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Quando i fascisti nel Polesine fucilarono 42 persone. La strage tutta italiana finita troppo presto nell’oblio (corriere.it)

di Gian Antonio Stella

L'eccidio di Villamarzana 80 anni fa

La metà delle vittime minorenni. Negli Anni 50 gli assassini erano già liberi

«V i supplico! Vi scongiuro! Sono ragazzi!», urlò pazza di terrore la signora Guidetti ai fascisti che rastrellavano le vittime destinate alla mattanza repubblichina. «Scegline uno!» le rispose acido, sfidandola, il capobanda.

E li portò via tutti due. Benito, il più grande, aveva 18 anni e portava probabilmente quel nome, come tanti italiani di allora, in onore di Mussolini. Il più piccolo, che portava il nome del primogenito del Duce, Vittorio, ne aveva 15. Li misero al muro insieme.

Nonostante l’eroico maestro Giovanni Tasso, che avrebbe avuto la medaglia d’oro alla memoria per essersi assunto inutilmente le responsabilità del gruppo partigiano in cambio della vita dei più giovani («Vi giuro: non c’entrano con noi») li avesse scagionati dalla minima responsabilità. E con loro furono fucilati altri venticinque minorenni. Compreso Bruno Zanella, quattordici anni, i brufoli e la barba che doveva ancora spuntare.

Era il 15 ottobre 1944. Esattamente ottant’anni fa. E quella compiuta lì, a Villamarzana, Polesine, è la più spaventosa ma meno nota delle stragi fasciste. Non nazifasciste come quelle compiute dalle SS e dalle truppe d’occupazione tedesche a Marzabotto, alle Fosse Ardeatine o Sant’Anna di Stazzema con la complicità degli italiani fedeli al regime.

Stragi che almeno in certi casi hanno visto gli ufficiali tedeschi finire alla sbarra e talvolta perfino in galera. Ma una rappresaglia tutta italiana. Decisa e perpetrata da repubblichini che nel processo celebrato subito dopo la fine della guerra davanti alla Corte d’assise straordinaria di Rovigo, presieduta da Alessandro Alessandri quando al Quirinale c’era ancora Umberto II, si chiuse il 5 novembre 1945 con la condanna a morte o all’ergastolo dei principali responsabili del massacro di 42 uomini (più altri 8 uccisi nei giorni successivi) accusati d’essere partigiani ma soprattutto poveretti scelti a casaccio per «dare una lezione» con una feroce rappresaglia dopo la sparizione di 4 fascisti che avevano cercato di infiltrarsi tra i partigiani.

Condanne a morte ed ergastoli presto evaporati tra ricorsi e amnistie. Col risultato che negli anni Cinquanta gli assassini erano già tutti fuori. Liberi. Senza neppure scontare il peso di una condanna morale da parte dei giornali dell’epoca. Assai distratti e ansiosi di dimenticare e rimuovere le ferite della guerra civile. Fino all’oblio.

Eppure la mattanza, ricostruita anni fa da un’indignata rappresentazione teatrale, «Il processo per l’eccidio di Villamarzana», messa in scena con tutti i documenti originali del dibattito processuale da Lorenzo Pavanello, un avvocato rodigino, è rimasta per il Polesine una ferita che dopo otto decenni butta ancora sangue.

Basti rileggere le cronache del giornalista Mario Bottari, il quale raccontò che la Questura limitava gli accessi al pubblico temendo reazioni violente, o la requisitoria del procuratore del re Giovanni Panzuto: «Circa le sevizie e le crudeltà rilevo due particolari: 1) i poveri giovani furono costretti a vivere l’ora suprema mentre i colpi uccidevano i compagni che li avevano preceduti; poi venivano uccisi in mezzo al sangue caldo dei compagni stessi. 2) l’animo di quelle belve fu così duro che su di esso nessuna compassione suscitò il fatto che mamme e spose e figli, stando in casa, dovevano sentire i colpi che la vita dei cari spegnevano…».

Vittorio

Il più piccolo portava il nome del primogenito del Duce. Aveva soltanto quindici anni

Sfilarono 135 testimoni, in quei giorni di processo. Ed emerse, tra la rabbia e le lacrime, una ricostruzione completa dei fatti. Alla fine di settembre l’Ufficio politico investigativo di Rovigo, saputa «dell’esistenza di una banda partigiana, il battaglione “Zaghi” comandato da Bellino Varliero detto “capitano Tito”» cerca di infiltrare tra i partigiani quattro informatori. Missione fallita. Vengono scoperti e fatti sparire.

