La preoccupante ascesa delle organizzazioni giovanili in Russia (linkiesta.it)
Figli di Putin
Negli ultimi anni, milioni di ragazzi hanno aderito a gruppi di formazione sponsorizzati dal Cremlino. Dal Movement of the First al Young Army, diverse associazioni promuovono il sostegno al governo e la difesa militare della madrepatria
(AP/Lapresse)
Sono i giovani il principale bersaglio della propaganda interna di Vladimir Putin in Russia. Dall’inizio dell’invasione dell’Ucraina, il Cremlino ha moltiplicato gli investimenti e le iniziative nei confronti delle nuove generazioni. Il piano per i «progetti patriottici» di quest’anno ha superato i cinquecento milioni di dollari di spesa. Incentivando lo sviluppo di corporazioni nazionaliste e finanziando campagne di indottrinamento giovanile, Mosca ha dimostrato – una volta di più – di voler esercitare un controllo sulle menti dei suoi figli.
Al momento, in Russia ci sono diverse organizzazioni giovanili legate a doppio filo con il regime. L’obiettivo di questi gruppi è quello di trasmettere a bambini e adolescenti russi la dottrina del Cremlino. Fare in modo, cioè, che sempre più giovani aderiscano agli ideali imperialisti di Putin e contribuiscano attivamente alla guerra contro Kyjiv.
La Russia, impegnata da due anni e mezzo nel conflitto in Ucraina, ha infatti bisogno di soldati, specialisti IT e operai dell’industria bellica, nonché di una generazione obbediente e acritica nei confronti del potere, come ben descritto da Ian Garner nel libro “Figli di Putin” edito da Linkiesta Books.
Far parte delle associazioni giovanili ha dei vantaggi notevoli in un regime autocratico come quello di Putin. Di fatto, come spiega il Washington Post, in Russia chi è membro di questi gruppi e aderisce chiaramente alla linea del governo gode di privilegi e riceve compensi dallo Stato; chi invece mostra anche solo un guizzo di dissenso può essere denunciato alle autorità dai suoi coetanei e può andare incontro alla prigione o all’esilio.
I due gruppi giovanili più importanti in Russia sono Young Army (Younarmia) e Movement of the First. Entrambi presentano molte somiglianze con corporazioni di epoca sovietica, come Young Pioneers e Little Octobrists, che avevano la funzione di educare bambini dai nove ai quattordici anni all’ideologia comunista, attraverso letture e attività ricreative.
Lo stadio successivo, fino ai ventotto anni, era rappresentato dal Komsomol, una grande organizzazione giovanile nata dall’aggregazione di gruppi di ragazzi che avevano preso parte alla Rivoluzione del 1917. La partecipazione a questa associazione era decisiva per ambire a posizioni di leadership nel Partito Comunista.
Young Army è stata realizzato dal ministero della Difesa russo nel 2016 – due anni dopo l’invasione della Crimea – per preparare i giovani alla guerra contro l’Occidente. Sul sito dell’associazione sono dichiarati nel dettaglio gli obiettivi perseguiti. Innanzitutto, ci si concentra sullo «sviluppo completo e il miglioramento della personalità dei bambini e degli adolescenti, soddisfacendo le loro esigenze individuali in campo intellettuale, morale e fisico». Inoltre, vengono insegnati «l’autorità e il prestigio del servizio militare nella società», al fine di «preservare e rafforzare le tradizioni patriottiche».
Infine, oltre a preparare al mestiere del soldato, la partecipazione a Young Army permetterebbe ai suoi membri di «combattere le ideologie estremiste, sviluppare il senso di responsabilità e formare una base morale fondata sulle tradizioni russe». Negli ultimi anni il gruppo si è allargato notevolmente e oggi conta circa un milione e seicentomila di membri, tra bambini e adolescenti, provenienti da tutto il Paese.
