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I Grandi Elettori Usa e la scelta del presidente (corriere.it)

di Milena Gabanelli e Giuseppe Sarcina

Il 5 novembre, un martedì, gli Stati Uniti vanno 
alle urne per eleggere il successore di Joe Biden. 

Come funziona il sistema per scegliere il nuovo capo dello Stato.

Perché il popolo americano non sceglie direttamente il Presidente? E perché si vota sempre di martedì e non di sabato o domenica come avviene nella quasi totalità dei Paesi occidentali?

Le ragioni sono antiche e profonde. Nel 1787 tutti i rappresentanti delle Tredici ex colonie riuniti nella Constitutional Convention di Philadelphia, tanto i latifondisti e schiavisti del Sud, quanto i commercianti e i banchieri del Nord, concordarono sul principio fondamentale della divisione e dell’indipendenza dei tre poteri: legislativo, esecutivo e giudiziario. I delegati decisero rapidamente che il Congresso, cioè il ramo legislativo, sarebbe stato eletto dai cittadini.

Ma chi avrebbe scelto il Presidente, vale a dire il capo dell’esecutivo? La discussione durò diversi mesi, fino a quando fu escogitato il meccanismo ancora oggi in vigore. Il Presidente sarebbe stato scelto formalmente da un nuovo organismo: il Collegio dei Grandi elettori. Primo problema: quanti dovevano essere i Grandi elettori? I costituenti partirono dalla rappresentanza del Congresso. Ogni Stato esprime un numero di deputati proporzionale alla sua popolazione.

Ma ogni Stato, che sia grande come la California o piccolo come il Connecticut, deve avere lo stesso peso politico e pertanto ha diritto a due senatori. Si decise, dunque, di attribuire a ciascuno Stato dell’Unione una quota di Grandi elettori pari alla somma dei deputati e dei senatori inviati a Washington, a questi si aggiungono tre rappresentanti di Washington Dc, la capitale.

Oggi il totale è pari a 538. La Costituzione poi impone che i Grandi elettori non siano titolari di cariche pubbliche federali. In generale vengono scelti dai partiti fra i politici locali o militanti di provata fede, e devono fare semplicemente da tramite alle preferenze espresse dai cittadini.

Le regole del voto.

Le procedure di voto sono fissate dai singoli Stati. Nei primi tempi potevano andare alle urne solo gli uomini bianchi, purché proprietari di terre. Nel 1870 vennero ammessi ai seggi gli afroamericani e caddero anche i divieti collegati al censo, ma in molti Stati del Sud fino al 1965 rimasero in vigore norme che ostacolavano il voto dei «black people».

Le donne invece conquistarono la scheda elettorale nel 1920. Una delle regole di base è che gli americani devono registrarsi nell’ufficio elettorale del proprio Stato. In diversi aree del Sud, come Alabama e Georgia, le amministrazioni repubblicane hanno varato una serie di norme restrittive per scoraggiare una larga partecipazione al voto. I movimenti per i diritti civili degli afroamericani sostengono che tutti i vincoli e i cavilli burocratici servono ad allontanare dalle urne chi ha più difficoltà a districarsi con i moduli e i formulari.

Vale a dire le minoranze etniche, tendenzialmente meno istruite o, più semplicemente, con meno tempo a disposizione. Ci sono pure degli esempi surreali. La Georgia, guidata dai repubblicani, nel 2021 ha approvato una legge che vieta di distribuire acqua e cibo a chi è in coda, magari da ore, davanti ai seggi. Come dire: statevene a casa.

È possibile votare anche per posta, e di regola chi vuole spedire la propria scheda deve registrarsi in un elenco speciale. Nella maggior parte degli Stati (dalla Virginia all’Arizona) è un’opportunità offerta a tutti gli elettori. Altrove (da New York all’Alabama) solo ai disabili o agli over 65. Tutti i voti, qualunque sia il modo in cui sono stati espressi, vengono scrutinati insieme nell’election day o, al massimo, qualche giorno dopo. Nessun elettore, quindi, può essere condizionato da una parte dei risultati rivelati in anticipo.

Le tappe per la candidatura.

La Costituzione Usa stabilisce che per candidarsi alla presidenza occorrono tre requisiti: essere nati negli Stati Uniti; essere residenti nel Paese da almeno 14 anni, e aver compiuto i 35 anni. In teoria possono presentarsi tutti coloro che soddisfano questi criteri. In realtà la competizione è gestita dai due partiti del sistema: i democratici e i repubblicani.

Entrambi organizzano vere e proprie consultazioni in ciascuno Stato, chiamando gli elettori a indicare direttamente chi dovrà sfidare il campione dell’altro partito. Ogni Stato esprime una quota di delegati in proporzione al numero dei suoi abitanti, che si ritrovano poi nelle rispettive convention per assegnare la nomination ai candidati.

Quest’anno non c’è stato alcun problema per Donald Trump, designato a luglio nella Convention repubblicana a Milwaukee (Wisconsin). Cambio in corsa, ammesso dalle regole, per i democratici che il 19 agosto, nella Convention di Chicago, hanno consegnato l’investitura a Kamala Harris, dopo il ritiro di Biden.