Decisi a capire cosa fosse successo, i fascisti battono a tappeto l’area, rastrellano presunti simpatizzanti, interrogano pesantemente i prigionieri sui quali hanno maggiori sospetti finché arrivano a farsi confessare che i quattro sono morti e dove sono stati sepolti.

A quel punto Vittorio Martelluzzi, il comandante della Guardia nazionale repubblicana rodigina, d’accordo evidentemente coi superiori e le autorità naziste che però non verranno coinvolti nel processo, decide la rappresaglia: dieci morti per ogni morto. Già che ci sono, ne uccideranno due in più.

Domenica 15 ottobre pretendono che il «bando» che intima ai partigiani di consegnarsi venga letto in chiesa durante la messa. Il parroco don Pellegatti, che solo grazie al vescovo non verrà arrestato e lui pure fucilato, si rifiuta. Vengono allora chiamati da Padova i cappellani della Legione autonoma mobile «Ettore Muti», padre Germano e padre Cornelio.

Nonché un giudice e un cancelliere per rispettare la forma ma che arriveranno, spiegherà l’accusa «a eccidio compiuto». Hanno fretta, gli assassini. E dopo avere radunato gli ostaggi rastrellati nella «casetta del barbiere» un po’ isolata dal centro del paese, cominciano a metterne al muro sei alla volta, senza manco aspettare i preti per l’ultima benedizione, sotto la scritta «Primo esempio».

Scritta che al processo, stando agli atti, viene attribuita ora al comandante Vittorio Martelluzzi, ora al colonnello della Guardia fascista Ugo Cavaterra e ora a un altro gerarca, Giorgio Zamboni, conosciuto per una anchilosi a una gamba e la sua ferocia come «il boia zoppo». Tutti e tre decisissimi a scaricare le responsabilità della strage su spalle altrui.

Molti anni dopo Nazzarena Boaretto, che a quei tempi aveva solo sedici anni, racconterà in un libro autoprodotto dal titolo «Memorie di una vita» e distribuito ad amici e parenti: «Ricordo che la sera si sentivano da lontano solo le loro voci che cantavano a squarciagola: “Con il sangue dei partigiani ci laverem le mani”. E così è stato».

La «casetta del barbiere», lì a Villamarzana, è stata restaurata. Il vecchio muro dove furono fucilati i poveretti, però, è stato lasciato intatto. A futura memoria. Con una scritta che recita: «Caddero per la libertà da ogni tirannide / italiana e straniera / Dal loro sangue germogli esempio e monito /per le generazioni a venire / onde si perpetui la patria giusta / libera e democratica».

Parole d’oro. Purché si ricordi anche che in quel caso non furono nazisti e tedeschi i principali carnefici.

La violenza del linguaggio (doppiozero.com)

di Mauro Serra

Libri

Abituati da una veneranda tradizione a considerare il logos come la caratteristica propria dell’essere umano, quella che meglio ne coglie l’irriducibile specificità, non si può che restare sorpresi dalla frequenza con cui, nell’ultimo libro di Felice Cimatti (∃x(fx) Logica della decisione, Cronopio 2024), l’aggettivo “inumano” viene adoperato in riferimento al linguaggio (p. 28, 30, 34, etc).

L’incipit del libro, d’altra parte, non è meno spiazzante. Vi si legge, infatti, dopo un riferimento in esergo alla natura fascista della lingua tratto da Roland Barthes, la seguente affermazione: «La violenza del linguaggio non è quella contenuta in alcune particolari espressioni (ad esempio il cosiddetto hate speech), come se in linea di principio potesse esistere un modo di parlare non violento e neutrale; la violenza è insita nello stesso dispositivo linguistico, nella ‘sua’ decisione di dire il mondo in un certo modo anziché un altro» (p. 7).

Alla fine di un serrato percorso argomentativo, il lettore scoprirà non solo che la violenza del linguaggio è propriamente quella che esso esercita nei confronti della vita, ma anche, e non meno sorprendentemente, che il libro, un libro di filosofia del linguaggio a tutto tondo, cela al suo interno un ‘problematico’ nucleo etico-politico.

