Il siero e gli sportivi che cascano come mosche (butac.it)

di 

Un lettore ci ha inviato una segnalazione su un video che circola su alcuni social network.

Nel video si vedono diversi casi di sportivi che crollano a terra all’improvviso durante partite di calcio, basket, tennis; i casi sono numerosi. Il nostro lettore ci scrive:

“Buongiorno. Un novax di mia conoscenza ha condiviso questo video. Siete in grado di ricostruire a quali eventi e a quale periodo si riferiscono? Giusto per provare a smentire quanto affermato da certi individui.”

Onestamente, la prima cosa che ci siamo domandati è stata: ha senso cercare singolo caso per singolo caso?

Abbiamo deciso di percorrere un’altra strada, ovvero cercare casi di sportivi a cui fosse successa la stessa cosa, ma prima dell’avvento del vaccino anti-Covid. E subito le cose sono apparse per quel che erano, ovvero “normali”: capita da sempre che atleti, sottoposti a sforzi intensi, possano collassare sul campo.

La prima ricerca che ho fatto, da tifoso di basket, è stata “basketball player collapse during game” e il primo video che mi è saltato fuori è del 14 dicembre 2020, a collassare è Keyontae Johnson. La colpa non è il vaccino, che negli Stati Uniti ha cominciato a essere distribuito proprio in quei giorni. Ma ovviamente Keyonte non l’aveva ancora fatto.

Keyontae non è collassato nemmeno a causa del Covid e non è morto. Anzi, al momento gioca nel roster dei Charlotte Hornets in NBA, quindi direi stia bene.

Ma vediamo ancora: ho inserito nel motore di ricerca “player collapses during a match”, restringendo il periodo dal 2010 al 2019, e subito sono fioccati i risultati. Vi riportiamo qualche video, così, per documentare la cosa. Ad esempio, questo è Fabrice Muamba, collassato sul campo 12 anni fa.

Il povero Piermario Morosini, calciatore di Serie B, che morì sul campo durante una partita per un infarto. Bruno Boban, calciatore croato professionista di 25 anni, morì anche lui alla stessa maniera durante una partita nel 2018.

Rachel Daly, calciatrice professionista, collassò nel 2017.

Roy Williams, coach della squadra di basket North Carolina, collassò senza conseguenze nel 2016 durante una partita.

Potremmo andare avanti a lungo, ma non ha alcun senso. Sappiamo bene che non abbiamo fatto un vero fact-checking al video di partenza, come invece ci chiedeva il nostro lettore, ma la scelta di non farlo è intenzionale. Vorremmo che imparaste da soli a fare queste cose, a rispondere a tono a chi vi mostra cose che ritiene incredibili.

È inutile perdere ore a cercare ogni singolo frame del video per capire a quale episodio facciano riferimento, perché, come vi abbiamo appena dimostrato, di sportivi che collassano in campo durante le partite se ne vedono da sempre, senza che si possa attribuire il malore ai vaccini anti-Covid.

L’antisemitismo è il socialismo degli imbecilli, e non importa chi l’ha detto per primo (ilfoglio.it)

di Adriano Sofri

Piccola posta

Sono parole (anche) di Michel Houellebecq al festival “Radici” di Torino, ed è notevole che tutti i cronisti abbiano colto l’efficacia dell’aforisma.

Ma non è lo scrittore francese ad averlo detto per primo

Caro Michele Battini, ho pensato a te oggi, dopo aver finito di leggere quattro cronache dell’intervento di Michel Houellebecq a Torino, al festival “Radici”: sulla Stampa, sul Corriere della Sera, sul Giornale e sul Huffpost.

Tutte e quattro non mancavano di riferire la tagliente definizione che Houellebecq ha dato dell’antisemitismo contemporaneo: “Mi sembra il socialismo degli imbecilli”. La Stampa ne ha fatto anche il titolo di copertina, sopra la foto dello scrittore: “Antisemiti imbecilli”.

E’ notevole che tutti i cronisti abbiano colto l’efficacia dell’aforisma di Houellebecq. D’ora in poi lo troveremo giustamente citato (purché sopravvivano dei socialisti che disprezzino l’antisemitismo).

Finora la confusione riguardava Lenin, cui da molti – basta scorrere Google – veniva attribuita la sentenza. Lenin l’aveva effettivamente pronunciata, ma citando August Bebel, il fondatore, con Wilhelm Liebknecht, del partito socialdemocratico tedesco.