Movement of the First, invece, è nato nel 2022, quasi in concomitanza con l’inizio della cosiddetta «operazione militare speciale» (di fatto, un’invasione) condotta da Putin in Ucraina. Per la precisione, la sua fondazione è stata fissata il 14 giugno, esattamente cento anni dopo la nascita di Young Pioneers, a voler illuminare simbolicamente il filo rosso con quel movimento (piccola nota: nel dicembre 2023 Putin aveva proposto di ripristinare nel nome del gruppo il termine “Pioneers”, ma poi ci aveva ripensato).
Con il gruppo comunista, quello attuale condivide il deciso afflato nazionalista e la forte dipendenza dal governo centrale. Sul sito di Movement of the First si legge: «I partecipanti al movimento sono uniti alla Patria da un unico destino. Ognuno di loro è al proprio posto, si prepara a servire la Federazione Russa e alla responsabilità per il suo futuro».
Da questo obiettivo non sono esclusi i giovani ucraini delle regioni occupate dall’esercito russo. Le prime sedi dell’associazione sono infatti state aperte in Crimea e a Kherson, e nel luglio del 2023 i bambini e i ragazzi ucraini inseriti nel Movement of the First erano oltre ventiduemila.
L’associazione riceve annualmente oltre duecentosei milioni di dollari dal Cremlino – una spesa equivalente ai bilanci militari di alcuni Paesi europei, come Lettonia e Georgia. I fondi vengono investiti in attività culturali e di formazione tecnico-militare. In particolare, si tengono corsi per la fabbricazione di candele da trincea, per la tessitura di reti mimetiche e per la realizzazione e l’utilizzo di droni.
Come parte dei programmi di indottrinamento, inoltre, vengono organizzati dei “Dialoghi con gli eroi”, degli incontri con i partecipanti alla cosiddetta «operazione militare speciale», durante i quali viene glorificata la partecipazione dei soldati alla guerra contro l’Ucraina. Un lavaggio del cervello, di fatto, eseguito per convincere bambini e adolescenti russi a sostenere la politica imperialista del Cremlino.
Lo scorso febbraio, durante un evento organizzato dal gruppo, Putin aveva detto che il Movement of the First costituiva un «enorme esercito», riferendosi al fatto che il gruppo contasse ben quattro milioni e settecentomila membri e alludendo – neanche troppo velatamente, per la verità – alla vocazione militarista dell’associazione. «Volevamo mostrare qui cosa ha fatto il nostro paese negli ultimi dieci, quindici, vent’anni. E abbiamo qualcosa di cui essere orgogliosi», aveva poi aggiunto.
Quello che Putin ha salutato come una conquista è il risultato di anni di propaganda e repressione della libertà ai danni delle nuove generazioni russe. L’invasione dell’Ucraina non ha fatto che peggiorare una situazione che andava avanti da almeno un decennio, e che ha conosciuto un deciso incremento a partire dal 2018.
È attorno a quell’anno, infatti, che Putin ha assunto un atteggiamento più pressante nei confronti dei giovani, per effetto dell’ascesa di Alexei Navalny, fonte d’ispirazione per una generazione che nel proprio Paese non aveva visto altro che un leader autocrate al potere.
Se fino a quel momento i giovani russi avevano tollerato – in maniera più o meno passiva – il sistema politico di Putin, con Navalny iniziarono a voltare le spalle al governo e ad aprirsi a nuove alternative. La risposta del Cremlino fu netta: iniziò a contendersi con l’opposizione quella generazione, sfoderando l’arma del patriottismo.
Le organizzazioni giovanili nazionaliste ricevettero un deciso supporto economico dallo Stato e venne stimolato l’interesse per il servizio militare come trampolino di lancio per una carriera di successo.
