I Grandi Elettori Usa e la scelta del presidente (corriere.it)

di Milena Gabanelli e Giuseppe Sarcina

Il 5 novembre, un martedì, gli Stati Uniti vanno 
alle urne per eleggere il successore di Joe Biden. 

Come funziona il sistema per scegliere il nuovo capo dello Stato.

Perché il popolo americano non sceglie direttamente il Presidente? E perché si vota sempre di martedì e non di sabato o domenica come avviene nella quasi totalità dei Paesi occidentali?

Le ragioni sono antiche e profonde. Nel 1787 tutti i rappresentanti delle Tredici ex colonie riuniti nella Constitutional Convention di Philadelphia, tanto i latifondisti e schiavisti del Sud, quanto i commercianti e i banchieri del Nord, concordarono sul principio fondamentale della divisione e dell’indipendenza dei tre poteri: legislativo, esecutivo e giudiziario. I delegati decisero rapidamente che il Congresso, cioè il ramo legislativo, sarebbe stato eletto dai cittadini.

Ma chi avrebbe scelto il Presidente, vale a dire il capo dell’esecutivo? La discussione durò diversi mesi, fino a quando fu escogitato il meccanismo ancora oggi in vigore. Il Presidente sarebbe stato scelto formalmente da un nuovo organismo: il Collegio dei Grandi elettori. Primo problema: quanti dovevano essere i Grandi elettori? I costituenti partirono dalla rappresentanza del Congresso. Ogni Stato esprime un numero di deputati proporzionale alla sua popolazione.

Ma ogni Stato, che sia grande come la California o piccolo come il Connecticut, deve avere lo stesso peso politico e pertanto ha diritto a due senatori. Si decise, dunque, di attribuire a ciascuno Stato dell’Unione una quota di Grandi elettori pari alla somma dei deputati e dei senatori inviati a Washington, a questi si aggiungono tre rappresentanti di Washington Dc, la capitale.

Oggi il totale è pari a 538. La Costituzione poi impone che i Grandi elettori non siano titolari di cariche pubbliche federali. In generale vengono scelti dai partiti fra i politici locali o militanti di provata fede, e devono fare semplicemente da tramite alle preferenze espresse dai cittadini.

Le regole del voto.

Le procedure di voto sono fissate dai singoli Stati. Nei primi tempi potevano andare alle urne solo gli uomini bianchi, purché proprietari di terre. Nel 1870 vennero ammessi ai seggi gli afroamericani e caddero anche i divieti collegati al censo, ma in molti Stati del Sud fino al 1965 rimasero in vigore norme che ostacolavano il voto dei «black people».

Le donne invece conquistarono la scheda elettorale nel 1920. Una delle regole di base è che gli americani devono registrarsi nell’ufficio elettorale del proprio Stato. In diversi aree del Sud, come Alabama e Georgia, le amministrazioni repubblicane hanno varato una serie di norme restrittive per scoraggiare una larga partecipazione al voto. I movimenti per i diritti civili degli afroamericani sostengono che tutti i vincoli e i cavilli burocratici servono ad allontanare dalle urne chi ha più difficoltà a districarsi con i moduli e i formulari.

Vale a dire le minoranze etniche, tendenzialmente meno istruite o, più semplicemente, con meno tempo a disposizione. Ci sono pure degli esempi surreali. La Georgia, guidata dai repubblicani, nel 2021 ha approvato una legge che vieta di distribuire acqua e cibo a chi è in coda, magari da ore, davanti ai seggi. Come dire: statevene a casa.

È possibile votare anche per posta, e di regola chi vuole spedire la propria scheda deve registrarsi in un elenco speciale. Nella maggior parte degli Stati (dalla Virginia all’Arizona) è un’opportunità offerta a tutti gli elettori. Altrove (da New York all’Alabama) solo ai disabili o agli over 65. Tutti i voti, qualunque sia il modo in cui sono stati espressi, vengono scrutinati insieme nell’election day o, al massimo, qualche giorno dopo. Nessun elettore, quindi, può essere condizionato da una parte dei risultati rivelati in anticipo.

