Dopo l’uragano Milton, in fila per il voto anticipato in Georgia e Tennessee (lavocedinewyork.com)

di Massimo Jaus

Scende in campo a sostegno di Kamala Harris 
anche l'ex First Lady Michelle Obama

La frenesia del voto contagia gli Stati Uniti. A 20 giorni dall’Election Day gli elettori di due Stati del Sud, Georgia e Tennessee, devastati dagli uragani nelle settimane scorse, sono in fila per votare anticipatamente.

In North Carolina, dove ancora mancano all’appello 80 persone dopo la tempesta che ha distrutto gran parte delle infrastrutture dello Stato, sarà possibile farlo da domani.

In Florida, invece, si comincerà dal 21 ottobre, così come in Arkansas. Mentre il Mississippi si conferma come il più conservatore dell’Unione dove non solo il voto anticipato non è permesso, ma il “voto in assenza”, gli “absentee ballot”, sono concessi solo con una scusa “valida”.

In Georgia, che con la Pennsylvania è uno degli Stati “altalenanti” fondamentali per ottenere i 270 Grandi Elettori che stabiliranno chi sarà il presidente degli Stati Uniti, più di 300 mila persone hanno già votato nonostante tutte le leggi restrittive imposte dal parlamento statale sul voto, stabilendo il record di affluenza nel primo giorno di votazione anticipata.

Un dato sorprendente perché la legislazione statale, a maggioranza repubblicana e pro Trump, mesi fa aveva passato una serie di restrizioni per rendere più complesso il voto per cercare di allontanare dai seggi quegli elettori anziani e dei distretti rurali nelle zone più povere dello Stato che generalmente votano per i democratici.

Ieri pomeriggio poi un giudice della Georgia ha annullato parte del nuovo regolamento elettorale, quello che imponeva il conteggio manuale dei voti, al quale si era opposto anche il segretario di Stato Brad Raffensberger (il funzionario statale che aveva registrato la telefonata in cui Trump nel 2020 gli chiedeva di trovargli gli 11 mila 780 voti che avrebbero ribaltato la sua sconfitta), il quale ha affermato che le nuove regole che richiedevano tre scrutatori per ogni cassetta elettorale aperta, avrebbero inevitabilmente rallentato le operazioni di spoglio dato che nelle nuove disposizioni non era stato incluso il finanziamento per assumere nuovi scrutatori e ora, anche se il parlamento statale avesse trovato i fondi, non ci sono più i tempi reperirli e per addestrarli al lavoro. Il magistrato della contea di Fulton, Robert McBurney, gli ha dato ragione e ha bocciato la disposizione.

L’importanza del voto della Georgia, che ha 16 Grandi Elettori, viene evidenziata anche dal fatto che in aiuto di Kamala Harris la prossima settimana scenderà in campo l’ex First Lady Michelle Obama per incoraggiare a votare i giovani, i neri e chi alle urne non è mai andato.

Obama sarà ad Atlanta il 29 ottobre nell’ambito di un evento organizzato da “When We All Vote”, il suo gruppo di impegno civico fondato nel 2018 per mobilitare al voto le persone più distanti dalla politica. Con lei anche Selena Gomez, Jennifer Lopez e Tom Hanks.

Nella tortuosa strada del sistema elettorale americano basato sui Collegi Elettorali, Harris parte avvantaggiata rispetto a Donald Trump, ma ha meno combinazioni possibili per raggiungere la vittoria.

Negli Stati Uniti le elezioni presidenziali sono indirette e, contrariamente a quanto si crede, non vince chi si aggiudica più voti, ma il candidato che ottiene la maggioranza dei Grandi Elettori che sono 538. Ogni Stato dell’Unione ha un Collegio Elettorale composto dai Grandi Elettori che varia in base al censimento e che vengono vinti dal candidato che prende più voti nello Stato. A eccezione del Maine e del Nebraska, che usano invece un sistema proporzionale.

