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Giuli, nomine e riti (celtici) (corriere.it)

di Fabrizio Roncone

il racconto, il ministro dandy

Ha un tratto marinettiano, il ministro della Cultura Alessandro Giuli con il panciotto e la cravatta da dandy aristocratico.

Affronta le polemiche e salta la prima del film su Berlinguer alla Festa del cinema.

utti aspettiamo da oltre un’ora il ministro Giuli, qui, in platea, nella sala Sinopoli dell’Auditorium, dove la diciannovesima edizione della Festa del Cinema sta per cominciare, anzi dovrebbe cominciare con la proiezione del film Berlinguer – La grande ambizione , solo che lui non arriva, il nuovo ministro della Cultura non arriva e così tutti guardiamo l’orologio e chiediamo notizie alle signore del cerimoniale, chicchissime signore in tailleur con sguardi allibiti, mai successo prima, pazzesco, incredibile, allargano le braccia e allora ci tocca telefonare a un gentile sottoposto di Giuli, che risponde biascicando: «Sono… appena… uscito dal dentista. Però non faccio il portavoce, Giuli non ce l’ha. Io so solo che sta tornando da Francoforte. Poi, boh. Scusate… ma ho un dente in fiamme».

Siamo dentro un meraviglioso situazionismo, con lo sguardo che scorre sui numerosi politici di sinistra (da Veltroni a D’Alema, da Franceschini a Bersani, Boccia, Fratoianni, Speranza), su registi e attrici e attori di sinistra, compreso il protagonista, un Elio Germano bravissimo nel ruolo del mitologico segretario: ed è inevitabile che un ritardo così diventi, in puro cazzeggio, prima plot, materia per un soggetto cinematografico, e poi evolva.

Di colpo, divampa l’analisi politica. Si volta uno seduto accanto a Gianni Letta (il berlusconiano con più amici a sinistra): «Giuli doveva partire in anticipo, punto. Un ministro non può rischiare una figura simile. La verità è che questi arrivano al potere. Ma poi non sanno come ci si comporta al potere».

Beh, insomma.

Con il panciotto e il cravattino proprio da Giuli (dandy aristocratico, lui adora). E pure con il pizzetto brizzolato da Giuli (prima del suo, solo un pizzetto più famoso nella destra italiana: quello di Italo Balbo). Più il sorriso curiale e accogliente da Giuli, Alessandro Giuli sta arrivando, forse arriverà portandosi addosso tutto il suo personaggio, perché dopo appena 40 giorni da ministro della Cultura è già diventato un gran personaggio, per stile e voce soffiata, una certa allergia agli imperiosi desideri di Fratelli importanti (tipo La Russa e Fazzolari), tra ruvide polemiche, clamorosi ritardi e magnifiche supercazzole, anche se poi il personaggio non è comunque certo ancora «personaggione» come il predecessore, che nei giornali e dentro i talk ci ha fatto svoltare l’estate con quella storia sublime piena di politica, corna e ricatti (sempre grazie, Jenny).

D’accordo: ma Giuli viene a vederselo questo film, sì o no?

Chiacchiere, nell’attesa. Appunti mentali. Sono già successe tante cose. «La verità è che il processo di mostrificazione nei miei confronti è stato facile, perché si antipatizza in un attimo — spiegò, con ironia, a Brucoli, all’ultima convention di Fratelli d’Italia —. Ad esempio, sui riti celtici. L’ultima cosa che mi hanno detto, è stata: “Sul serio mangi fegato crudo?”. È una cosa che fanno i salafiti dopo avere squartato gli infedeli. Io, però, non sono altro che uno studioso di riti religiosi».

Beh, insomma.

Anche suonatore di flauto. Ex camerata di Meridiano zero, tra gente che menava. Ex ultrà della Roma. Una laurea in Filosofia prevista per primavera. Un brutto tatuaggio sul petto («Ma non è, come dicono, un’aquila fascista»). Collezionista di sigari pregiati.

Mai imparata tanto velocemente la biografia di un collega (è stato pure condirettore del Foglio , coccolato — raccontano — da un fuoriclasse assoluto come Giuliano Ferrara).

Giuli comunque vorrebbe essere qui, giurano. Mentre Gennaro Sangiuliano, un anno fa, cosciente che avrebbe rimediato ghigni e mugugni, lasciò che a fare il gran cerimoniere, a promettere che la destra di governo si sarebbe presa pure il cinema, fosse Federico Mollicone, presidente della commissione Cultura della Camera, un altro dandy di spicco tra i Fratelli, lui stasera addirittura in smoking e con bretella argentata.