Le tappe per la candidatura.

La Costituzione Usa stabilisce che per candidarsi alla presidenza occorrono tre requisiti: essere nati negli Stati Uniti; essere residenti nel Paese da almeno 14 anni, e aver compiuto i 35 anni. In teoria possono presentarsi tutti coloro che soddisfano questi criteri. In realtà la competizione è gestita dai due partiti del sistema: i democratici e i repubblicani.

Entrambi organizzano vere e proprie consultazioni in ciascuno Stato, chiamando gli elettori a indicare direttamente chi dovrà sfidare il campione dell’altro partito. Ogni Stato esprime una quota di delegati in proporzione al numero dei suoi abitanti, che si ritrovano poi nelle rispettive convention per assegnare la nomination ai candidati.

Quest’anno non c’è stato alcun problema per Donald Trump, designato a luglio nella Convention repubblicana a Milwaukee (Wisconsin). Cambio in corsa, ammesso dalle regole, per i democratici che il 19 agosto, nella Convention di Chicago, hanno consegnato l’investitura a Kamala Harris, dopo il ritiro di Biden.

Con più voti non sempre si vinceIl 5 novembre, come abbiamo visto, gli americani non troveranno sulla scheda il nome di Trump o Harris, ma in loro rappresentanza quello dei Grandi elettori. Sono le autorità competenti di ogni singolo Stato che procedono al conteggio dei voti e alla designazione del numero dei Grandi elettori. In 48 Stati su 50 vige la regola del maggioritario puro: chi prende uno solo voto in più si aggiudica l’intero pacchetto.

Facciamo l’esempio della California: su 20 milioni di votanti registrati, se 10 milioni più uno scelgono i Grandi elettori democratici, tutti i 54 seggi vanno a Harris e zero a Trump. Funziona così in 48 Stati, ad eccezione del Nebraska e del Maine, dove i rappresentanti sono distribuiti con il sistema proporzionale. La soglia da raggiungere è di 270 Grandi elettori.

Questo sistema spiega perché può accadere che il candidato che prenda più voti a livello nazionale, possa comunque perdere le elezioni. L’ultima volta è accaduto nel 2016 a Hillary Clinton: accumulò tre milioni di preferenze più di Donald Trump, ma non fu sufficiente per diventare la prima donna presidente degli Stati Uniti.

Il conteggio.

Per ufficializzare il risultato però bisogna attendere qualche settimana. Le autorità dei singoli Stati devono comunicare i dati, prevedono le leggi, «non più tardi del quarto mercoledì di dicembre». Quest’anno la scadenza sarà il 25 dicembre. Il Congresso poi si riunisce il 6 gennaio, per ratificare i risultati e proclamare la nomina del Presidente. Una data insignificante per un passaggio puramente formale fino al 2021, quando i supporter di Trump assaltarono Capitol Hill per provare a sabotare la ratifica.

È anche capitato che ci fossero dubbi reali sui conteggi e che nessun concorrente raggiungesse quota 270 Grandi elettori. In questo caso la Costituzione prescrive che sia la Camera dei Rappresentanti a scegliere il Presidente. Nel 2000 si verificò un clamoroso corto circuito. Al Gore e George W.Bush presentarono una serie di ricorsi per il risultato in Florida.

Alla fine intervenne la Corte Suprema di Washington che assegnò la vittoria a Bush. Tutte queste tappe procedurali spiegano perché il periodo di transizione duri due mesi e mezzo. Il termine ultimo è fissato dalla Costituzione: il nuovo Presidente deve giurare il 20 gennaio, e mettersi al lavoro a partire da mezzogiorno.

Perché il martedì?

Resta l’ultima curiosità: perché si vota sempre a novembre e di martedì? La decisione risale al 1845, quando il Congresso stabilì che novembre era il mese più adatto, perché erano terminati i raccolti e quindi gli elettori, per lo più possidenti terrieri, si potevano spostare. Si scartò subito la domenica, in quanto giorno dedicato al riposo, si scelse il primo martedì del mese per dare il tempo di raggiungere i seggi, a cavallo o in calesse.