Con più voti non sempre si vinceIl 5 novembre, come abbiamo visto, gli americani non troveranno sulla scheda il nome di Trump o Harris, ma in loro rappresentanza quello dei Grandi elettori. Sono le autorità competenti di ogni singolo Stato che procedono al conteggio dei voti e alla designazione del numero dei Grandi elettori. In 48 Stati su 50 vige la regola del maggioritario puro: chi prende uno solo voto in più si aggiudica l’intero pacchetto.

Facciamo l’esempio della California: su 20 milioni di votanti registrati, se 10 milioni più uno scelgono i Grandi elettori democratici, tutti i 54 seggi vanno a Harris e zero a Trump. Funziona così in 48 Stati, ad eccezione del Nebraska e del Maine, dove i rappresentanti sono distribuiti con il sistema proporzionale. La soglia da raggiungere è di 270 Grandi elettori.

Questo sistema spiega perché può accadere che il candidato che prenda più voti a livello nazionale, possa comunque perdere le elezioni. L’ultima volta è accaduto nel 2016 a Hillary Clinton: accumulò tre milioni di preferenze più di Donald Trump, ma non fu sufficiente per diventare la prima donna presidente degli Stati Uniti.

Il conteggio.

Per ufficializzare il risultato però bisogna attendere qualche settimana. Le autorità dei singoli Stati devono comunicare i dati, prevedono le leggi, «non più tardi del quarto mercoledì di dicembre». Quest’anno la scadenza sarà il 25 dicembre. Il Congresso poi si riunisce il 6 gennaio, per ratificare i risultati e proclamare la nomina del Presidente. Una data insignificante per un passaggio puramente formale fino al 2021, quando i supporter di Trump assaltarono Capitol Hill per provare a sabotare la ratifica.

È anche capitato che ci fossero dubbi reali sui conteggi e che nessun concorrente raggiungesse quota 270 Grandi elettori. In questo caso la Costituzione prescrive che sia la Camera dei Rappresentanti a scegliere il Presidente. Nel 2000 si verificò un clamoroso corto circuito. Al Gore e George W.Bush presentarono una serie di ricorsi per il risultato in Florida.

Alla fine intervenne la Corte Suprema di Washington che assegnò la vittoria a Bush. Tutte queste tappe procedurali spiegano perché il periodo di transizione duri due mesi e mezzo. Il termine ultimo è fissato dalla Costituzione: il nuovo Presidente deve giurare il 20 gennaio, e mettersi al lavoro a partire da mezzogiorno.

Perché il martedì?

Resta l’ultima curiosità: perché si vota sempre a novembre e di martedì? La decisione risale al 1845, quando il Congresso stabilì che novembre era il mese più adatto, perché erano terminati i raccolti e quindi gli elettori, per lo più possidenti terrieri, si potevano spostare. Si scartò subito la domenica, in quanto giorno dedicato al riposo, si scelse il primo martedì del mese per dare il tempo di raggiungere i seggi, a cavallo o in calesse.

Quest’anno la data è fissata per il 5 novembre.

La non-approvazione del Post: cattivo tempismo, messaggio peggiore (politico.com)

di Michael Schaffer

Il proprietario Jeff Bezos e l'editore Will Lewis 
hanno scatenato una tempesta di fuoco con la 
decisione dell'undicesima ora di non 
appoggiare un candidato alla presidenza.

Non c’è nulla di più frustrante di un atto di vigliaccheria presentato come un atto di principio.

Questa è l’essenza della breve dichiarazione di oggi scritta da Will Lewis, l’editore del Washington Post. Secondo Lewis, il giornale non sta facendo un endorsement nella corsa presidenziale del 2024 per fare una dichiarazione coraggiosa sulla sua indipendenza. “Lo vediamo come coerente con i valori che il Post ha sempre rappresentato e ciò che speriamo in un leader”, ha scritto Lewis. “Lo vediamo anche come una dichiarazione a sostegno della capacità dei nostri lettori di prendere una decisione”, ha aggiunto.

Lewis, un ex collaboratore di Rupert Murdoch assunto meno di un anno fa dal proprietario del Post Jeff Bezos, ha scelto un momento terribilmente conveniente per abbracciare il processo decisionale dei lettori.

Nel corso del suo mandato, la pagina editoriale del Post ha mostrato poche esitazioni nell’aiutare i suoi lettori a decidere su cose importanti: vuole che sostengano la democratica Angela Alsobrooks per il Senato. Vuole che sostengano il democratico Eugene Vindman per la Camera dei Rappresentanti.

Vuole che sostengano una misura elettorale del Distretto di Columbia chiamata Iniziativa 83, che prevede il voto a scelta classificata e primarie semi-aperte. Ha anche detto ai lettori quando e dove lasciare la mancia nei ristoranti.

Come si addice a una pagina editoriale di alta qualità, le approvazioni tendono ad essere sfumate e ponderate, un’utile carrellata dei problemi anche per coloro che potrebbero vedere le cose dall’altra parte.

Ma ora, all’improvviso, Lewis sta dicendo che i venerabili principi del Post richiedono che la pagina editoriale rimanga silenziosa sul dibattito di più alto profilo nel paese?

Secondo un rapporto della Columbia Journalism Review, l’editore della pagina editoriale David Shipley ha firmato un endorsement alla vicepresidente Kamala Harris solo per far sì che Lewis lo uccidesse.