A quanto pare lo stesso Bebel aveva fatto propria, e reso famosa, l’espressione circolata nella socialdemocrazia tedesca di fine Ottocento. Tu poi hai intitolato così, “Il socialismo degli imbecilli”, il tuo libro, per Bollati Boringhieri, del 2010. Un precursore di Houellebecq.

(Non mi rimproverate la pedanteria. Al contrario: mi piace l’idea che, ai tempi che corrono, e corrono forte, uno dica, senza rimandare alla fonte, non so, “Chi è senza peccato scagli la prima pietra”. E il giorno dopo se lo veda attribuire in prima pagina da un capo redattore sveglio).

(LaPresse)

Dopo l’uragano Milton, in fila per il voto anticipato in Georgia e Tennessee (lavocedinewyork.com)

di Massimo Jaus

Scende in campo a sostegno di Kamala Harris 
anche l'ex First Lady Michelle Obama

La frenesia del voto contagia gli Stati Uniti. A 20 giorni dall’Election Day gli elettori di due Stati del Sud, Georgia e Tennessee, devastati dagli uragani nelle settimane scorse, sono in fila per votare anticipatamente.

In North Carolina, dove ancora mancano all’appello 80 persone dopo la tempesta che ha distrutto gran parte delle infrastrutture dello Stato, sarà possibile farlo da domani.

In Florida, invece, si comincerà dal 21 ottobre, così come in Arkansas. Mentre il Mississippi si conferma come il più conservatore dell’Unione dove non solo il voto anticipato non è permesso, ma il “voto in assenza”, gli “absentee ballot”, sono concessi solo con una scusa “valida”.

In Georgia, che con la Pennsylvania è uno degli Stati “altalenanti” fondamentali per ottenere i 270 Grandi Elettori che stabiliranno chi sarà il presidente degli Stati Uniti, più di 300 mila persone hanno già votato nonostante tutte le leggi restrittive imposte dal parlamento statale sul voto, stabilendo il record di affluenza nel primo giorno di votazione anticipata.

Un dato sorprendente perché la legislazione statale, a maggioranza repubblicana e pro Trump, mesi fa aveva passato una serie di restrizioni per rendere più complesso il voto per cercare di allontanare dai seggi quegli elettori anziani e dei distretti rurali nelle zone più povere dello Stato che generalmente votano per i democratici.

Ieri pomeriggio poi un giudice della Georgia ha annullato parte del nuovo regolamento elettorale, quello che imponeva il conteggio manuale dei voti, al quale si era opposto anche il segretario di Stato Brad Raffensberger (il funzionario statale che aveva registrato la telefonata in cui Trump nel 2020 gli chiedeva di trovargli gli 11 mila 780 voti che avrebbero ribaltato la sua sconfitta), il quale ha affermato che le nuove regole che richiedevano tre scrutatori per ogni cassetta elettorale aperta, avrebbero inevitabilmente rallentato le operazioni di spoglio dato che nelle nuove disposizioni non era stato incluso il finanziamento per assumere nuovi scrutatori e ora, anche se il parlamento statale avesse trovato i fondi, non ci sono più i tempi reperirli e per addestrarli al lavoro. Il magistrato della contea di Fulton, Robert McBurney, gli ha dato ragione e ha bocciato la disposizione.

L’importanza del voto della Georgia, che ha 16 Grandi Elettori, viene evidenziata anche dal fatto che in aiuto di Kamala Harris la prossima settimana scenderà in campo l’ex First Lady Michelle Obama per incoraggiare a votare i giovani, i neri e chi alle urne non è mai andato.

Obama sarà ad Atlanta il 29 ottobre nell’ambito di un evento organizzato da “When We All Vote”, il suo gruppo di impegno civico fondato nel 2018 per mobilitare al voto le persone più distanti dalla politica. Con lei anche Selena Gomez, Jennifer Lopez e Tom Hanks.

Nella tortuosa strada del sistema elettorale americano basato sui Collegi Elettorali, Harris parte avvantaggiata rispetto a Donald Trump, ma ha meno combinazioni possibili per raggiungere la vittoria.

Negli Stati Uniti le elezioni presidenziali sono indirette e, contrariamente a quanto si crede, non vince chi si aggiudica più voti, ma il candidato che ottiene la maggioranza dei Grandi Elettori che sono 538. Ogni Stato dell’Unione ha un Collegio Elettorale composto dai Grandi Elettori che varia in base al censimento e che vengono vinti dal candidato che prende più voti nello Stato. A eccezione del Maine e del Nebraska, che usano invece un sistema proporzionale.