Sangiuliano, di suo, per dimostrare che invece la nuova egemonia da qualche parte germogliava, si limitò a presenziare alla proiezione del film di Duilio Coletti, Divisione Folgore , appena restaurato (evitare commenti, please).

Giuli è molto più scaltro di quel simpatico borbonico, che andava in giro spiegandoci come persino Dante fosse di destra: Giuli è uno a cui da ragazzo il Movimento sociale faceva ribrezzo, lui voleva qualcosa di più estremo ed elitario, e adesso si sta scapicollando per venire a vedersi il film su Berlinguer dopo aver scritto un libro in cui teorizza che «Gramsci è vivo».

Giuli è affascinato dal paganesimo e però anche dal potere, e così s’è voluto rapidamente trasformare in protagonista, ma a modo suo; inaugurando la Buchmesse di Francoforte, poche ore fa, s’è esibito in un discorso assai conturbante: «Spazio alla libertà del dissenso, anche contro il governo…». A Palazzo Chigi, dove da tempo si sentono accerchiati: «Cioè, intendeva contro di noi?».

Stupore. Apprensione. Il tipo è irregolare. E spavaldo. Dovrebbe infatti essere chiaro a tutti — mettendoci un po’ di onestà intellettuale — che il contorto discorso da Conte Mascetti con cui ha illustrato alla Camera la sua idea di cultura («… la rivoluzione permanente dell’infosfera globale…») è stato scritto proprio per stupire. E provocare. Gesto plastico, marinettiano.

Insomma: li ha sfottuti. Ma non se ne sono accorti. Chiaro a tutti, invece, il comportamento adottato per sostituire Francesco Gilioli, il capo di gabinetto accusato di «intelligence» con i cronisti: ho scelto Francesco Spano e ci metto Spano, ci ho lavorato al MAXXI, mi fido di lui e voi — da Ignazio a Giovanbattista — potete avere tutti i dubbi che vi pare. Io me ne frego!

«Ma davvero ha detto così?». Vabbé. Qui, intanto, abbiamo cominciato senza di lui.

Sui migranti un richiamo all’Europa e ai suoi valori (avvenire.it)

di Paolo Lambruschi

La vicenda dei migranti liberati dalla magistratura 
dai centri albanesi è un richiamo per tutta 
l’Europa. 

Ricorda che vincerà le sfide che ha davanti – compresa, e forse soprattutto, quella dei flussi migratori – se resta sé stessa rispettando la propria storia e quindi la civiltà del diritto.

Al netto delle polemiche politiche, in attesa dell’esito dei ricorsi che presenteranno sia i 12 migranti contro il rigetto della domanda d’espulsione sia il governo verso il decreto del Tribunale di Roma che li ha liberati e riportati stamane in Italia, la giornata di ieri suggerisce alcune riflessioni.

La prima riguarda l’Italia e i partner europei, compresa la Gran Bretagna ormai esterna al perimetro dei 27 Stati dell’Unione. La magistratura italiana non è isolata: almeno due importanti decisioni dei giudici di altrettanti Paesi di primo piano hanno richiamato i propri governi al rispetto di questa civiltà giuridica.

Lo scorso febbraio il Consiglio di Stato francese, accogliendo come il tribunale di Roma il pronunciamento della Corte di Giustizia europea che aveva censurato i respingimenti forzati e collettivi in deroga a qualsiasi norma comunitaria e convenzione internazionale, ha messo dei paletti ai brutali respingimenti dei minori non accompagnati e al trattenimento notturno in stazione a Mentone delle famiglie da parte delle guardie di frontiera prima di rispedirli proprio a Ventimiglia dove ieri si è tenuto il vertice italo-francese.

Non si può dimenticare poi la sonora bocciatura dell’Alta Corte britannica alla legge del precedente governo conservatore che prevedeva in sostanza la “deportazione” dei richiedenti asilo in Ruanda, esternalizzando così alle autorità di Kigali persino l’esame delle domande di asilo.

Quindi il tribunale di Roma che, come era prevedibile, ora accoglie i rilievi sempre della Corte di giustizia europea sui Paesi considerati sicuri sulla carta (mentre la realtà dice altro) è in buona compagnia.