Il piano di Putin mirava a riconquistare la fiducia di quei giovani russi a cui Navalny aveva mostrato un mondo diverso dalla Russia in cui vivevano. Nei confronti di chi si opponeva, il leader del Cremlino fu brutale: media indipendenti vennero chiusi, e le proteste soffocate. Chi poteva invece lasciava il Paese. Sempre di meno, col passare degli anni e la climax di potere del Presidente russo, le voci dei giovani dissidenti riuscirono a lasciare il segno.
Nel contesto dell’invasione in Ucraina, dal febbraio 2022, l’iniziativa di Putin nei confronti delle nuove generazioni ha avuto gioco ancora più facile. Da un lato, infatti, la pervasiva propaganda bellica e gli alti pagamenti garantiti dall’arruolamento (fino a cinquantacinquemila dollari all’anno per un cadetto) hanno spinto molti giovani a imbracciare le armi.
Tra le centonovantamila persone che, secondo i dati ufficiali, hanno firmato contratti di servizio nel primi sei mesi del 2024, è probabile che una buona quota sia formata da persone tra i diciotto e i trent’anni (non si può sapere il dato esatto perché non è nota l’età dei volontari).
Dall’altro lato, la presenza di connazionali (e talvolta coetanei) al fronte ha contribuito a gettare benzina sul fuoco del patriottismo fra i più giovani che sono rimasti a casa. Un sondaggio condotto a luglio da Levada Center, un’organizzazione russa indipendente, ha mostrato che il sessantasei per cento dei ragazzi di età compresa tra diciotto e ventiquattro anni si è detto a favore delle azioni dell’esercito in Ucraina.
Di fatto, «questa nuova generazione viene cresciuta con l’idea che l’Occidente ci odia», ha dichiarato al Washington Post un ex alto funzionario del Cremlino che opera ancora negli ambienti governativi. «Ora tutti, compresi i giovani, devono essere a favore della guerra, dei valori tradizionali e della religione. Bisogna essere patriottici».
Accanto alle attività proposte dalle organizzazioni giovanili, un ruolo decisivo per la formazione della nuova versione dell’homo sovieticus voluto da Putin ce l’ha l’istruzione. Da settembre 2022, pochi mesi dopo l’inizio dell’invasione ucraina, in tutte le scuole della Russia e dei territori occupati è stata introdotta un’ora settimanale chiamata «Conversazioni sulle cose importanti», in cui vengono esaltati i valori tradizionali e l’ideologia russa in contrapposizione all’Occidente, ritenuto decadente per i diritti civili, il femminismo e le libertà di espressione.
A partire dall’anno successivo, inoltre, sono stati stampati e resi obbligatori nuovi manuali di storia per le scuole superiori. I testi propongono un’interpretazione degli eventi fortemente intonata alla retorica del Cremlino: glorificano il nazionalismo russo e riabilitano i crimini commessi sotto Iosif Stalin.
Rimossi dai programmi di letteratura, invece, i romanzi “1984” di George Orwell e “Il mondo nuovo” di Aldous Huxley. In Russia la distopia è già realtà.
LAVORO, SICUREZZA QUELLA RIFORMA «CANCELLATA» (corriere.it)
di Pietro Ichino
Come ieri, dopo le due morti a Bologna, e oggi dopo
le altre due sull’Autostrada del Sole, a ogni
infortunio grave sul lavoro i media condannano,
i sindacati protestano, le autorità promettono
un rafforzamento delle attività ispettive.
Ma nessuno dice che il primo passo per questo rafforzamento sarebbe costituito dalla riorganizzazione unitaria degli ispettori del lavoro, attualmente ripartiti in quattro organici distinti e tra loro scollegati: quello del ministero, quello dell’Inps, quello dell’Inail e quello delle ASL.
L’unificazione e riorganizzazione almeno dei primi tre in una struttura denominata Ispettorato Nazionale del Lavoro erano previste da uno dei decreti attuativi del Jobs Act, il n. 149 del 2015; e sarebbero state indispensabili per ridare autorevolezza all’attività ispettiva, recuperando un’efficacia che non si misura sul numero delle ispezioni, concentrando la presenza degli ispettori là dove oggi essa è davvero indispensabile.