Per andare alla Casa Bianca bisogna superare la soglia dei 270 Grandi Elettori. Votando Trump o Harris significa che il Collegio Elettorale di ogni Stato invierà a Washington i Grandi Elettori che a loro volta voteranno per il presidente “il primo martedì dopo il secondo mercoledì di dicembre”. Un sistema contorto varato dai Padri Fondatori quando viaggiare da una parte all’altra degli Stati Uniti richiedeva tempi molto lunghi.

Un sistema che spesso ha evidenziato come il candidato che ottiene il maggior numero di voti popolari poi, alla fine, non viene eletto. L’ultima volta è successo nel 2016 con Hillary Clinton, che ha preso quasi 3 milioni di voti in più di Donald Trump.

Secondo un’analisi del Wall Street Journal, il percorso dei due candidati per aggiudicarsi i 270 Grandi Elettori è differente e 95 di questi si trovano nei sette Stati battleground. Secondo la valutazione riportata dal quotidiano finanziario che ha esaminato i dati di Cook Political Report, Inside Elections con Nathan L. Gonzales e Crystal Ball di Larry Sabato presso l’University of Virginia Center for Politics, la candidata democratica parte avvantaggiata, avendo già 225 voti considerati solidi o molto probabili in Stati ad alta concentrazione di elettori democratici.

Trump, invece, può fare affidamento su 218 voti. Ma Harris ha 25 combinazioni che la porterebbero alla vittoria, mentre l’ex presidente ne ha 32. Gli Stati del “Muro Blu” come Michigan e Wisconsin sono considerati cruciali per la candidata democratica. La Pennsylvania, con i suoi 19 voti elettorali, è probabilmente il campo di battaglia più importante per lei da conquistare. Se Trump dovesse aggiudicarsi la vittoria in Georgia e North Carolina.

C’è anche la possibilità che nessuno ottenga la maggioranza dei voti dei Grandi Elettori, un pareggio di 269 a 269 e allora il vincitore verrebbe scelto dalla prossima Camera dei rappresentanti, dove una delegazione di ogni Stato esprimerà il voto: per la presidenza bisogna ottenerne almeno 26 voti. Il pareggio è capitato raramente nella storia USA: tra i pochi episodi quello verificatosi nel 1800 tra Thomas Jefferson e Aaron Burr.

(Georgia – ANSA)

La vera storia del mezzo UNIFIL con la bandiera di Hezbollah (open.online)

di David Puente

Si tratta di un fotogramma tagliato ad arte di 
un video di aprile, con tutt'altra storia

Circola una foto raffigurante un mezzo UNIFIL con la bandiera di Hezbollah con una precisa domanda: «Tutte le agenzie ONU stanno aiutando i terroristi?».

L’immagine, in realtà, non dimostra un legame con i terroristi o un sostegno a loro favore.

Analisi

Ecco come viene condivisa l’immagine:

Ecco una foto di un camion UNIFIL con una bandiera di Hezbollah. Tutte le agenzie ONU stanno aiutando i terroristi?

Il testo usato per condividere l’immagine è la traduzione di quello che circola in inglese su Twitter/X:

Immagine tagliata da un video

Non si tratta di una foto, ma di un fotogramma tratto da un video. Risulta, inoltre, tagliato per non mostrare due elementi: una scritta in arabo e la ruota del mezzo “sgonfia”.

La vera storia della bandiera nel mezzo UNIFIL

Il video originale risulta pubblicato da un account Twiter/X israeliano il primo aprile 2024. Nel tweet leggiamo il seguente testo (tradotto dall’ebraico tramite Translate di Google):

Nel villaggio di Barishit, nel sud del Libano, i residenti hanno attaccato una pattuglia dell’UNIFIL che era entrata in uno dei quartieri residenziali. L’esercito libanese è intervenuto e ha allontanato le forze dal villaggio. Tra le altre cose, si può vedere che i pneumatici del veicolo erano forati e Su di esso era appesa la bandiera di Hezbollah

La vicenda venne riportata nel sito Israel-alma.org il 2 aprile 2024.

Conclusioni

L’immagine diffusa online non prova che la missione UNIFIL in Libano sostenga Hezbollah. Si tratta di un fotogramma di un video che mostrava il mezzo vandalizzato dai residenti del territorio libanese.