Non c’è insomma un giudice solo a Roma, e non è per forza invasione di campo. Ricorda alle cancellerie europee interessate all’“esperimento” italiano in Albania l’esistenza di un diritto internazionale umanitario solido e pensato non per favorire i migranti ma il cui scheletro risale al 1951 per tutelare soprattutto i tanti europei dell’Est che fuggivano dalle dittature comuniste oltre la cortina di ferro, in quei Paesi come l’Ungheria oggi paradossalmente in prima linea contro l’arrivo di profughi e rifugiati.

Occorre poi non abbandonare la via dell’umanità e del buon senso applicando la legge ai più vulnerabili. Chi infatti proviene dall’inferno della Libia, qualunque sia la sua nazionalità di origine, si porta dietro un passato fatto di detenzioni, torture e violenze da parte dei trafficanti, e per questo soffre regolarmente di stress post traumatici.

Ed è poi fondamentale determinare con certezza l’età dei minori non accompagnati, molti dei quali spariscono dai radar sulle rotte migratorie e diventano potenziali prede dei peggiori criminali, come trafficanti di organi, pedofili e sfruttatori sessuali.

Per farlo non basta, come dimostra la breve vicenda dei centri albanesi, qualche sommario accertamento in acque internazionali: il margine di errore è elevato, e non è consentito sbagliare. Questo accade perché l’Italia e i principali Paesi europei hanno ratificato le convenzioni internazionali che li obbligano a proteggerli.

La Corte di giustizia europea e i giudici nazionali ricordano ai cittadini che la dignità umana in Europa si rispetta in una cornice di civiltà e democrazia. Il caso Albania ci ricorda che i diritti dei deboli non sono mai diritti deboli.

Record povertà, tagliati i sostegni, il governo offre un caffè al giorno (ilmanifesto.it)

di Roberto Ciccarelli

Il caso I dati Istat 2023, 600 mila nuclei senza 
sussidio, in manovra c’è solo lo spot «Carta 
dedicata a te»: 

5,7 milioni di persone erano in «povertà assoluta» l’anno scorso.

Il bilancio sarà più pesante il prossimo per i tagli ai sussidi. Ne arrivano altri con la legge di bilancio, a cominciare dai servizi sociali. Il sit-in della Rete dei numeri Pari a Roma: “Un’altra agenda sociale è possibile”

In Italia nel 2023 c’erano 5,7 milioni di persone e 2,2 milioni di famiglie in condizioni di povertà assoluta a cui si aggiungono 8,5 milioni di persone e 2,8 milioni di famiglie che sono lavoratori poveri e vivono in una condizione di «povertà relativa».

Se i primi non riescono ad assicurare a sé, e alla propria famiglia, una vita dignitosa, i secondi non arrivano nemmeno alla fine del mese.

Così i figli di entrambi ereditano in maniera diversa la povertà che si manifesta in molteplici dimensioni: relazionale e dell’istruzione, senza contare quella energetica e l’altra legata all’impossibilità di affrontare spese impreviste perché i soldi non bastano mai. Oggi la povertà colpisce maggiormente le famiglie numerose e con figli minori, le famiglie operaie, quelle del Mezzogiorno, quelle in affitto e i migranti.

È il ritratto che emerge dal rapporto annuale pubblicato ieri dall’Istat sulla povertà in Italia. Si tratta della fotografia di una situazione in transizione. È probabile, infatti, che l’anno prossimo di questi tempi racconteremo una situazione peggiorata dal governo Meloni negli ultimi 12 mesi.

I dati potrebbero infatti registrare gli effetti dell’abolizione del cosiddetto «reddito di cittadinanza» e della sua rimodulazione nel doppio canale dell’assegno di inclusione e del supporto alla formazione e lavoro. Stando agli ultimi dati dell’Osservatorio dell’Inps il taglio delle risorse voluto dal governo Meloni pari a 1,1 miliardi al vecchio sussidio ha espulso più di 600 mila famiglie che hanno ricevuto almeno una mensilità del «reddito di cittadinanza» negli anni scorsi.

Nel primo semestre del 2023 erano in totale 1.324.104 nuclei, sono diventati 695.127 nello stesso periodo del 2024.

Le conseguenze di questa operazione, non priva di una ferocia ideologica più volte mostrata dagli esponenti della maggioranza a cominciare dalla presidente del consiglio Giorgia Meloni, sono state occultate. Nel sistema mediatico la povertà è andata fuori moda, salvo ieri in cui si è stata celebrata la «giornata mondiale per l’eliminazione della povertà».