Se non altro, Lewis ha portato la religione in una fase imbarazzante del processo: arriva 11 giorni prima di un’elezione presidenziale e proprio in un momento in cui molti democratici temono che lo slancio si sia spostato verso l’ex presidente Donald Trump, lo stesso candidato che ha cercato di rovinare i contratti federali dei detrattori – una popolazione che include Bezos. dal momento che i data center di Amazon fanno affari enormi. Amazon in precedenza aveva accusato Trump di averle costato 10 miliardi di dollari per vendetta contro un contratto del Pentagono durante la sua presidenza.

La notizia arriva anche pochi giorni dopo una decisione simile da parte di un altro giornale di proprietà dei plutocrati, il Los Angeles Times. Lì, il proprietario Patrick Soon-Shiong è intervenuto per bloccare la pubblicazione di un endorsement di Harris, che il giornale ha sostenuto in passato. Come Bezos, Soon-Shiong – la cui fortuna proviene dall’industria altamente regolamentata dei prodotti medici – ha ragioni non giornalistiche per preoccuparsi di essere in guerra con il governo federale.

Anche al Post è difficile immaginare che qualcosa di così importante come l’approvazione di una presidenza possa accadere senza l’input di un proprietario.

È qui che la decisione sembra un pugno allo stomaco. L’approvazione in sé non è così importante: scommetto che non ci sono molti abbonati ai giornali americani di fascia alta che sono ancora incerti su come voteranno il mese prossimo. Ma come segno di come le istituzioni d’élite siano alle prese con un ambiente politico in cui una parte ha giurato vendetta contro i nemici, sembra un grande segnale di avvertimento, uno di quelli che la concisa dichiarazione di Lewis non sta facendo nulla per raffreddare.

Per anni, la gente ha pensato ai miliardari come a formidabili proprietari di giornali perché possono permettersi i rischi della moderna economia dei media. Eppure si scopre che anche i più ricchi tra loro, come Bezos, hanno punti in cui sono vulnerabili al potere governativo senza scrupoli. Mantenere la fiducia del pubblico significherà spiegare come hanno isolato le decisioni giornalistiche da quelle pressioni – qualcosa che manca completamente nella dichiarazione di Lewis.

A Los Angeles, l’improvvisa decisione di non appoggiare ha portato a un’ondata di dimissioni e a una rapida reazione. Nel giro di poche ore dalla decisione del Post, che è stata annunciata in una tesa riunione interna, una voce di spicco della pagina editoriale, Robert Kagan, si è dimesso.

Sono sicuro che ce ne saranno altri. In un’e-mail allo staff di opinione poco prima che la dichiarazione di Lewis fosse pubblicata, Shipley ha chiesto al personale di “leggerla e digerirla” e ha promesso una riunione del municipio per discuterne.

Anche la reazione dei lealisti istituzionali fuori dalla Camera è stata incessante. “Questa è vigliaccheria, con la democrazia come sua vittima”, ha scritto il leggendario ex direttore del Post Martin Baron su X. “@realdonaldtrump vedrà questo come un invito a intimidire ulteriormente il proprietario @jeffbezos (e altri). Un’inquietante mancanza di spina dorsale in un’istituzione famosa per il coraggio”.

Questo tipo di contraccolpo mi sembra particolarmente pericoloso per il Post, che ha subito battute d’arresto finanziarie e dove Lewis è stato coinvolto per ricostruire la sua base di abbonati. In precedenza, sotto la proprietà di Bezos, il giornale aveva adottato uno slogan spavaldo, giusto: “La democrazia muore nell’oscurità”. Un motto che si batte il petto, tuttavia, può far sembrare un’istituzione particolarmente vile e ipocrita quando agisce in modo debole. La dichiarazione di non approvazione di Lewis sarebbe molto meglio senza un ritornello macho a pochi centimetri di distanza.

La cosa strana è che c’è una solida argomentazione secondo cui l’approvazione presidenziale non è molto utile a nessuno. È difficile immaginare che molte persone cambierebbero idea se il Post, come ha fatto per 32 anni, sostenesse il candidato democratico.

Soprattutto da quando la maggior parte delle persone ha iniziato a consumare i media online, dove i lettori non possono dire se stanno guardando la pagina dell’editoriale o la sezione delle notizie, le approvazioni istituzionali sono state un punto di confusione, qualcosa che infastidisce i giornalisti diretti dall’altra parte della muraglia cinese.

Molte pubblicazioni, inclusa questa, non fanno affatto endorsement.

E se il Post avesse voluto unirsi a quella lista, sarebbe andato bene. Sei mesi o un anno fa. Con un sacco di lavoro di base in anticipo e forse l’opportunità di una dichiarazione di principi meno affrettata da parte del nuovo editore. Ma il tempismo di questo puzza: una ferita autoinflitta nel migliore dei casi, e qualcosa di molto più sinistro nel peggiore.

Il Post non ha risposto a una richiesta dettagliata di commento.

Non importa chi vincerà le elezioni – ma soprattutto se sarà Trump, con le sue promesse di vendetta e la sua storia di violazione delle norme – stiamo entrando in un altro periodo in cui le istituzioni di una società libera saranno messe alla prova: tribunali, burocrazie, gruppi di difesa, forze dell’ordine e mezzi di informazione.