La colpa di Lenzi è stata violare il dogma antisionista e il giornale di riferimento (linkiesta.it)

di

Vittima dei ProPal

La cagnara contro l’assessore dimissionario di Livorno non è dovuta tanto alla rabbia delle associazioni Lgbtq+. La verità è che lui ha criticato le vignette anti israeliane del Fatto Quotidiano, e gli è piovuto addosso un diluvio di ipocrisia e idiozia

Livorno. Ci sono i ProPal, non i Lgbtq+ all’origine della cagnara contro Simone Lenzi, assessore dimissionario alla Cultura. Come si è letto, due post su X di Simone Lenzi giudicati transfobici hanno scatenato la rabbia delle associazioni Lgbtq+ livornesi.

Tale fu l’ira che il sindaco Luca Salvetti dovette pretenderne le dimissioni da assessore alla cultura. Questo si racconta.

Solo che il primo post è di aprile, quando Lenzi è assessore e il secondo di agosto quando – di nuovo – Lenzi è assessore. Nel frattempo infatti a giugno si erano svolte le nuove elezioni comunali, Lenzi con la sua lista aveva aggiunto il quattro per cento dei voti alla maggioranza, e senza obiezione alcuna era stato riconfermato assessore. Il post di aprile era stato visto e variamente commentato, quello di agosto lo stesso. Ma a nessuna persona gay o associazione Lgbtq+ era passato per la testa di chiederne le dimissioni, né prima o né dopo le elezioni.

E allora perché questo putiferio? Perché Lenzi l’8 ottobre, viste sul Fatto le (efferate, ma viva la libertà di espressione) vignette anti israeliane che raccontavano a modo loro l’eccidio di Hamas contro i ragazzi israeliani e le le famiglie nei kibbutz, ha pubblicato un post molto violento contro il quotidiano di Marco Travaglio e Mario Natangelo.

Questo non gli è stato perdonato. Scherza coi fanti ma lascia stare i santi. Tutti sanno che Lenzi non è né transfobico né omofobo, e che solo gli esponenti di una sottocultura suprematista gay (altrove fiorente in contrapposizione a quella suprematista etero) potrebbero metterlo in stato di accusa per le critiche a quelli che giudica eccessi di conformismo.

È stato quando Lenzi ha violato il dogma antisionista e ne ha messo alla berlina il quotidiano di riferimento, solo allora un diluvio di ipocrisia e idiozia ha rotto gli argini del buon senso e travolto non tanto Lenzi, stimatissimo scrittore e artista, quanto la credibilità del sindaco e della giunta comunale.

L’Albania di Edi Rama è diventata la discarica delle colpe europee (linkiesta.it)

di

Terra di scarto

Tirana accoglie (a pagamento) i migranti respinti dall’Italia e i detenuti dal Regno Unito e pensa di creare un micro-Stato islamico dentro i suoi confini, grazie a un premier abile e controverso che ha compreso che, per mantenere a galla il Paese, è necessario farlo apparire utile agli occhi dei potenti

L’Albania di Edi Rama è un Paese sospeso, un luogo dove la storia non è mai solo il passato e la modernità non è mai davvero il presente. È un teatro dove il dramma dell’esistenza balcanica si compie tra la nostalgia e il disincanto, tra l’aspirazione alla libertà e il perpetuarsi della schiavitù invisibile della propria storia.

Per dirla con le parole di Pier Paolo Pasolini, qui la realtà è più complessa di quanto la si voglia raccontare. L’Albania non è solo un Paese dei Balcani, è una metafora dell’Europa stessa, con le sue contraddizioni più profonde, con quel suo oscillare costante tra la promessa della democrazia e il ritorno all’autoritarismo. L’accordo con Giorgia Meloni per accogliere i migranti respinti dall’Italia non è solo una mossa politica, ma il simbolo di un Paese che si offre come discarica delle colpe europee.

Rama, abile come un regista, ha compreso che, per mantenere a galla il Paese, è necessario farlo apparire utile agli occhi dei potenti. Non è un gioco di potere, ma un compromesso necessario: l’Albania non può permettersi il lusso di essere irrilevante.

Non si tratta solo di una questione umanitaria: accogliere i migranti è anche, e soprattutto, una strategia per ottenere fondi, per lavare i panni sporchi altrui affinché si mischino con i suoi, con la consapevolezza che l’Albania, piccola e fragile, deve sopravvivere in un contesto ostile. Ma, al tempo stesso, la manovra riflette la realtà di una nazione che si fa complice di un’Europa incapace di risolvere i propri drammi.