Ma procediamo con ordine. A che cosa serve il linguaggio? Per comunicare, è la risposta intuitiva che molti darebbero e che, del resto, circola largamente anche nella letteratura specialistica. Niente di più sbagliato. Appoggiandosi alla riflessione dei due ‘giganti’ del pensiero linguistico novecentesco, Ferdinand de Saussure e Noam Chomsky, Cimatti mostra che il funzionamento del linguaggio prescinde completamente dalla psicologia dei parlanti e dalle loro presunte intenzioni comunicative.

Che lo si consideri come un dispositivo di natura essenzialmente sintattico-ricorsiva alla maniera di Chomsky, o come un fait social, secondo quanto affermava Saussure, il linguaggio sembra godere di un’esistenza autonoma rispetto alla quale il ruolo dei parlanti risulta, nella migliore delle ipotesi, irrilevante. «Una lingua, per Chomsky, funziona non grazie ai ‘suoi’ parlanti, bensì nonostante loro.

Perché una lingua, di per sé, è una sorta di meccanismo perfetto che appunto non ha bisogno di chi la parli. Si tratta di un punto fondamentale per comprendere l’intrinseca potenza inumana della facoltà di linguaggio […]» (pp. 27-28). La principale conseguenza che deriva da questa prospettiva – una conseguenza a prima vista controintuitiva (p. 79) – è che, considerato nel suo nucleo costitutivo, il linguaggio non ha bisogno di fare riferimento a qualcosa di esterno a sé.

Esso si esaurisce in una dimensione che si potrebbe definire interamente ‘orizzontale’ di cui Chomsky e Saussure forniscono due descrizioni che, pur radicalmente differenti, finiscono per risultare in certo qual modo complementari.

Mentre, infatti, per l’uno (Chomsky) questa dimensione si riduce a una sola operazione fondamentale, quella che ricorsivamente ‘FONDE’ (merge) due oggetti già costruiti, due atomi concettuali, la cui origine rimane peraltro misteriosa, per l’altro (Saussure), essa è caratterizzata dalla relazione, appunto orizzontale, che collega ogni segno ad altri segni cosicché, come recita una delle affermazioni più note del Cours, «nella lingua non ci sono che differenze.

Di più: una differenza suppone in generale dei termini positivi tra i quali essa si stabilisce; ma nella lingua non vi sono che differenze senza termini positivi» (citata alle pp. 80-81).

La lingua, dunque, vivendo di questo continuo gioco di rimandi, all’interno del quale un segno non fa che rinviare a un altro segno, non ‘incontra’ mai il mondo esterno, poiché non c’è alcuna relazione ‘verticale’ che colleghi un segno al suo (presunto) riferimento.

Da questo punto di vista, la ricerca che a lungo impegnò Saussure sugli anagrammi, senza peraltro approdare a una conclusione, si rivela particolarmente istruttiva, poiché attraverso di essa «Saussure ha scoperto che il linguaggio c’è, e che procede indipendentemente dalla volontà (la performance) del parlante»; nella lingua, appunto, «tutto si tocca, e non si sa dove fermarsi».

Non è il parlante che usa l’anagramma per ottenere un certo effetto poetico, al contrario, è la lingua a non essere altro che questo «implacabile» «movimento anagrammatico […] Il cosiddetto soggetto psicologico non è che un transito fra un significante e un altro significante, fra un anagramma e un altro anagramma» (p.86).

Come spiegare allora il fatto che con il linguaggio facciamo continuamente (o pensiamo di fare?) riferimento al mondo, ovvero alla realtà in tutte le sue più svariate articolazioni?

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La risposta che Cimatti fornisce a tale interrogativo discende del tutto naturalmente dalle premesse delineate. Il linguaggio o, per meglio dire, le lingue storico-naturali certamente ‘pretendono’ di fare riferimento al mondo, ma in realtà, questa pretesa non è nient’altro che il tentativo «di strappare un senso a ciò che, invece, non ne ha nessuno» (p.87).

Si rivela in questo modo «l’intrinseca potenza istituente della parola» (p. 13), una potenza che precede la stessa distinzione tra linguaggio e mondo e in virtù della quale la parola umana sempre istituisce sia ciò di cui si parla, il suo essere qualcosa, sia la sua esistenza.