Durante la presidenza Trump, molte delle stesse istituzioni hanno abbracciato il loro ruolo di guardrail della democrazia. Ma non c’è motivo per cui dovrebbe essere così una seconda volta. Ho già scritto che la psicologia di Washington potrebbe apparire molto diversa in una seconda era di Trump, motivando molti ex sostenitori a diventare tartaruga.

Se questo è ciò che è successo al Post, è un primo sentore piuttosto cupo di ciò che potrebbe aspettarsi.

Festival della Fotografia Etica, parla il direttore Prina (laragione.eu)

di Claudia Burgio

L’arte fotografica come arma del cambiamento. 
Le mostre a Lodi fino al 27 ottobre. 

Per il direttore Prina: “Una fotografia necessaria”

La parola guerra è tornata sulle nostre bocche e per questo “la fotografia è necessaria”, come ama definirla  Alberto Prina, direttore del Festival della Fotografia Etica che si terrà a Lodi tutti i week end fino al 27 ottobre. Una forma d’arte che (da sempre e per fortuna) obbliga a prendere contatto con la realtà e a non chiudere gli occhi di fronte alle ingiustizie. 843 i fotografi dei cinque continenti che hanno inviato oltre un migliaio di progetti. Sette i fotografi che si sono aggiudicati la vittoria, o la menzione speciale, nelle categorie che costituiscono il Premio.

“Gli scatti sono sempre un bilancio tra la componente estetica e quella etica, quest’ultima nelle nostre fotografie ha un peso molto importante – ci spiega Alberto Prina. – C’è bisogno di dare attenzione ai valori reali e concreti e di ragionare su di essi. L’elemento fondamentale di questi lavori è che rispecchiano la realtà che viviamo”.

Alcuni dei valori a cui Prina fa riferimento, trattati in questa edizione del Festival – giunto al suo quindicesimo anno – sono: la solidarietà, con il progetto di PizzAut del fotografo Leonello Bertolucci, che racconta la pizzeria rivoluzionaria fondata sull’inclusione, dove pizzaioli e camerieri sono giovani con autismo; il valore della pace, trattato dalla sezione “Uno Sguardo sul Mondo” – visitabile al Palazzo della Provincia – con la mostra “The War in Gaza Through the Eyes of its Photojournalists”, promossa dall’ufficio per il Coordinamento degli Affari Umanitari (OCHA); e ancora, il valore di un buon governo, investigato dagli scatti di Giles Clarke con il reportage “Haiti in Turmoil”, in cui viene raccontata la drammatica guerra civile che imperversa il Paese dal 2021.

“Noi crediamo che la fotografia sia lo strumento più potente su cui ispirarci – continua Prina. – Potente perché le fotografie creano emozioni. Senza emozioni non vi è coinvolgimento e senza coinvolgimento non vi è cambiamento”.

Per Prina si tratta di una “necessità”: di ragionare, di confrontarsi, di dialogare di fronte a delle foto che ci rimandano lo specchio della realtà che ci circonda.

Per il direttore, il Festival della Fotografia Etica è paragonabile ad una nave, dove il vento favorevole è la fotografia, ovvero i lavori dei fotoreporter: “Noi dobbiamo dire un immenso grazie a questi fotografi, perché sono loro con i loro lavoro sul campo a fare la vera fatica, con perseveranza e costanza”.

L’edizione del Festival quest’anno sarà arricchita da due importanti progetti: un podcast in collaborazione con Chora Media, che accompagnerà tutti e cinque i week end inaugurali dell’evento e poi la mostra ospitata nella Chiesa dell’Angelo per festeggiare i 15 anni del Festival, dove verranno esposte le 15 copertine che ne hanno fatto la storia. Inoltre, sarà possibile visitare l’unica tappa lombarda della mostra itinerante “World Press Photo”, il grande concorso internazionale di fotogiornalismo e fotografia documentaria più famoso al mondo che si svolge da quasi 70 anni, indetto dalla World Press Photo Foundation di Amsterdam.

Oltre 150 immagini, provenienti dai cinque continenti, che narrano storie straordinarie, attraverso i lavori realizzati per alcune delle più importanti testate internazionali come National Geographic, BBC, CNN, The New York Times, Le Monde, ed El Pais. Un’occasione preziosa per riflettere, accompagnati anche da visite guidate, incontri e dibattiti. Per non chiudere più gli occhi davanti a quello che ci circonda.

Lo show tv di Kamala Harris: «Donald Trump si fa prendere in giro dai dittatori» (rollingstone.it)

di

Ospite del ‘Late Show’ di Stephen Colbert, la 
candidata democratica alla presidenza commenta 
le relazioni di The Donald con Putin e Kim Jong-un, 
sfata le bugie sul suo conto e si beve una birra

Lo show tv di Kamala Harris: «Donald Trump si fa prendere in giro dai dittatori» (Kamala Harris al ‘Late Show’ di Stephen Colbert Foto: Scott Kowalchyk/CBS)

La vicepresidente Kamala Harris è stata ospite ieri sera del Late Show per discutere della sua campagna presidenziale con Stephen Colbert davanti a una lattina di birra. La candidata democratica e il conduttore hanno aperto una Miller High Life mentre Harris rifletteva su Donald Trump e sulle recenti accuse di aver inviato test Covid al presidente russo Vladimir Putin.

