Grazie alla desecretazione operata dalla presidente, sappiamo con certezza che stava conducendo indagini a 360 gradi sugli appalti, analizzando tutti i fascicoli fino al giorno precedente l’attentato. E ancora c’è tanto da rendere pubblico, ad esempio gli appunti scritti da Borsellino stesso, la missiva con tanto di tabulato che il giudice ha ricevuto dal mistero della giustizia appena dopo la strage di Capaci e tanto altro ancora.

Interessa a qualcuno? Il metodo Falcone, evocato da Scarpinato, non è partire dai massimi sistemi, ma consiste nell’approfondire i fatti criminosi concreti e ottenere una visione d’insieme. Ma soprattutto, Falcone era pragmatico e stigmatizzava la visione complottista da quattro soldi.

Scarpinato, nel suo intervento su Il Fatto, cita Leonardo Sciascia, ma questa evocazione non è calzante. Appare fuori luogo citare lo scrittore di Racalmuto, il quale ha dedicato, attraverso le sue opere, a denunciare l’amministrazione della giustizia, sottolineando come l’Inquisizione rappresenti un modello di conformismo, sopraffazione e cinismo ancora presente nei sistemi giudiziari.

Sciascia, ne “Il Contesto”, descrive la figura del giudice Riches, dall’aria sacerdotale, come esempio di magistrato che, credendosi investito di una sapienza superiore e depositario di una verità assoluta, sottrae i propri giudizi a qualsiasi verifica razionale.

Dopo 30 anni, forse è ora di dire basta.

Reddito di bossanza (corriere.it)

di Massimo Gramellini

Il caffè

Dal figlio del fondatore della Lega uno può legittimamente aspettarsi di tutto, anche che scriva «Dagli Appennini alle Langhe» o che proponga un referendum abrogativo della pizza napoletana.

Di tutto, ma non che abbia percepito per quarantatré mesi il famigerato reddito di cittadinanza.

Peggio, che sia stato rinviato a giudizio con l’accusa di averlo intascato indebitamente. Confidiamo che Riccardo Bossi riesca a dimostrare la sua innocenza. E ce lo auguriamo ancor più per suo padre che per lui. Nella favolistica padana, di cui l’Umberto è stato un cantastorie inesauribile, il reddito di cittadinanza si colloca tra la bacchetta magica di lord Voldemort e la mela avvelenata della strega di Biancaneve.

Il simbolo ultimo dello Stato assistenziale, di Roma ladrona, del Sud parassita del Nord. Non c’è pregiudizio o luogo comune che non sia stato tirato in ballo per ironizzare su un sussidio di sopravvivenza che, magari con altri nomi, è presente in tutte le principali democrazie occidentali.

Lo so: certe norme, che risultano efficaci per gli svedesi o gli austriaci, funzionano un po’ meno bene nell’interpretazione creativa degli italiani.

Almeno di quelli che, quando il reddito era in vigore, lo usavano per arrotondare un lavoro in nero. Ma se — Dio Po non voglia — il processo a Riccardo Bossi dovesse concludersi con una condanna, risulterebbe evidente che tra i due popoli confinanti, padani e italiani, esistono notevoli affinità.