A differenza di autori che, come ad esempio Searle, hanno lungamente insistito sulla distinzione tra ‘fatti istituzionali’ e ‘fatti bruti’, nella prospettiva delineata da Cimatti non c’è spazio per questa distinzione, «poiché ogni ente del mondo umano è, in grado maggiore o minore, un ‘fatto istituzionale’, cioè un fatto che è istituito mediante una procedura collettiva il cui caso più semplice è quello di ‘c’era una volta un re’» (p.44).

Va, naturalmente, subito sgombrato il campo da un’obiezione che appare tanto ovvia quanto fuorviante. Sopprimere la distinzione tra essere ed esistere non significa in alcun modo sostenere che non esistano oggetti, tantomeno che il reale sia una ‘invenzione’ delle lingue (p.15).

Significa, invece, riconoscere che il linguaggio coincide con la volontà di nominare il mondo, un mondo che è certamente esterno al soggetto («ogni nome nasce dall’urto con qualcosa che non è l’io», con le parole che Cimatti, a p. 16, ricava da un saggio di un grande filologo e storico delle religioni di fine ‘800, Hermann Usener, da lui riletto sub specie linguistica), ma di cui il soggetto può fare esperienza, anche da un punto di vista percettivo, laddove si pensa di incontrare la realtà nella maniera più diretta possibile (i fatti bruti), solo attraverso la mediazione del linguaggio.

Diventano a questo punto chiari tanto il significato, quanto, soprattutto, le implicazioni teoriche del titolo scelto per il volume. La formula logica elementare, ∃x(fx), si rivela metafisicamente interessante poiché, attraverso il quantificatore esistenziale, stabilisce in anticipo, prima ancora di attribuirgli una determinata caratteristica (f), che qualcosa esiste. In questo modo, essa racchiude nella forma più limpida la logica che governa la relazione del linguaggio con il mondo, una relazione che sempre implica la decisione, preventiva, che il mondo sia in un modo piuttosto che in un altro. Il modello insuperato di questa logica può essere allora ravvisato nelle parole della Genesi: «Dixit Deus: ‘Fiat lux. Et facta est lux’», poiché «si tratta di un atto linguistico che istituisce l’esistenza di un particolare essere.

Con questo gesto Dio propriamente decide che deve esserci la luce, e infatti la luce immediatamente c’è. Perché dev’esserci la luce? Semplicemente perché così Dio ha deciso che sia» (p. 46).

La violenza del linguaggio è, dunque, ineludibile, perché coincide con la violenza della decisione, di una qualunque decisione che stabilisce che il mondo sia in un modo piuttosto che in un altro. Del resto, come Cimatti opportunamente ricorda (p.137), l’etimologia della parola “decidere” rimanda all’azione del “tagliare”, anzi più precisamente del “tagliare via”, che è sempre implicitamente presupposta nel fatto di scegliere x piuttosto che una qualsiasi delle sue possibili alternative: «La violenza del linguaggio è nel comando che il linguaggio impone al mondo» (p. 46).

Che ne è, allora, della vita del soggetto? Il libro suggerisce una duplice risposta a seconda che l’accento venga fatto cadere sull’uno o l’altro dei due termini. Da un lato, infatti, dal momento che il soggetto è il risultato del processo di “soggettivazione” messo in movimento dall’urto (di nuovo) del linguaggio con il corpo dell’animale umano (p. 33), il compito che gli si prospetta «è appunto provare a fare i conti con il dispositivo linguistico, che, come abbiamo compreso, persegue i ‘suoi’ fini, ammesso che siano fini espliciti, e non certo quelli dei suoi supposti utilizzatori» (p. 34).

Una forma di resistenza che nasce, innanzitutto, dalla consapevolezza di essere ‘prigioniero’ di quel dispositivo linguistico che pretende di controllare. Dall’altro, tuttavia, questa resistenza sembra inevitabilmente destinata al fallimento, data l’irriducibile alterità tra linguaggio e vita: «Il problema filosofico posto dalla vita è che la vita può esistere, in quanto fenomeno reale, solo finché non viene catturato da un qualche dispositivo categoriale, che lo classifica come un certo fenomeno vitale, animale o vegetale ad esempio.