Per andare alla Casa Bianca bisogna superare la soglia dei 270 Grandi Elettori. Votando Trump o Harris significa che il Collegio Elettorale di ogni Stato invierà a Washington i Grandi Elettori che a loro volta voteranno per il presidente “il primo martedì dopo il secondo mercoledì di dicembre”. Un sistema contorto varato dai Padri Fondatori quando viaggiare da una parte all’altra degli Stati Uniti richiedeva tempi molto lunghi.

Un sistema che spesso ha evidenziato come il candidato che ottiene il maggior numero di voti popolari poi, alla fine, non viene eletto. L’ultima volta è successo nel 2016 con Hillary Clinton, che ha preso quasi 3 milioni di voti in più di Donald Trump.

Secondo un’analisi del Wall Street Journal, il percorso dei due candidati per aggiudicarsi i 270 Grandi Elettori è differente e 95 di questi si trovano nei sette Stati battleground. Secondo la valutazione riportata dal quotidiano finanziario che ha esaminato i dati di Cook Political Report, Inside Elections con Nathan L. Gonzales e Crystal Ball di Larry Sabato presso l’University of Virginia Center for Politics, la candidata democratica parte avvantaggiata, avendo già 225 voti considerati solidi o molto probabili in Stati ad alta concentrazione di elettori democratici.

Trump, invece, può fare affidamento su 218 voti. Ma Harris ha 25 combinazioni che la porterebbero alla vittoria, mentre l’ex presidente ne ha 32. Gli Stati del “Muro Blu” come Michigan e Wisconsin sono considerati cruciali per la candidata democratica. La Pennsylvania, con i suoi 19 voti elettorali, è probabilmente il campo di battaglia più importante per lei da conquistare. Se Trump dovesse aggiudicarsi la vittoria in Georgia e North Carolina.

C’è anche la possibilità che nessuno ottenga la maggioranza dei voti dei Grandi Elettori, un pareggio di 269 a 269 e allora il vincitore verrebbe scelto dalla prossima Camera dei rappresentanti, dove una delegazione di ogni Stato esprimerà il voto: per la presidenza bisogna ottenerne almeno 26 voti. Il pareggio è capitato raramente nella storia USA: tra i pochi episodi quello verificatosi nel 1800 tra Thomas Jefferson e Aaron Burr.

(Georgia – ANSA)

La vera storia del mezzo UNIFIL con la bandiera di Hezbollah (open.online)

di David Puente

Si tratta di un fotogramma tagliato ad arte di 
un video di aprile, con tutt'altra storia

Circola una foto raffigurante un mezzo UNIFIL con la bandiera di Hezbollah con una precisa domanda: «Tutte le agenzie ONU stanno aiutando i terroristi?».

L’immagine, in realtà, non dimostra un legame con i terroristi o un sostegno a loro favore.

Analisi

Ecco come viene condivisa l’immagine:

Ecco una foto di un camion UNIFIL con una bandiera di Hezbollah. Tutte le agenzie ONU stanno aiutando i terroristi?

Il testo usato per condividere l’immagine è la traduzione di quello che circola in inglese su Twitter/X:

Immagine tagliata da un video

Non si tratta di una foto, ma di un fotogramma tratto da un video. Risulta, inoltre, tagliato per non mostrare due elementi: una scritta in arabo e la ruota del mezzo “sgonfia”.

La vera storia della bandiera nel mezzo UNIFIL

Il video originale risulta pubblicato da un account Twiter/X israeliano il primo aprile 2024. Nel tweet leggiamo il seguente testo (tradotto dall’ebraico tramite Translate di Google):

Nel villaggio di Barishit, nel sud del Libano, i residenti hanno attaccato una pattuglia dell’UNIFIL che era entrata in uno dei quartieri residenziali. L’esercito libanese è intervenuto e ha allontanato le forze dal villaggio. Tra le altre cose, si può vedere che i pneumatici del veicolo erano forati e Su di esso era appesa la bandiera di Hezbollah

La vicenda venne riportata nel sito Israel-alma.org il 2 aprile 2024.

Conclusioni

L’immagine diffusa online non prova che la missione UNIFIL in Libano sostenga Hezbollah. Si tratta di un fotogramma di un video che mostrava il mezzo vandalizzato dai residenti del territorio libanese.