La vicepresidente Kamala Harris è stata ospite ieri sera del Late Show per discutere della sua campagna presidenziale con Stephen Colbert davanti a una lattina di birra. La candidata democratica e il conduttore hanno aperto una Miller High Life mentre Harris rifletteva su Donald Trump e sulle recenti accuse di aver inviato test Covid al presidente russo Vladimir Putin.

Colbert ha chiesto a Kamala Harris un commento rispetto alle accuse, contenute nel libro di Bob Woodward di prossima pubblicazione, War. Nel libro, Woodward scrive che Trump ha inviato alla Russia i test Covid, molto necessari, all’inizio della pandemia.

“Ho sentito parlare del libro oggi”, ha detto Harris. “Non l’ho letto. Ma guardate – e l’ho detto anche al dibattito con lui – Donald Trump ammira apertamente i dittatori e i politici autoritari. Ha detto di voler diventare un dittatore fin dal primo giorno, se fosse eletto di nuovo presidente. Si fa prendere in giro da questi uomini. Ammira i cosiddetti uomini forti e si fa prendere in giro perché lo adulano o gli offrono favori. Il commander in chief degli Stati Uniti d’America deve essere forte e difendere i princìpi che ci sono cari”.

Ha poi continuato: “Se tutto ciò che ho sentito sul libro di Bob Woodward è vero, Donald Trump ha segretamente inviato kit di test Covid a Putin per uso personale. Chiedo a tutti i presenti e a tutti coloro che stanno guardando: vi ricordate com’erano quei giorni? Vi ricordate quante persone non avevano i test e cercavano di fare i salti mortali per ottenerli? Pensate a cosa significa questo, oltre all’invio di lettere d’amore a Kim Jong-un. Pensateci davvero. Lui pensa: “Be’, quello è un suo amico [di Putin]”. E il popolo americano? Dovrebbe essere il suo primo amico”.

Colbert ha chiesto a Harris se Trump si rifiuta di ammettere di aver perso le elezioni del 2020 a favore di Joe Biden. Lei ha fatto notare che c’è un motivo per cui il posto di vicepresidente era disponibile durante questa campagna elettorale. “Molte persone, quando si candidano per un lavoro, si chiedono: perché il posto è disponibile?”, ha detto. “Bisogna allora chiedersi: perché il posto di running mate di Donald Trump era libero? Perché il suo vicepresidente Mike Pence si è schierato per il Paese, al di sopra dei partiti”.

“Sapete, vi dirò cosa pensano alcune delle persone che partecipano ai miei comizi: tra l’altro non sono poche quelle che si presentano. Pensano che se avete perso milioni di posti di lavoro, se avete perso l’industria manifatturiera, se avete perso gli impianti automobilistici, allora avete perso le elezioni”, ha aggiunto. “E questo cosa vi rende? Un perdente. Questo è quello che ha detto qualcuno ai miei comizi. Ho pensato che fosse divertente”.

In un altro momento dell’intervista, Harris ha parlato delle idee sbagliate secondo cui il denaro della FEMA (l’ente federale per la gestione delle emergenze, letteralmente Federal Emergency Management Agency, ndt) non viene utilizzato per aiutare la ripresa dopo l’uragano Helene. “C’è molta disinformazione”, ha detto a Colbert. “C’è un sacco di gente che è lì per dare aiuto e assistenza”. Ha aggiunto che sono disponibili aiuti sia a breve che a lungo termine, e vorrebbe che i repubblicani non dicessero bugie per “un tornaconto politico”.

Harris e Colbert hanno anche discusso del conflitto tra Israele e Hamas, un punto critico per molti elettori durante questa campagna elettorale. Colbert ha detto che “abbiamo sentito parlare di essere vicini” a un accordo per il cessate il fuoco, ma ha chiesto “cosa significa vicini?”.

“Molti dettagli sono stati risolti, ma rimangono dei dettagli”, ha confermato Harris. “Ci sono stati dei progressi, ma non hanno alcun significato se non si raggiunge un accordo, quindi non voglio dirvi che dovreste applaudirci per esserci avvicinati a un accordo”.

Il portavoce della campagna di Trump, Steven Cheung, ha commentato l’apparizione della Harris al Late Show su X, scrivendo: “Kamala beve una birra per mostrare agli americani quanto si possano immedesimare in lei, ma finisce per sembrare una rappresentante delle élite che resta fuori dal mondo, anche se che cerca di gasare tutti facendogli credere di essere una di loro. Le persone normali non permettono ad assassini, stupratori e terroristi di attraversare il confine come ha fatto Kamala”.

Da Rolling Stone US

USA: scusi, dov’è la verità? (doppiozero.com)

di Daniela Gross

Speciale USA 2024: verso le elezioni

Questa storia non esiste. È una bufala, un falso, una bugia. Parla di alligatori liberati nel Rio Grande per dilaniare i clandestini al confine Sud, sostanze chimiche nell’acqua che trasformano i bambini in transgender, cani e gatti fatti arrosto, bagni di sangue. Mette in piazza le abitudini sessuali di JD Vance, il vero colore di Kamala e i finti attentati a Trump. Spiega che il governo controlla gli uragani, il wifi provoca il cancro e il vaccino anti-Covid è tutta una cospirazione.