Senonché a nove anni di distanza quella norma di legge non è mai stata attuata: hanno prevalso le resistenze interne degli apparati a ogni cambiamento organizzativo; e i tre corpi amministrativi sono rimasti separati. Subito dopo la strage del 16 febbraio scorso in un cantiere di Firenze, nel decreto-legge n. 19 è stato aggiunto un articolo 31 contenente norme per «L’efficientamento dell’Ispettorato del Lavoro».
Finalmente, pur con nove anni di ritardo, viene attuata la norma del 2015 per una radicale riorganizzazione del lavoro degli ispettori? No: la norma prevede solo uno stanziamento di 20 milioni per «misure di efficientamento» non meglio precisate.
Ma la beffa sta nel comma 12 — l’ultimo, accuratamente nascosto in fondo all’articolo — che prevede… il «ripristino dei ruoli ispettivi dell’Inps e dell’Inail» come ruoli a sé stanti, cioè l’abrogazione di quanto disposto per la riorganizzazione unitaria del servizio dal decreto legislativo del 2015.
La nuova norma, beninteso, non porta alcun mutamento organizzativo reale: all’indomani della strage di Firenze, essa interviene soltanto a sancire il successo finale della resistenza sorda degli apparati a quanto era stato disposto dalla legge nove anni prima.
Con buona pace dei morti, dei loro familiari e dell’opinione pubblica alla quale era stata promessa una misura di rafforzamento della prevenzione antinfortunistica.
No comment
Dopo due anni il governo deve ancora attuare l’80 per cento del suo programma (pagellapolitica.it)
Promessometro
«In questi due anni il nostro governo ha lavorato instancabilmente per attuare il programma con il quale ci eravamo presentati di fronte agli italiani e sul quale avevamo ottenuto la fiducia di molti di loro alle elezioni del 25 settembre 2022». Così, in un video pubblicato sulle sue pagine social, la presidente del Consiglio Giorgia Meloni ha celebrato il secondo anniversario dell’insediamento del suo governo, avvenuto il 22 ottobre 2022.
Ventiquattro mesi dopo, a che punto è davvero l’attuazione del programma elettorale della coalizione di partiti che sostengono il governo Meloni? Abbiamo analizzato i 100 impegni principali presi con gli elettori da Fratelli d’Italia, Lega, Forza Italia e Noi Moderati prima del voto del 25 settembre 2022: 21 promesse sono state portate a termine, mentre per 20 il governo ha fatto poco o nulla per mantenere fede alla parola data.
L’attuazione di 52 promesse è ancora in corso, mentre il governo ha già compromesso l’attuazione di sette impegni. Rispetto al primo anno di governo, c’è stato un avanzamento delle promesse rispettate, ma contemporaneamente c’è stato un aumento di quelle compromesse.
Il programma elettorale della coalizione di governo, pubblicatoad agosto 2022, è diviso in 15 capitoli, che vanno dalla politica estera ai giovani, passando per la sanità, il fisco e il lavoro. In ogni capitolo la coalizione ha elencato i traguardi da raggiungere una volta arrivata alla guida del Paese.
Abbiamo controllato, trascorsi esattamente due anni dall’insediamento, a che punto è l’attuazione del programma. Ricordiamo che una legislatura dura cinque anni e l’attuale scadrà a ottobre 2027: se non ci saranno crisi di governo e i partiti della maggioranza resteranno uniti, il governo Meloni avrà ancora tre anni a disposizione per rispettare gli impegni presi con gli elettori.
Abbiamo suddiviso le cento promesse principali del programma del governo Meloni in quattro categorie, a seconda del loro stato di avanzamento. Abbiamo considerato come “Mantenute” tutte le promesse per cui il governo ha preso provvedimenti concreti e definitivi per tenere fede alla parola data.