Una responsabilità ce l’hanno anche le opposizioni che hanno preferito convergere sull’idea del salario minimo, respinta tra l’altro dal governo, e hanno abbandonato un progetto complessivo di rilancio del Welfare universale che va insieme alla lotta contro il lavoro povero e contro la precarietà.

La proposta avanzata ieri dall’Alleanza contro la povertà di un «reddito minimo europeo» – che potrebbe avere un immediata applicazione in Italia – arriva in un vuoto di elaborazione politica (ma non culturale) causato da una visione segmentata e categoriale del Welfare.

Nel frattempo Meloni ha insistito sui dati dell’occupazione che hanno registrato un aumento. In realtà si è trattato di lavoro povero e non riguarda in gran parte i poveri assoluti che sono tali anche perché non riescono a (ri)entrare nel mercato del lavoro.

La sovrapposizione di elementi eterogenei nella propaganda governativa è servita a separare l’argomento «povertà» da quello sul «lavoro povero». Ed è stata usata per dimostrare che i «poveri» oggi lavorano. Prima no, a causa dell’assistenzialismo.

In realtà i «poveri» non smettono di lavorare nella scandalosa economia sommersa che c’è in Italia. Infine Meloni ha rilanciato il mito dell’impresa, tanto cara alla destra postfascista neoliberale: va sussidiato l’imprenditore che «assume».

Il vero assistenzialismo è quello alle imprese. Alle destre piacciono le tradizioni. Eccone una. Qualcosa però non funziona nel magico mondo di Meloni & Co.

Lo ha dimostrato l’istituzione della «Carta dedicata a te» che sarà rifinanziata dalla prossima legge di bilancio con 500 milioni. È una misura incongrua e una tantum, da 500 euro a famiglia, che non può essere paragonata a una misura garantita. È pari a poco più di un caffè al giorno ed è rivolta a una minoranza di chi è stato escluso dallo governo dal «reddito di cittadinanza».

Si chiama pauperismo. L’umiliazione è la sua cifra. L’Italia è la sua «patria».

Rete dei Numeri Pari: Un’altra agenda sociale è possibile

«Il governo sta per varare una legge di bilancio pessima, ingiusta e inadeguata – ha detto Giuseppe De Marzo, coordinatore della Rete dei Numeri Pari in un sit-in ieri a piazza Capranica a Roma – Si può fare diversamente, come chiedono più di 700 realtà sociali che promuovono un’altra Agenda Sociale». Al sit in, organizzato in occasione della giornata mondiale per l’eliminazione della povertà e contro il Ddl sicurezza, hanno partecipato numerose reti sociali. Tra gli interventi quello di Gaetano Azzariti, Marina Boscaino e Maura Cossutta. «Con questo governo, il numero di persone aumenterà» ha detto Tino Magni (Avs). «Una situazione difficile con la destra che si oppone al salario minimo e vuole fare l’autonomia differenziata» ha aggiunto Marta Bonafoni (Pd).

Record povertà, tagliati i sostegni, il governo offre un caffè al giorno (Milano, in fila a “Pane Quotidiano” – Getty Images)

Chi ha paura di questa Commissione Antimafia? (ildubbio.news)

di Damiano Aliprandi

Il caso

Finché la Bicamerale si occupava delle “entità” andava benissimo. Ora non più…

È la prima volta in almeno 20 anni, tranne la parentesi di Ottaviano Del Turco come abbiamo raccontato sul Dubbio (e infatti è stato vittima del fuoco amico), che la Commissione parlamentare antimafia cerca di far luce sull’attività investigativa di Paolo Borsellino sugli affari della mafia con le grandi imprese e ciò che potrebbe aver appurato relativamente alla procura di Palermo quando affermò alla sorella di Falcone – leggasi verbale al Csm del 1992 – di aver scoperto «qualcosa di terribile». Siamo al paradosso. Finché le Commissioni antimafia si occupavano delle “entità” e non della mafia e delle collusioni, andavano benissimo.

Nessuna censura: è la Costituzione che stabilisce il conflitto di interesse

Ora, a leggere un incredibile editoriale di Marco Travaglio su Il Fatto, sono dei «delinquenti», colpevoli, come Chiara Colosimo, di voler approfondire la vicenda del dossier mafia- appalti e quindi degli ultimi atti di indagine svolti da Borsellino. Della mafia, quindi, non bisogna assolutamente parlarne quando si affronta la strage di Via D’Amelio. Altrimenti si è dei criminali.