Quest’anno la data è fissata per il 5 novembre.

La non-approvazione del Post: cattivo tempismo, messaggio peggiore (politico.com)

di Michael Schaffer

Il proprietario Jeff Bezos e l'editore Will Lewis 
hanno scatenato una tempesta di fuoco con la 
decisione dell'undicesima ora di non 
appoggiare un candidato alla presidenza.

Non c’è nulla di più frustrante di un atto di vigliaccheria presentato come un atto di principio.

Questa è l’essenza della breve dichiarazione di oggi scritta da Will Lewis, l’editore del Washington Post. Secondo Lewis, il giornale non sta facendo un endorsement nella corsa presidenziale del 2024 per fare una dichiarazione coraggiosa sulla sua indipendenza. “Lo vediamo come coerente con i valori che il Post ha sempre rappresentato e ciò che speriamo in un leader”, ha scritto Lewis. “Lo vediamo anche come una dichiarazione a sostegno della capacità dei nostri lettori di prendere una decisione”, ha aggiunto.

Lewis, un ex collaboratore di Rupert Murdoch assunto meno di un anno fa dal proprietario del Post Jeff Bezos, ha scelto un momento terribilmente conveniente per abbracciare il processo decisionale dei lettori.

Nel corso del suo mandato, la pagina editoriale del Post ha mostrato poche esitazioni nell’aiutare i suoi lettori a decidere su cose importanti: vuole che sostengano la democratica Angela Alsobrooks per il Senato. Vuole che sostengano il democratico Eugene Vindman per la Camera dei Rappresentanti.

Vuole che sostengano una misura elettorale del Distretto di Columbia chiamata Iniziativa 83, che prevede il voto a scelta classificata e primarie semi-aperte. Ha anche detto ai lettori quando e dove lasciare la mancia nei ristoranti.

Come si addice a una pagina editoriale di alta qualità, le approvazioni tendono ad essere sfumate e ponderate, un’utile carrellata dei problemi anche per coloro che potrebbero vedere le cose dall’altra parte.

Ma ora, all’improvviso, Lewis sta dicendo che i venerabili principi del Post richiedono che la pagina editoriale rimanga silenziosa sul dibattito di più alto profilo nel paese?

Secondo un rapporto della Columbia Journalism Review, l’editore della pagina editoriale David Shipley ha firmato un endorsement alla vicepresidente Kamala Harris solo per far sì che Lewis lo uccidesse.

Se non altro, Lewis ha portato la religione in una fase imbarazzante del processo: arriva 11 giorni prima di un’elezione presidenziale e proprio in un momento in cui molti democratici temono che lo slancio si sia spostato verso l’ex presidente Donald Trump, lo stesso candidato che ha cercato di rovinare i contratti federali dei detrattori – una popolazione che include Bezos. dal momento che i data center di Amazon fanno affari enormi. Amazon in precedenza aveva accusato Trump di averle costato 10 miliardi di dollari per vendetta contro un contratto del Pentagono durante la sua presidenza.

La notizia arriva anche pochi giorni dopo una decisione simile da parte di un altro giornale di proprietà dei plutocrati, il Los Angeles Times. Lì, il proprietario Patrick Soon-Shiong è intervenuto per bloccare la pubblicazione di un endorsement di Harris, che il giornale ha sostenuto in passato. Come Bezos, Soon-Shiong – la cui fortuna proviene dall’industria altamente regolamentata dei prodotti medici – ha ragioni non giornalistiche per preoccuparsi di essere in guerra con il governo federale.

Anche al Post è difficile immaginare che qualcosa di così importante come l’approvazione di una presidenza possa accadere senza l’input di un proprietario.

È qui che la decisione sembra un pugno allo stomaco. L’approvazione in sé non è così importante: scommetto che non ci sono molti abbonati ai giornali americani di fascia alta che sono ancora incerti su come voteranno il mese prossimo. Ma come segno di come le istituzioni d’élite siano alle prese con un ambiente politico in cui una parte ha giurato vendetta contro i nemici, sembra un grande segnale di avvertimento, uno di quelli che la concisa dichiarazione di Lewis non sta facendo nulla per raffreddare.

