Le ombre della disinformatia russa sul voto in Moldavia. L’analisi di D’Anna (formiche.net)

di Gianfranco D’Anna

Fino all’ultimo l’intelligence di Mosca ha 
tentato di sovvertire l’esito del referendum 
per sancire l’adesione all’Europa della Moldavia 
ed impedire la riconferma della presidente uscente. 

L’analisi di Gianfranco D’Anna

Precedute da settimane di disinformatia, i contorni delle ombre russe si stagliano con evidenza dietro l’incertezza e le contraddizioni dei risultati del referendum sull’Europa e delle elezioni presidenziali della Moldavia.

Sull’esito del referendum per decidere se modificare la Costituzione per consentire alla Repubblica di Moldavia di entrare nell’Unione europea, nonostante le più che favorevoli previsioni della vigilia, incombe la spada di Damocle del riconteggio delle schede e dei ricorsi perché i Si avrebbero prevalso col 50,3% per poche centinaia di voti.

Previsioni di una netta affermazione clamorosamente smentite anche per la riconferma della presidente europeista, Maria Sandu, che invece di prevalere come previsto dai sondaggi al primo turno è stata costretta al ballottaggio di novembre col candidato filo-russo Alexsandr Stoianoglo.

Si tratta di un doppio esito elettorale in grado di incanalare in un verso o nell’altro le prospettive internazionali ed economiche della giovane repubblica moldava e di rappresentare come uno spartiacque senza ritorno per la storia del Paese ex sovietico che ha patito carestie, repressioni e persecuzioni staliniste.

Bruxelles ha infatti concesso alla Moldavia lo status di candidato all’ingresso nell’Unione Europea a condizione che la scelta venisse ratificata da un referendum decisivo per il processo di adesione da parte di Chișinău.

Un eventuale Niet all’Europa della Moldavia potrebbe avere ripercussioni anche per quanto riguardo la guerra in Ucraina, in relazione alla regione separatista della Transnistria che ospita un caposaldo dell’Armata Russa.

Autoproclamatasi Repubblica di Pridnestrovie, la Transnistria è un’enclave che non è riconosciuta dalle Nazioni Unite, ma formalmente è uno Stato indipendente, con Parlamento, moneta ed esercito. Popolato in larga parte da russofoni, è sostenuto militarmente ed economicamente dalla Federazione Russa, tanto che Gazprom gli assicura l’approvvigionamento energetico senza richiedere in cambio alcun pagamento: un modo per creare una totale dipendenza ed assicurarsi un trampolino di lancio militare nel cuore dell’Europa sud-orientale.

Ragione per cui i moldavi, e la confinante Romania, temono che, dopo l’Ucraina, la Russia possa invadere anche loro.

Sulla pesante intromissione russa nella doppia tornata elettorale esisterebbero prove documentate che hanno determinato l’arresto di circa 300 persone che nelle scorse settimane sarebbero andate in Russia, in Bosnia e in Serbia per ricevere una sorta di addestramento su come rompere i cordoni della polizia e creare caos pubblico.

Il caso Transnistria e le forniture gratuite di gas, rappresentano due elementi che si intrecciano geopoliticamente con le urne moldave. Secondo Olga Roşca, consigliera di politica estera della Presidente Sandu, la Russia ha finanziato vari esponenti e formazioni politiche per interferire nelle elezioni e, più in generale, nel processo democratico moldavo.

I riscontri più dettagliati vengono forniti dal capo della polizia, Viorel Cernăuțanu, secondo cui Mosca avrebbe corrotto 130.000 moldavi, per votare contro il referendum e a favore di candidati favorevoli alla Russia in quello che ha definito un “attacco diretto senza precedenti”.

L’incubo della Moldavia è che senza l’ingresso del Paese nell’Ue scatti l’effetto domino del Cremlino, già evidente col ruolo di convitato di pietra assunto da Vladimir Putin.

Il lungo anteguerra, termine che ha scandito il presente del Novecento (ilfoglio.it)

di Adriano Sofri

Un tempo indicava una promessa, l'aspettativa 
dell'adempimento di destini nazionali e imperiali. 