Bisogna ringraziare sempre Travaglio, quando definisce «tragicomico» parlare di mafia- appalti come movente delle stragi. Grazie al direttore de Il Fatto, veniamo a sapere che Borsellino era un comico, invece di essere un serio e meticoloso magistrato. Il 6 luglio del 1992, a poco più di una settimana dalla strage, Borsellino disse allo scrittore Luca Rossi – recentemente confermato da quest’ultimo stesso in commissione antimafia che stava seguendo le indagini sull’omicidio di Falcone e che aveva un’ipotesi. Pensava che potesse esistere una connessione tra l’omicidio di Salvo Lima e quello di Falcone, e che il trait d’union fosse una questione d’appalti, in cui Lima era stato in qualche modo coinvolto e che Falcone stava studiando. Evidentemente, seguendo l’argomentazione di Travaglio, il giudice stritolato in Via D’Amelio doveva darsi all’ippica.

Resa dei conti in Antimafia: addio alla dittatura dei pm

Queste parole di Borsellino, in realtà, trovano un altro incredibile riscontro per comprendere appieno la sua affermazione. Sia lui sia Falcone avevano delle idee ben chiare sull’omicidio del maresciallo Giuliano Guazzelli e del parlamentare democristiano Salvo Lima. A rivelarlo è stato l’allora sostituto procuratore Vittorio Teresi.

Parliamo di un verbale di assunzione di informazioni del 7 dicembre 1992, in cui viene sentito dal pubblico ministero Fausto Cardella della procura di Caltanissetta. Il verbale sarà acquisito per la prima volta dalla Corte d’Appello di Palermo per il processo Trattativa conclusosi con la piena assoluzione degli ex Ros. «Insieme a Paolo Borsellino, seguivo le indagini relative all’omicidio del maresciallo Guazzelli – racconta Teresi innanzi al pm di Caltanissetta-; a questo proposito riferisco di quanto ho appreso da Paolo Borsellino: il maresciallo Guazzelli sarebbe stato il referente dei Ros e in particolare del generale Subranni nella provincia di Agrigento. Per questa sua qualità il maresciallo sarebbe stato un giorno avvicinato da Siino Angelo e da Cascio Rosario, nei confronti dei quali il Ros stava sviluppando un’indagine, al fine di indurlo ad attenuare la loro posizione nell’inchiesta».

Viva Colosimo: grazie a lei l’Antimafia non è più una succursale delle Procure!

Teresi prosegue: «Il maresciallo Guazzelli non solo avrebbe rifiutato di interporre suoi buoni uffici presso il Ros, ma addirittura avrebbe trattato in così malo modo il Siino e il Cascio, che il primo, uscito dalla casa del Guazzelli, si sarebbe sentito male». Ed ecco che Teresi spiega cosa gli raccontò Borsellino, ovvero che «andato a vuoto questo primo tentativo, il Siino si sarebbe rivolto all’onorevole Lima affinché questi intervenisse sul procuratore Giammanco tramite l’onorevole D’Acquisto al medesimo fine».

Non solo. «Borsellino – continua Teresi – però aggiunse di aver commentato queste notizie con Giovanni Falcone e che anche lui riteneva possibile che potessero avere una rilevanza, non solo ai fini della spiegazione dell’omicidio Guazzelli ma anche di quello dell’onorevole Lima».

Sintetizza Teresi innanzi al pm di Caltanissetta il 7 dicembre 1992: «In sostanza secondo l’opinione concorde di Paolo e Giovanni, l’onorevole Lima non sarebbe stato in grado o, peggio, non avrebbe voluto influire sulla procura di Palermo per alleggerire la posizione di Siino ( tant’è che questi fu arrestato)».

Attenzione, secondo la ricostruzione dell’avvocato Fabio Trizzino in Commissione antimafia, ma anche quella riportata nelle motivazioni della sentenza d’appello sulla trattativa, questa vicenda potrebbe essere stata la confidenza, anche se generica, che Borsellino fece all’attuale senatore grillino e commissario dell’antimafia Roberto Scarpinato. Ed è incredibile che ancora ci si domandi del perché si sia posta la questione di opportunità sulla presenza dell’ex procuratore.

Così come comincia ad essere singolare che si definisca «tragicomico» affermare che la questione del dossier mafia- appalti sia il movente principale, quando a stabilirlo è stata una sfilza di giudici, in merito a tutti i processi sulla strage di Capaci e Via D’Amelio.

Chi ha paura di questa Commissione antimafia?