In un mondo migliore, la vera notizia sarebbe che se ne parli. Le presidenziali hanno però la capacità di tirare fuori il peggio dall’America e da mesi la gara è a chi la spara più grossa. Vale dunque la pena tornarci sopra perché la somma dei falsi che da mesi animano la conversazione pubblica è la fotografia di uno stato d’animo – un distillato degli umori che ribollono nella pancia del paese.

È un gioco al ribasso dove nessuno è innocente, i fact-check lasciano il tempo che trovano e la deriva partigiana è garantita. E mentre i fatti sfumano in un’approssimazione, la verità finisce all’angolo e il terreno di scontro diventa sempre più scivoloso.

La traiettoria del falso è ormai rodata. Quella degli immigrati haitiani che nella cittadina di Springfield, Ohio si dice divorino cani e gatti è un caso da manuale. La bufala debutta sui social locali, il regno delle paranoie, e da lì prende il volo verso la scena nazionale. È la parabola perfetta delle paure che animano l’elettorato di destra. Intercetta in chiave di razzismo i due temi al centro di queste elezioni, economia e immigrazione.

Mescola orrore, disprezzo, violenza: è la voce del cittadino qualunque travolto dai demoni alla modernità in una delle infinite piccole città che punteggiano la flyover country. Rimbalza su X e da lì a un comizio di JD Vance. Trump, che della menzogna ha fatto il suo stile, la rilancia al dibattito presidenziale e a quel punto non c’è verso di tornare indietro.

Seguono smentite, inchieste, interviste, commenti – un cataclisma che chissà quanto sposta in chiave elettorale. I sostenitori si compattano, gli oppositori urlano allo scandalo e ognuno resta della propria opinione. Intanto a Springfield fioccano gli allarmi bomba, le scuole sono evacuate e gli immigrati haitiani si sentono a rischio. Poco dopo, un gruppo di estremisti di destra sbarca nella cittadina e pattuglia in armi le vie a difesa dei cittadini americani, s’immagina quelli bianchi.

È il genere di scenario diventato familiare negli anni della presidenza Trump – forse l’unica ad aprirsi con un falso clamoroso (il milione e mezzo di persone alla cerimonia di inaugurazione) e concludersi con un falso ben più terrificante (le elezioni rubate nel 2020). Allora come oggi, le parole sono pietre e i social hanno la capacità di trasformare ogni idiozia in un pericolo mortale. Per conferma, basta tornare al 6 gennaio e all’attacco al Campidoglio.

Per quanto ormai prevedibili, il caos e i fuochi d’artificio di Donald Trump restano abbaglianti. Il che non significa che i democratici siano candidi gigli del campo.

Pur senza scendere al suo livello, nota sul New York Times James Kirchik, ricercatore del Foundation for Individual Rights and Expression, nel dibattito presidenziale neanche Kamala Harris ha “aderito strettamente alla verità”. Come dire, tecnicamente non ha mentito ma sfumato, approssimato, aggiustato.

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Prendiamo la storia della marcia suprematista a Charlottesville, in Virginia, dove nell’estate 2017 centinaia di estremisti di destra sfilano contro la rimozione della statua del generale confederato Robert Lee, la violenza razziale esplode e la giovane Heather Heyer è uccisa.

Secondo Harris, scrive Kirchik, Trump “ha detto che c’erano ‘persone perbene’ tra i neonazisti e i suprematisti bianchi a Charlottesville sette anni fa, una distorsione ripetuta spesso di una dichiarazione fatta da Trump all’epoca che, tuttavia, rimane un articolo di fede tra i liberali americani”.

Harris, continua, “ha anche affermato in modo ingannevole che Trump ha detto che ci sarebbe un ‘bagno di sangue’ se non venisse eletto, quando il riferimento originale riguardava la perdita di posti di lavoro nell’industria automobilistica statunitense.”

Infine, conclude il commentatore conservatore, non è vero che come ha detto Harris “Non c’è un solo membro delle forze armate degli Stati Uniti in servizio attivo in una zona di combattimento in alcuna zona di guerra nel mondo — la prima volta in questo secolo.”

“Questa affermazione – continua Kirchik – ignora le migliaia di truppe americane schierate in Medio Oriente dal 7 ottobre, per non parlare dei militari uccisi in Giordania nell’attacco con droni di gennaio. Nonostante queste affermazioni siano false, tuttavia è stato solo Trump che i moderatori di ABC, David Muir e Linsey Davis, hanno cercato di correggere.”

Nel pieno di un dibattito presidenziale, con 67 milioni di spettatori collegati in diretta, sono decisioni che si prendono nel giro di secondi. A posteriori, la domanda diventa però inevitabile. È più importante demistificare in diretta la bufala sugli haitiani di Springfield o la storia del bagno di sangue annunciato da Trump in caso di sconfitta? Prima la clamorosa menzogna o la garbata mistificazione? Qual è più urgente, quale più allarmante? Sono interrogativi destinati a restare senza risposta perché non è un mistero che, fin dall’avvio della campagna elettorale, il circuito dell’informazione mainstream usi due pesi e due misure – uno standard per i democratici e uno per i repubblicani.