La recente idea proposta dalla maggioranza al governo per la creazione di un micro-stato islamico all’interno dell’Albania, governato da un baba dell’ordine Sufi, ci offre un’ulteriore finestra su questa strategia. Rama sembra voler fare per l’islam ciò che il Papa fa per il cattolicesimo, mitigando l’islamofobia con un’autorità spirituale che dia un volto accettabile alla religione nella zona dei Balcani.

Eppure, dietro questa facciata di dialogo, potrebbe celarsi una verità più dura: l’islam è un pretesto, uno specchio in cui si riflettono le paure europee. Questo «Vaticano dei musulmani» non simboleggia tanto un atto di riconciliazione quanto un gioco di potere, una forma sottile di controllo che sfrutta l’emarginazione per capitalizzare sull’angoscia.

La proposta di accogliere i detenuti britannici nelle carceri albanesi si iscrive nella stessa logica: l’Albania si trasforma in una terra di scarto, in una prigione per le ombre del mondo occidentale. È la logica dei margini, in cui i Paesi periferici si fanno carico del peso che il centro si rifiuta di sostenere. Rama, in questo, è un maestro: sa che l’Albania non può competere con i giganti, e allora adotta una politica di mediazione, diventando un mercante che accetta di vendere qualcosa di sé pur di rimanere nel gioco.

Ma dietro questa apparente astuzia si nasconde una domanda: che prezzo sta pagando l’Albania per non scomparire? E a cosa deve rinunciare per restare visibile agli occhi del mondo? Questo evidenzia un aspetto fondamentale della politica albanese contemporanea: il Paese è incapace di sviluppare un proprio tessuto economico capace di stare sul mercato.

Eppure, nonostante tutte le critiche che si possono muovere nei confronti di Rama, è innegabile che sia l’unico leader capace di tenere insieme uno Stato in transizione, ancora traumatizzato dal lungo incubo del regime comunista di Enver Hoxha. La sua figura, sebbene controversa, è al centro di una democrazia fragile, dove l’opposizione appare quasi inesistente.

Sali Berisha, il leader del Partito democratico, visto dagli Stati Uniti come persona ingrata, non può essere considerato un vero rivale politico. E i giovani albanesi? Fuggono, emigrano e non credono nella politica, perché l’Albania non offre loro futuro.

Questa fuga di cervelli – che anche noi in Italia conosciamo bene – è la vera tragedia del Paese: una democrazia senza cittadini giovani è fragilissima. Vista da fuori, questa emigrazione sembra quasi una forma di auto-esilio, una denuncia silenziosa contro un sistema che non riesce a offrire nessuna speranza.

Rama è, in fin dei conti, l’ultimo baluardo di una democrazia fragile, che esiste solo perché non c’è nessuno abbastanza forte da opporvisi. Ma attenzione: non si può scambiare la stabilità con il progresso. Quella di Rama è la stabilità di un Paese immobile, che non sa dove andare.

La democrazia non è solo un sistema di governo, ma una forma di vita, un ethos che richiede partecipazione, critica, dissenso. E l’Albania non ha ancora sviluppato quel tessuto civile che rende la democrazia vitale. Quella albanese è una scenografia, e Rama ne è il regista, il protagonista e lo spettatore.

Il vero nodo è che l’Albania è ancora prigioniera della propria storia. Il regime di Hoxha ha lasciato cicatrici profonde, e la transizione verso la democrazia è ancora incompleta. La nazione vive così un dramma epico, dove il passato si aggrappa al presente, impedendo al futuro di nascere. Il popolo albanese è disilluso, diviso tra la nostalgia per un passato mitizzato e ormai quasi sconosciuto e il desiderio di fuggire da un presente che non mantiene le sue promesse.

Edi Rama, con il suo pragmatismo e la sua indiscutibile abilità comunicativa, è riuscito a mantenere il Paese a galla. La sua leadership, però, non è la soluzione, ma solo un palliativo, ed egli stesso è contemporaneamente parte del problema e parte della soluzione. Il premier albanese tiene per mano un Paese che non ha ancora imparato a camminare da solo, ma non è in grado di farlo crescere davvero.

La vera sfida dunque non è solo quella di mantenere il potere, ma anche quella di creare una democrazia che sia viva e capace di dare voce a chi non ce l’ha. Le vicissitudini della politica albanese contemporanea dovrebbero essere un monito per l’Europa intera: una democrazia senza popolo è una farsa.

E l’Albania, in questo senso, rappresenta la tragedia di un continente che non sa più distinguere libertà e sopravvivenza.