A questo punto l’indeterminato fenomeno vitale originario non c’è più» (p. 91). L’unica via di fuga consiste allora nel cercare «di sostare nello spazio indeciso che si apre ogni volta che una decisione si decide per un verso o per l’altro» (p. 137) oppure, con una formulazione ancora più significativa, nel provare a «‘galleggiare’, per così dire, fra le diverse nominazioni/decisioni» (p. 136).

Che si resti convinti o meno della praticabilità di questa condizione oltre che dai modi scelti per ‘raffigurarla’ – il gatto né vivo né morto del famoso esperimento mentale di Schrödinger, il protagonista, Shrevek, di un noto romanzo di fantascienza, I reietti del pianeta, di Ursula Le Gun, percorso da venature ‘anarchiche’, passando per l’immanenza assoluta proposta da Deleuze – il libro solleva, con la radicalità delle sue tesi, un duplice interrogativo.

Si tratta di una condizione meramente individuale? Ovvero, è possibile, e come, immaginarne una declinazione che tenga conto del fatto che l’uomo non solo è l’animale che parla ma anche, e non a caso, quello che vive nella polis?

L’Argentina di Milei: bilancio di dieci mesi di presidenza (lavoce.info)

di 

Con la presidenza Milei, l’Argentina ha intrapreso 
un faticoso percorso di stabilizzazione economica. 

Il rallentamento dell’inflazione e la sostanziale tenuta dell’attività economica sono segnali incoraggianti, ma rimangono le fragilità strutturali.

Dieci mesi di presidenza Milei

Javier Milei ha assunto la carica di presidente dell’Argentina nel dicembre 2023. Nei suoi primi dieci mesi di governo è riuscito a rallentare la corsa dell’inflazione, raggiungere il pareggio di bilancio e stabilizzare il mercato valutario. Il rischio paese diminuisce, benché rimanga ancora molto elevato: Buenos Aires deve infatti ancora risolvere numerose fragilità strutturali, affrontare la crisi sociale e rilanciare l’economia.

A settembre, il tasso di inflazione ha raggiunto il 3,5 per cento, su base mensile. Un dato che sarebbe allarmante in altre economie, ma per l’Argentina rappresenta il livello più basso degli ultimi tre anni.

Annualizzando i dati degli ultimi quattro mesi, l’inflazione si attesta ora al 61 per cento: un netto miglioramento rispetto agli ultimi quattro mesi del governo precedente, che aveva lasciato un tasso d’inflazione medio annuo pari al 270 per cento, a cui bisognava aggiungere un’inflazione latente dovuta ai controlli sui prezzi, alle restrizioni sulle importazioni e agli effetti di un tasso di cambio artificialmente sopravvalutato.

Appena insediato, Milei ha liberalizzato l’economia e, prendendo atto della tensione sul mercato valutario, ha svalutato il peso del 45 per cento generando così un’inflazione del 25 per cento solo nel mese di dicembre. Da quel momento in poi il governo ha deciso di svalutare il valore ufficiale del peso argentino a un ritmo mensile del 2 per cento.

Primo obiettivo: sconfiggere l’inflazione

Per via dei controlli di capitale, l’Argentina convive ancora con un tasso di cambio ufficiale e uno non ufficiale, il “blue” che riflette la sfiducia di mercati e cittadini. La differenza tra i due tassi si attesta adesso attorno al 20 per cento, mentre negli ultimi mesi del governo precedente superava il 100 per cento.

Sembrava che Milei volesse unificare subito i tassi, ma la decisione è stata rimandata. Riallineare immediatamente il tasso ufficiale al “blue” provocherebbe un picco inflazionistico simile a quello di dicembre 2023 e il governo preferisce invece ridurre gradualmente il divario, per meglio gestire l’impatto sull’inflazione.

La politica economica del governo è infatti interamente orientata alla lotta contro l’inflazione, il male cronico dell’Argentina. Poco importa se ciò richiede di mantenere un doppio mercato dei cambi che scoraggia gli investimenti esteri, o se porta a una contrazione dell’attività economica o a tagliare drasticamente la spesa pubblica: Milei ritiene che il suo mandato sarà giudicato dall’andamento del tasso d’inflazione.

Si spiega così la scelta pragmatica di preferire una limitazione della circolazione di capitali e una recessione a un ulteriore deprezzamento del tasso di cambio che stimolerebbe l’economia ma importerebbe ulteriore inflazione.