A meno di ricorrere a qualche strampalata teoria della cospirazione, non si spiega altrimenti come le condizioni di Biden siano rimaste così a lungo un mistero e come a giugno le rassicurazioni della portavoce della Casa Bianca Karin Jean-Pierre siano passate senza colpo ferire.

Il presidente, aveva garantito Jean-Pierre, era come sempre al lavoro e i video che lo mostravano traballante, smarrito e in difficoltà pura “disinformazione” – “falsi da due soldi”. Una settimana dopo, il disastroso dibattito con Trump illuminava la menzogna di una luce impietosa aprendo una crisi politica senza precedenti.

Nel vortice seguito alle dimissioni di Biden, i ranghi si sono stretti ulteriormente. Le domande scomode tacciono, i fact-check si applicano di preferenza all’opposizione e gli articoli adoranti rimpiazzano il ragionamento politico. “The only patriotic choice for President”, titolava di recente l’inserto di opinioni del New York Times sotto una gigantesca foto in bianco e nero di Kamala Harris e la ragione è tutta qui. In gioco c’è il ‘bene del Paese’.

Non è il momento di fare gli schizzinosi e dunque si sorvola sui limiti della candidatura, le inversioni di rotta (il fatto che i suoi valori non siano cambiati pare una spiegazione sufficiente), una piattaforma elettorale a lungo così vaga da far sembrare Trump uno statista e perfino sugli scivoloni di Tim Walz, che durante Tienanmen forse era a Hong Kong o forse chissà.

Sono mesi d’oro per quel giornalismo educativo che negli Stati Uniti aveva già dato pessima prova di sé nel 2016, quello che conduce il lettore/ascoltatore/spettatore alla giusta conclusione più che informare. Si può solo sperare che la Storia non si ripeta. In ogni caso, è uno spettacolo snervante e se sia davvero un bene per il tessuto della democrazia è tutto da dimostrare.

Mentre scrivo, mancano tre settimane all’Election Day e in molti stati già si vota. Per dirla con Obama, oggi il più influente sostenitore di Harris, elezioni come questa si vincono e perdono negli ultimi giorni. In questa volata, il circuito dell’informazione riveste un ruolo centrale. Milioni di americani, fra cui la sottoscritta, si avviano alle urne senza mai essere stati lambiti dal flusso vivo della politica.

La stampa locale sta esalando ovunque l’ultimo respiro mentre per ovvie ragioni i comizi, dibattiti e incontri si concentrano negli stati in bilico e nelle metropoli. Nel resto del paese non resta dunque che affidarsi ai giornali, alla tv, ai podcast e ai social, sempre più decisivi soprattutto per l’elettorato più giovane.

A queste condizioni, realtà e fiction, informazione e spettacolo si confondono senza tregua – il Rio Grande pullula di alligatori; Harris costruirà il muro al confine Sud; il governo ha abbandonato le vittime dell’alluvione; Trump non beve, non fuma, non usa droghe; gli immigrati divorano i pets; Robert F. Kennedy Jr. ha un verme nel cervello; Trump ci ha lasciato la peggiore disoccupazione dopo la grande depressione; Trump deporterà 13 milioni di immigrati illegali.

Cos’è vero, cos’è falso? E chi ha tempo e voglia di starci dietro? In questo fuoco incrociato di bugie e mezze verità, ognuno si aggrappa ai suoi giudizi e pregiudizi, la spaccatura fra democratici e repubblicani si approfondisce e il malessere cresce come i prezzi al supermercato.

Peccato, perché i sondaggi mostrano che la credibilità dei media resta molto più elevata delle diverse piattaforme social e secondo uno studio di Bookman e Kalla pubblicato dall’American Journal of Political Science, “i messaggi persuasivi cambiano sia le valutazioni dei candidati che le scelte di voto e inducono defezioni partitiche; e i messaggi con maggiore contenuto informativo sono più persuasivi”. In altre parole, la gente merita rispetto. E non è questo il sale della democrazia?

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Frazionismo (treccani.it)

di Michele A. Cortelazzo

Probabilmente un buon numero di lettori si attende 
che in questa puntata della rubrica Le parole 
della neopolitica io mi occupi di Alessandro Giuli, 
da poche settimane Ministro della Cultura. 

Giuli è stato al centro di commenti, critiche, espressioni di sostegno proprio per il lessico contenuto nell’incipit, piuttosto elaborato e concettoso, del suo intervento alla seduta congiunta delle commissioni cultura di Camera e Senato, l’8 ottobre 2024, nelle quali ha presentato le linee programmatiche della sua attività come ministro.

Alcune delle parole contenute nella parte iniziale dell’intervento sono state oggetto di polemica politica o di satira e potrebbero benissimo essere trattate qui: per esempio, infosfera globaleipertecnologizzazioneapocalittismo.