Oggi invece fotografa uno stato talmente angoscioso da far ripudiare con disgusto anche coloro i quali sono stati invasi e forzati a battersi

Sabato scorso ero a Pisa, alla Scuola Normale, che ospita l’Internet Festival. Contento per il luogo e la compagnia: Patrick Zaki, che sta per cominciare un dottorato in Normale, e tre giovani studiose di migrazioni, procedure di pace, comunicazioni, Chiara Milan, Elena Pasquini e Leandra Borsci. 

Il nostro tema era quello, guerra e pace. In un punto, una delle interlocutrici ha nominato dei dati riferiti al dopoguerra. E d’un tratto la parola così usuale, dopoguerra, mi è sembrata strana e inquietante e destinata ad avvertire che ci troviamo nell’anteguerra.

Ci ho pensato su. Dopoguerra è un nome facile da maneggiare, ha un ovvio significato cronologico, e ne prende uno meno ovvio quando indica uno spirito pubblico di rinascita, di recupero, in Italia specialmente, dove lo facciamo coincidere col miracolo economico. Il dopoguerra è un presente avvertito vitalmente, famelicamente, come tale.

L’anteguerra è un passato. Ho controllato, salvo errore la parola fa la prima comparsa registrata da noi solo nel 1922. E’ riferita dunque alla Prima Guerra – salvo essere spodestata dal riferimento alla Seconda – così come le corrispondenti avant-guerre (che è femminile), pre-war, vor-krieg, preguerra… (ci sono parti del mondo in cui anteguerra e dopoguerra riguardano altre guerre, in altre date).

L’anteguerra europeo, quello prima del 1914, prese dalla Francia il nome di Belle Époque, anche quello postumo, e nostalgico. C’era stato per l’Europa un raro periodo di pace, 43 anni – più breve rispetto a quello dopo il ’45, fino alla ex Jugoslavia, chi se ne ricordi, o all’Ucraina.

E’ sempre dubbio se la pace sia un intervallo fra le guerre, o viceversa. Fu certo un intervallo la pace fra il 1918 e il 1939, e le due guerre come una sola nuova guerra dei trent’anni. Gli anni Trenta del Novecento furono in realtà segnati da un bullismo guerrafondaio, e costellati già, da noi, dalle brutali guerre colonialiste e razziste in Libia, in Etiopia, fino all’Albania.

Allora si visse davvero in un anteguerra, e si pretese di farlo sentire come una promessa, l’aspettativa dell’adempimento di destini nazionali e imperiali.

E oggi? Oggi l’Europa, vinta da un meraviglioso spirito imbelle, guarda attonita alla furia delle guerre che le esplodono dentro e attorno, come chi veda fallire il vaccino cui aveva confidato il privilegio della propria immunità. Anche quando erano vicine e immani, anche quando erano mezzo milione di morti in Siria e una risacca di scampati alle proprie rive, se ne credeva al riparo. Viveva in un dopoguerra senza fine, senza scadenza.

Ora, non una guerra, non le guerre, ma “la” guerra, la minaccia, e le fa paura, solo paura. Non c’è nessun orizzonte di promesse e destini che la guerra disegni per gli europei, come per chi abbia, e se ne ricordi di colpo, il privilegio della pace e del benessere. L’anteguerra, così angoscioso da far ripudiare con disgusto e viltà anche coloro i quali sono stati invasi e forzati a battersi.

Che cosa fa una persona, un popolo, un continente, quando avverte di non vivere più in un dopoguerra, in un tempo di pace, in una distanza, ma in un anteguerra sempre più accorciato? L’abbiamo usato solo a posteriori, il nome di anteguerra. L’abbiamo riservato a frasi come le bici d’anteguerra, le automobili d’anteguerra, le contesse d’anteguerra.

Quanto al suo significato peculiare, l’abbiamo congedato. Mi sono ricordato di uno, un poeta, uno cui ero stato vicino tanto tempo fa, si chiamava Gianfranco Ciabatti, era nato nel 1936, è morto, dunque troppo presto, nel 1994. Sulla scorta di Bertolt Brecht e della sua “Kriegsfibel”, da noi “ABC della guerra”, che era un sillabario per immagini della Seconda guerra, Ciabatti scrisse per anni una rubrica di fotografie e poesie su una rivista, “La contraddizione”.

Era intitolata “Abicì d’anteguerra”. E con questo titolo immagini e poesie vennero raccolte in volume, postumo, nel 1997, con una premessa di Sebastiano Timpanaro.

Ciabatti aveva deciso che il suo e nostro presente fosse un anteguerra. Ma lui era un poeta.