Tra le promesse “Non mantenute”, invece, rientrano gli impegni per la cui attuazione il governo o i partiti in Parlamento hanno fatto finora poco o nulla. Abbiamo poi considerato come “In corso” le promesse per cui il governo o i partiti che lo sostengono hanno ottenuto alcuni risultati, sebbene non definitivi per riuscire a rispettare del tutto la parola data agli elettori.
Infine, abbiamo isolato le promesse “Compromesse”, ossia quelle per cui il governo ha fatto l’opposto di quanto promesso o ha preso provvedimenti che ne rendono più difficile la realizzazione. Sottolineiamo che non tutte le 100 promesse contenute nel programma di governo sono confrontabili tra loro per importanza: detto altrimenti, non tutte le promesse hanno lo stesso peso politico o richiedono lo stesso sforzo per essere portate a termine.
Ma su questo fronte non abbiamo fatto valutazioni: preferiamo lasciarle alle nostre lettrici e ai nostri lettori, visto che richiedono un giudizio più soggettivo (a questo link e nella tabella sotto si possono consultare le nostre analisi, promessa per promessa).
Tra le 21 promesse “Mantenute” ci sono alcune delle misure di bandiera del programma del governo: l’eliminazione del reddito di cittadinanza, sostituito dall’assegno di inclusione e dal supporto per la formazione e il lavoro; il taglio del cuneo fiscale per i lavoratori, che in base agli annunci del governo sarà reso strutturale dalla legge di Bilancio per il 2025; la revisione del Piano nazionale di ripresa e resilienza (Pnrr), confermata dalle autorità europee alla fine del 2023; l’approvazione della cosiddetta “pace fiscale” per agevolare i contribuenti non in regola con il fisco; l’aumento dell’assegno unico e universale, destinato alle famiglie con figli; l’introduzione di nuovi incentivi per le assunzioni dei lavoratori, tra cui donne e giovani; l’aumento dell’estrazione di gas naturale in Italia; l’innalzamento del limite all’uso del denaro contante, portato a 5 mila euro; la tutela del Made in Italy; e le norme più severe per chi commette atti contro il «decoro».
Anche tra le 52 promesse che sono “In corso” di attuazione ci sono alcuni dei provvedimenti principali promossi dal governo. Qui, per esempio, rientrano la riforma della giustizia, con le varie riforme del processo e del diritto penale, e del processo civile, per cui il governo e il Parlamento hanno già fatto passi in avanti; la realizzazione del ponte sullo Stretto di Messina, per cui è stato riavviato l’iter di costruzione; il sostegno all’Ucraina, a cui il governo ha inviato quattro pacchetti di armi, impedendone però l’uso per colpire obiettivi in territorio russo, a differenza di quanto fatto da altri Paesi della Nato e da quanto richiesto dal presidente ucraino Volodymyr Zelensky; la tutela degli interessi dell’Italia nella discussione sui dossier legislativi europei, con riferimento particolare a quelli legati alla transizione ecologica; e la gestione dell’immigrazione, con la creazione di hotspot in territori extraeuropei.
A ottobre sono stati aperti i due centri per migranti costruiti dall’Italia in Albania, ma il Tribunale di Roma ha subito deciso di non convalidare il trattenimento dei primi migranti salvati dalle autorità italiane e portati nei centri, perché ha considerato il trattenimento contrario alle norme europee. Il governo italiano ha annunciato ricorso e il 21 ottobre ha presentato un nuovo decreto-legge per permettere ai centri in Albania di rimanere operativi.
Tra le 20 promesse che il governo non è ancora riuscito a mantenere, perché ha fatto finora poco o nulla, spiccano: il «pieno utilizzo delle risorse del Pnrr», dato che la spesa del piano continua a essere in ritardo; l’estensione del regime forfettario al 15 per cento (impropriamente chiamato flat tax) per le partite IVA con un fatturato fino a 100 mila euro; la ridefinizione del sistema degli ammortizzatori sociali; la «salvaguardia della biodiversità, anche attraverso l’istituzione di nuove riserve naturali»; l’«allineamento ai parametri europei degli investimenti nella ricerca».