Ma, lasciando a Giuli il ruolo di protagonista delle soluzioni più inattese dell’attuale lingua della neopolitica, vorrei analizzare una parola usata qualche giorno prima del discorso davanti alle commissioni parlamentari. Il 6 ottobre, in un intervento a un’iniziativa di Fratelli d’Italia a Brucoli, in provincia di Siracusa, Giuli ha detto: «La sinistra si sta spaccando sulla Rai, posto che i 5 Stelle siano di sinistra, perché il frazionismo è un tratto distintivo della sinistra, che appena può si divide». La parola che va messa sotto la lente è una parola che credevo desueta, frazionismo.

Frazionismo è parola nata un secolo fa all’interno degli schieramenti di sinistra: i vocabolari storici ricordano la sua presenza in un articolo dell’«Unità» del 1924 (anno della fondazione, da parte di Antonio Gramsci, di quel quotidiano comunista); ma lo si ritrova già l’anno precedente nell’«Avanti!» del 4 ottobre, in una posizione di rilievo, dal momento che appare nel titolo: «Il frazionismo e la paralisi del Partito».

Ero convinto che, anche in questo caso, si trattasse di una trovata personale, e magari un po’ esibizionista di Alessandro Giuli, che negli ultimi tempi aveva frequentato gli scritti di Gramsci e, immagino, quelli del suo tempo e del suo ambiente, per elaborare il libro Gramsci è vivo. Sillabario per un’egemonia contemporanea, uscito quest’anno da Rizzoli.

Pensavo, insomma, a un recupero dotto e isolato di una parola oggi disusata in politica, perché legata agli anni della scissione del Partito socialista e della conseguente nascita del Partito comunista; una parola pienamente legata alla politica comunista, e al suo riferimento internazionale, la Russia: si tratta, infatti, di un calco sul russo frakcionnost’, derivato da frakcija ‘frazione’, usato per indicare la tendenza a formare correnti organizzate all’interno del partito socialdemocratico. La parola faceva parte del vocabolario politico russo già dall’epoca prerivoluzionaria.

Da Gramsci ai nostri giorni

L’interpretazione di un recupero dotto aveva tutta l’apparenza di essere corretta, anzi di essere l’unica interpretazione ragionevole. Dai resoconti parlamentari, infatti, emerge che alla Camera non si parla più di frazionismo dal 1971; più recente la rinuncia a questa parola nei dibattiti del Senato, dove, comunque, nessuno ha più usato il termine né nella scorsa legislatura né in quella attuale. Insomma, frazionismo sembrava davvero una parola messa in archivio.

Ma non è proprio così. Prescindendo dalle ricostruzioni storiche delle divisioni dei partiti di sinistra, la parola continua a riaffiorare, sia pure sporadicamente, innanzi tutto in bocca ai politici di sinistra.

Nicola Zingaretti, del Partito Democratico, in un’intervista a fanpage.it, il 27 maggio 2024 ha dichiarato: «grazie alla leadership di Schlein tanto frazionismo e tanto egoismo, che pure è rimasto, oggi sono più marginali di un tempo»; Luigi Zanda, anch’egli del Partito Democratico, in un’intervista al «Foglio» del 1° ottobre 2024 (cioè cinque giorni prima del discorso di Giuli), ha a sua volta usato frazionismo: «in Italia, paese di colazioni dai tempi di De Gasperi, serve un proporzionale con una soglia di sbarramento alta, almeno il 5 per cento, in modo da rappresentare le diverse opinioni e combattere il frazionismo che ha sempre avuto effetti nefasti».

La parola compare anche in sedi periferiche, quali la «Gazzetta di Benevento», dove la parola risulta utilizzata in un comunicato di Renzo Cicatiello di «Articolo Uno Sannio. Parte da Noi con Elly Schlein» del 3 marzo 2023:

Retoricamente, si è alimentata una finta discussione sulle correnti, sulla loro esistenza, sulla loro funzione, senza mai affrontare con la necessaria verità, il tema della differenza, del frazionismo necessario, della fatica della sintesi che diventa unità e non unanimismo.

Ma non mancano testimonianze di esponenti centristi, come Benedetto Della Vedova, nel sito di +Europa, il 12 gennaio 2022, in occasione dell’annuncio dell’alleanza con Azione: «Rimaniamo soggetti distinti ma diamo un segnale in una politica italiana caratterizzata da separazioni e frazionismo».

E troviamo la parola anche in dichiarazioni e testi di esponenti di destra: l’ex leghista Roberto Castelli, in una conferenza stampa del 21 settembre 2023 («agli autonomisti che soffrono di frazionismo: se ci uniamo forse potremo fare sentire la nostra voce, fare sentire la voce del Nord»), la Gioventù Nazionale (organizzazione giovanile di Fratelli d’Italia) di Lamezia Terme, in un post del 6 luglio 2018 su Facebook:

Combattere al tempo stesso, ma con la mentalità squadrista e rivoluzionaria e non certo con il frazionismo sovversivo, la cultura e il modello oggi vigenti, aggredire il capitalismo con l’autonomia e con lo sviluppo di un corporativismo imposto dal basso.

Resta più che probabile che la parola frazionismo frullasse nella testa di Alessandro Giuli in seguito alle sue recenti letture di Gramsci e dintorni; ma la sua riesumazione non cade in un vuoto assoluto.

Le attestazioni sono poche, ma dalla ricostruzione qui presentata si ricava che frazionismo riemerge più di qualche volta dal deposito di parole politiche poco usate, ma non scomparse del tutto.