La scommessa di Milei è che gli argentini siano disposti a sopportare una recessione pur di liberarsi dell’endemica inflazione che, da anni, affligge l’economia e grava sulle classi sociali più deboli. La stabilità sociale si raggiungerebbe, in poche parole, attraverso la sconfitta dell’inflazione. La libera circolazione dei capitali, l’unificazione del tasso di cambio, le riforme e la ripresa dell’economia verranno dopo.

Perché il pareggio di bilancio a ogni costo

Si spiega così anche l’ossessione di Milei di raggiungere il pareggio di bilancio in un solo anno, riducendo drasticamente la spesa pubblica. Storicamente, l’Argentina ha finanziato il proprio deficit con l’emissione monetaria perché da anni le è impedito l’accesso ai mercati finanziari, visti i numerosi default del passato. Eliminare il disavanzo pubblico e, quindi, il finanziamento monetario è cruciale per contenere l’inflazione.

La riduzione del deficit è stata ottenuta attraverso un aumento della tassazione, in particolare con il ritorno dell’imposta sul reddito eliminata a fini elettorali durante gli ultimi mesi di gestione dell’ex presidente Alberto Fernandez, e attraverso una contrazione del 30 per cento in termini reali della spesa pubblica.

Tra le voci che hanno subito i tagli più forti figurano i trasferimenti alle province (-70 per cento) e gli investimenti pubblici (-80 per cento). Ma viene ridotta anche la spesa sociale per prestazioni sociali (-17 per cento), pensioni (-21 per cento) e trasferimenti alle università (-33 per cento).

Nelle ultime settimane il presidente ha posto il veto a due tentativi del parlamento di aumentare la spesa per pensioni e per l’università. Per Milei, qualsiasi concessione di spesa in disavanzo potrebbe innescare un effetto domino che comprometterebbe il pareggio di bilancio, il totem della politica economica.

Non a caso il primo articolo della legge di bilancio 2025 stabilisce che il settore pubblico dovrà ottenere un risultato finanziario in pareggio o in surplus. Per una eventuale riduzione delle entrate, le spese dovranno essere diminuite nella stessa proporzione.

Nonostante i drastici tagli, i primi mesi di governo sono stati caratterizzati da un ampio sostegno popolare, oltre il 45 per cento. È un appoggio cruciale per un governo che non dispone di una maggioranza parlamentare. Finora Milei ha rappresentato, a torto o a ragione, l’illusione che l’economia possa tornare a crescere dopo un decennio di stagflazione.

Nei primi mesi della sua gestione si è registrata un’inevitabile caduta del Pil, ma l’indice destagionalizzato dell’attività economica di luglio è già tornato in linea con il dato di dicembre. Secondo la banca mondiale, il 2024 registrerà una caduta del Pil del 3,5 per cento e una crescita del 5 per cento nel 2025.

Il rallentamento dell’inflazione e la tenuta dell’attività economica hanno fatto scendere il rischio paese attorno ai 1100 punti. Un livello ancora alto che rende proibitivo il finanziamento sui mercati. Ma se la tendenza ribassista dovesse confermarsi, l’Argentina potrebbe tornare presto a finanziare un eventuale deficit attraverso l’emissione di debito, Milei permettendo.

A quasi un anno dall’inizio della presidenza Milei, l’Argentina ha intrapreso un doloroso ma necessario percorso di stabilizzazione economica. Il rallentamento dell’inflazione e la sostanziale tenuta dell’attività economica sono segnali incoraggianti, ma rimangono le fragilità strutturali e un cronico tasso di povertà salito al 52 per cento.

Tuttavia, è difficile attribuire a Milei la responsabilità delle attuali difficoltà economiche del paese. La causa dei mali per l’Argentina risiede in anni di politiche fiscali e monetarie insostenibili, terminati con un decennio di stagflazione. Invertire la rotta non è un processo né facile né immediato.

L’”October Surprise”, la sorpresa dell’ultimo momento che può cambiare le elezioni (lavocedinewyork.com)

di  Anna Guaita

Scandali, rivelazioni di documenti segreti, 
avvenimenti internazionali hanno alle volte 
influito sui risultati

“La pace è a portata di mano”.