Infine, come detto, in due anni il governo ha compromesso l’attuazione di sette promesse fatte agli elettori. Per esempio, nel suo programma elettorale i partiti che sostengono il governo Meloni si erano impegnati per introdurre in Costituzione l’elezione diretta del presidente della Repubblica. Alla fine il governo ha presentato in Parlamento la riforma del “premierato”, ora all’esame della Camera, che propone invece l’elezione diretta del presidente del Consiglio.
Il governo aveva promesso di ridurre l’IVA sui prodotti per la prima infanzia: questo impegno è stato inizialmente rispettato con la legge di Bilancio per il 2023, ma successivamente il governo ha fatto marcia indietro dicendo che il taglio non aveva generato per le famiglie i risparmi sperati.
Un’altra promessa compromessa è quella per il «rimboschimento e piantumazione di alberi sull’intero territorio nazionale»: con la revisione del Pnrr, approvata alla fine del 2023, il governo ha ridimensionato infatti l’obiettivo di piantare 6,6 milioni di nuovi alberi entro il 2024. Compromessi sono finora altri due impegni: «favorire il rientro degli italiani altamente specializzati attualmente all’estero» e la «tutela della nautica e delle imprese balneari». Nel primo caso il governo ha rivisto le agevolazioni fiscali per il cosiddetto “rientro dei cervelli”, ossia i lavoratori laureati, i docenti e i ricercatori italiani residenti all’estero, rendendole meno favorevoli rispetto al passato.
Nel secondo caso, con il decreto “Infrazioni” ora all’esame del Parlamento, ha disposto che le concessioni balneari siano prorogate fino al 2027, per poi essere messe a gara. Questo decreto, le cui misure dovranno passare il vaglio dell’Ue, ha scontentato le associazioni di categoria degli imprenditori balneari.

La giusta opposizione alla legge che lacera la memoria culturale di Odessa (ilfoglio.it)
Piccola posta
Il governo militare della regione ha ordinato la rimozione materiale di diciannove statue e monumenti e l’abolizione dello status di protezione per numerosi altri. Ecco l’appello a Zelensky affinché rinvii le intempestive decisioni
Una lettera aperta “urgente”, firmata da 115 persone, donne e uomini, personalità delle lettere, delle arti, delle scienze, “sostenitori dell’Ucraina, uniti dalla preoccupazione per il futuro del paese e per il patrimonio culturale di Odessa”, è stata indirizzata alla sig.ra Audrey Azoulay, direttrice generale, e agli altri responsabili internazionali dell’Unesco, “affinché chiedano al presidente Volodymyr Zelensky di rinviare le decisioni intempestive riguardanti il patrimonio culturale di Odessa fino alla fine della guerra, quando potranno aver luogo consultazioni pubbliche”.
Le mie lettrici e i miei lettori conoscono la questione. Invocando la nuova legge “Sulla condanna e il divieto della propaganda della politica imperiale russa in Ucraina e la decolonizzazione della toponomastica”, il governo militare della regione ha ordinato la rimozione materiale di diciannove statue e monumenti e l’abolizione dello status di protezione per numerosi altri. Ha inoltre ordinato la cancellazione e la sostituzione di molte decine di nomi di strade e di piazze.
Il decreto è venuto senza alcuna consultazione dei cittadini, che peraltro sarebbe difficile da immaginare – così come le elezioni – in città svuotate di gran parte dei propri residenti, e nella condizione strenua della guerra. Consultazioni informali, compresa quella indetta “privatamente” dal sindaco Trukhanov (“Si distrugge il dna di Odessa.