Per anni, la gente ha pensato ai miliardari come a formidabili proprietari di giornali perché possono permettersi i rischi della moderna economia dei media. Eppure si scopre che anche i più ricchi tra loro, come Bezos, hanno punti in cui sono vulnerabili al potere governativo senza scrupoli. Mantenere la fiducia del pubblico significherà spiegare come hanno isolato le decisioni giornalistiche da quelle pressioni – qualcosa che manca completamente nella dichiarazione di Lewis.

A Los Angeles, l’improvvisa decisione di non appoggiare ha portato a un’ondata di dimissioni e a una rapida reazione. Nel giro di poche ore dalla decisione del Post, che è stata annunciata in una tesa riunione interna, una voce di spicco della pagina editoriale, Robert Kagan, si è dimesso.

Sono sicuro che ce ne saranno altri. In un’e-mail allo staff di opinione poco prima che la dichiarazione di Lewis fosse pubblicata, Shipley ha chiesto al personale di “leggerla e digerirla” e ha promesso una riunione del municipio per discuterne.

Anche la reazione dei lealisti istituzionali fuori dalla Camera è stata incessante. “Questa è vigliaccheria, con la democrazia come sua vittima”, ha scritto il leggendario ex direttore del Post Martin Baron su X. “@realdonaldtrump vedrà questo come un invito a intimidire ulteriormente il proprietario @jeffbezos (e altri). Un’inquietante mancanza di spina dorsale in un’istituzione famosa per il coraggio”.

Questo tipo di contraccolpo mi sembra particolarmente pericoloso per il Post, che ha subito battute d’arresto finanziarie e dove Lewis è stato coinvolto per ricostruire la sua base di abbonati. In precedenza, sotto la proprietà di Bezos, il giornale aveva adottato uno slogan spavaldo, giusto: “La democrazia muore nell’oscurità”. Un motto che si batte il petto, tuttavia, può far sembrare un’istituzione particolarmente vile e ipocrita quando agisce in modo debole. La dichiarazione di non approvazione di Lewis sarebbe molto meglio senza un ritornello macho a pochi centimetri di distanza.

La cosa strana è che c’è una solida argomentazione secondo cui l’approvazione presidenziale non è molto utile a nessuno. È difficile immaginare che molte persone cambierebbero idea se il Post, come ha fatto per 32 anni, sostenesse il candidato democratico.

Soprattutto da quando la maggior parte delle persone ha iniziato a consumare i media online, dove i lettori non possono dire se stanno guardando la pagina dell’editoriale o la sezione delle notizie, le approvazioni istituzionali sono state un punto di confusione, qualcosa che infastidisce i giornalisti diretti dall’altra parte della muraglia cinese.

Molte pubblicazioni, inclusa questa, non fanno affatto endorsement.

E se il Post avesse voluto unirsi a quella lista, sarebbe andato bene. Sei mesi o un anno fa. Con un sacco di lavoro di base in anticipo e forse l’opportunità di una dichiarazione di principi meno affrettata da parte del nuovo editore. Ma il tempismo di questo puzza: una ferita autoinflitta nel migliore dei casi, e qualcosa di molto più sinistro nel peggiore.

Il Post non ha risposto a una richiesta dettagliata di commento.

Non importa chi vincerà le elezioni – ma soprattutto se sarà Trump, con le sue promesse di vendetta e la sua storia di violazione delle norme – stiamo entrando in un altro periodo in cui le istituzioni di una società libera saranno messe alla prova: tribunali, burocrazie, gruppi di difesa, forze dell’ordine e mezzi di informazione.

Durante la presidenza Trump, molte delle stesse istituzioni hanno abbracciato il loro ruolo di guardrail della democrazia. Ma non c’è motivo per cui dovrebbe essere così una seconda volta. Ho già scritto che la psicologia di Washington potrebbe apparire molto diversa in una seconda era di Trump, motivando molti ex sostenitori a diventare tartaruga.

Se questo è ciò che è successo al Post, è un primo sentore piuttosto cupo di ciò che potrebbe aspettarsi.