Era la mattina del 26 ottobre 1972, due settimane prima delle presidenziali Nixon-McGovern, e Henry Kissinger sganciava su un’America stanca della guerra in Vietnam questa ottimistica notizia che rafforzava la posizione elettorale del presidente. In realtà, l’accordo di pace di Parigi fra gli USA e il Vietnam del Nord era ancora mesi di là da venire.

Ma quelle parole  ebbero l’effetto di distrarre l’opinione pubblica dallo scandalo Watergate che era già iniziato, e stava cominciando a lambire Richard Nixon in modo significativo. Nixon vinse facilmente contro il rivale George McGovern, un democratico progressista e pacifista.

Le parole di Kissinger sono oggi considerate un perfetto esempio di “October surprise”, una “sorpresa di ottobre”, un evento cioè che avviene a ridosso delle elezioni e che ha l’effetto – voluto o accidentale – di influenzare l’opinione pubblica e spostare voti.

L’October surprise non è una novità degli ultimi decenni, ce ne sono stati anche nell’Ottocento, ma dal secondo Novecento a oggi sono diventati sempre più frequenti, aiutati dalla diffusione dei mass media, l’ascesa delle Tv di news 24/24 e di Internet.

La maggior parte degli elettori a ottobre ha già deciso per chi votare, soprattutto in elezioni in cui i due candidati siano così diversi l’uno dall’altra come quelle di quest’anno. Ma è un dato confermato dai sondaggi che gli October surprise possono risultare particolarmente efficaci presso gli indecisi, e che nella storia moderna hanno spesso avuto un peso nel determinare una vittoria o una sconfitta.

Non è detto che le “sorprese” debbano essere solo negative e contrastare un candidato. Per  esempio il 30 ottobre 1992 quando il democratico Bill Clinton correva per la presidenza contro il presidente repubblicano in carica, George Bush senior, che cercava la rielezione, l’ufficio del procuratore speciale annunciò che stava chiudendo le indagini sul suo coinvolgimento nello scandalo immobiliare di Whitewater, una controversia che era stata rovente per gran parte della campagna elettorale.

La decisione contribuiva a dissipare i sospetti sull’integrità del 46enne governatore dell’Arkansas, proprio prima che gli elettori si recassero alle urne.

L’October surprise può includere scandali, rivelazioni di documenti segreti, accuse specifiche contro i candidati o inattesi eventi internazionali. Nel 2004 ad esempio fu un intervento estero a cadere come un masso sulle elezioni americane: il 29 ottobre, a pochi giorni dalle presidenziali tra il presidente George W. Bush e lo sfidante democratico John Kerry, il canale Tv Al Jazeera trasmise un video in cui Osama Bin Laden si assumeva la responsabilità degli attacchi dell’11 settembre.

La pubblicazione del video ebbe un impatto significativo negli ultimi giorni della campagna elettorale, ricordando agli elettori la minaccia del terrorismo e facendo balzare in avanti di sei punti la popolarità di Bush.

Nel 2016 si incrociarono rivelazioni sia contro Donald Trump che Hillary Clinton: poco prima delle elezioni, il Washington Post portò a galla un video del 2005 in cui Trump, durante una conversazione con il conduttore televisivo Billy Bush, faceva commenti volgari e sessualmente espliciti su come approcciava le donne.

La frase più controversa del video fu “Grab them by the pussy” (“Prendile per la vagina”), una dichiarazione che implicava comportamenti predatori. Trump si scusò con il pubblico americano, e cercò di minimizzare l’incidente definendolo “chiacchiere da spogliatoio”. Ma ad agitare le acque a suo favore, il 28 ottobre, l’FBI annunciava la riapertura dell’indagine sull’uso da parte di Hillary Clinton di un server privato di posta elettronica quando era Segretario di Stato.

Il 6 novembre 2016, a soli due giorni dalle elezioni, Comey precisava che Hillary Clinton non doveva essere incriminata per l’uso del server privato. Ma la ex Segretario di Stato, che era in vantaggio prima della “sorpresa “ dell’Fbi, non si riprese in tempo e perse perfino in tre Stati tradizionalmente democratici, Michigan, Pennsylvania e Wisconsin.

E quest’anno? Al momento, la situazione rimane fluida, e nessuna delle notizie di questi giorni è una “sorpresa” . Ma le elezioni sono il 5 novembre… c’è ancora tempo

L'”October Surprise”, la sorpresa dell’ultimo momento che può cambiare le elezioni