Si sta consegnando la gloria della città nelle mani di Putin”), e quelle promosse da cittadini su Telegram e altri social, hanno mostrato il dissenso largo e addolorato da misure che sfigurano Odessa e la sua storia aperta e cosmopolita. Nel dicembre del 2022, ancora il primo anno di guerra, riferendo lo smantellamento del monumento a Caterina II e ai quattro “fondatori” – un napoletano, due russi e un olandese – avevo avvertito che gli odessiti “non sono affezionati a una zarina, e in genere la sanno molto lunga sui delitti di zarine e piccoli padri.
Sono affezionati al mondo, ai suoi alberi, alle sue piazze. Sono affezionati a Odessa. E le cose che hanno visto, i più vecchi dei vecchi, dicono loro che si comincia da Caterina e si finisce a Isaak Babel’. Di nuovo”. Di Babel’, assassinato nel 1940 dai sicari di Stalin nel buio di una prigione moscovita, si vuole oggi nella sua Odessa la demolizione della statua eretta col contributo dei cittadini, e la cancellazione dell’intitolazione della strada. Il Babel’ dei Racconti di Odessa, dicono i consulenti della “decolonizzazione”, è responsabile di una mitologia gangsteristica che ha fatto il suo tempo.
Si finisce a Babel’, e oltre. “Rimossi i nomi di altri scrittori ebrei: Eduard Bagritsky, Mikhail Zhvanetsky e Ilya Il’f”. Tra i nomi rimossi, dice l’appello, figurano anche “coloro che si sono opposti e sono stati vittime dei regimi imperiali e sovietici russi.
E nomi come quelli dell’amministratore scozzese Thomas Cobley, che combatté la peste del 1812 a Odessa, del maresciallo Malinovsky, che difese la città dalle truppe naziste, del premio Nobel Ivan Bunin, che condannò il regime sovietico nei suoi libri, del candidato al premio Nobel Konstantin Paustovsky, che criticò la rivoluzione sovietica e non fu mai membro del Partito comunista…”.
“La guerra barbara della Russia contro l’Ucraina – dice l’appello – non mette in pericolo solo il Patrimonio mondiale ucraino dal rischio di annientamento immediato. Impone anche un trauma culturale che scatena ciò che Maria Böhmer, ex presidente del Comitato del patrimonio mondiale, aveva definito ‘pulizia culturale’, contro cui l’Unesco ha lottato in luoghi come la Siria, lo Yemen e l’Iraq.
Lo smantellamento arbitrario e autoritario del Patrimonio mondiale tangibile e intangibile di Odessa, inclusi monumenti che sono stati costruiti e appartengono alla sua comunità, non solo lacera il tessuto architettonico della città. Colpisce la memoria culturale di Odessa e la sua leggendaria identità come rifugio di libertà cosmopolita”.
Continua l’appello: “Concordiamo con lei sul fatto che ‘ciò che è essenziale – la lingua, i monumenti, l’architettura, il teatro, la musica, la memoria – deve essere difeso anche, e forse soprattutto, nei momenti più difficili della guerra’.
Pienamente consapevoli del trauma della guerra, crediamo che qualsiasi decisione riguardante il patrimonio culturale di Odessa debba essere ponderata attentamente attraverso un esame esperto, un dialogo ragionato e un vero dibattito pubblico. La guerra contro un invasore crudele, quando la difesa del paese è la priorità, ha necessariamente sospeso tutto questo, insieme alle elezioni.
Centinaia di cittadini hanno già presentato petizioni all’amministrazione regionale quest’estate, senza alcuna risposta. Ecco perché le chiediamo di fare un appello urgente al presidente Volodymyr Zelensky, su richiesta del quale Odessa è stata iscritta come sito del patrimonio mondiale, per fermare questo smantellamento intempestivo del patrimonio culturale di Odessa.
Le decisioni in merito devono essere rimandate fino a un momento più propizio, che speriamo arrivi presto dopo la guerra”.
(Ansa)