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La giudice uscente della Corte di giustizia Ue: «Nessuno in Italia ha capito la nostra sentenza sui paesi sicuri dove rimpatriare i migranti» (open.online)

di Franco Bechis

La professoressa Lucia Serena Rossi bacchetta 
magistrati, politici e commentatori e chiarisce: 

«Spetta a ogni singolo paese decidere quella lista dei paesi sicuri»

«Mi sembra che questa sentenza in Italia non l’abbia capita proprio nessuno». È un giudizio tombale sul dibattito che ha infiammato lo scontro fra magistratura Italia e governo guidato da Giorgia Meloni a proposito dei 12 migranti trasferiti in Albania e poi rientrati in Italia per un provvedimento del tribunale di Roma che si basava su una pronuncia della Corte di Giustizia dell’Unione Europea del 4 ottobre 2024.

E il giudizio tranchant riguarda proprio questo testo della Corte di giustizia Ue. In Italia non l’avrebbe capito nessuno: né i giudici che hanno fatto rientrare i migranti dall’Albania, né i politici che hanno reagito o i giornalisti che l’hanno commentato.

A sostenerlo non è un giurista qualsiasi, ma la professoressa Lucia Serena Rossi, che il 28 marzo 2018 fu nominata dal governo di Paolo Gentiloni giudice della Corte di giustizia europea e che ha terminato il suo mandato il 7 ottobre scorso, tre giorni dopo la sentenza che ha fatto tanto discutere.

(Il centro di accoglienza in Albania)

La giudice uscente della Corte rivendica la propria indipendenza da chi l’ha nominata

La professoressa Lucia Serena Rossi ha bocciato tutti i protagonisti italiani in una lettera inviata al Giornale, per replicare a un articolo di Augusto Minzolini che intravedeva la manina sua e di Gentiloni dietro la pronuncia europea che ha fatto da sponda a quella dei giudici italiani che hanno bloccato i trasferimenti in Albania.

Nella lunga lettera la Rossi spiega di non avere vergato lei quella pronuncia e rivendica con orgoglio e una ragionevole spiegazione la sua indipendenza politica, anche dal governo Gentiloni che l’aveva promossa – prima donna nella storia d’Italia- a quel prestigioso ruolo di giudice europeo.

Per questo spiega: «La mia visione, per quanto irrilevante in questa specifica vicenda, deriva dalla mia competenza e dalla mia indipendenza, non certo da affiliazioni politiche o dal desiderio di compiacere l’una o l’altra parte di questo macabro scontro».

Tocca all’Italia e non ad organismi Ue stabilire dove rimpatriare i migranti

Ma è sul punto chiave che la Rossi fornisce un’interpretazione autentica della pronuncia europea assai diversa da quella fornita perfino dai magistrati italiani. «La sentenza, che riguardava un rimpatrio dalla Repubblica Ceca alla Moldavia, in realtà si limita a ribadire che è competenza degli Stati fissare la lista dei Paesi sicuri, aggiungendo che occorre prendere in considerazione tutto il territorio di tali Paesi senza poter escludere zone specifiche e che la lista deve essere riesaminata periodicamente per accertarsi che quei Paesi continuino ad essere sicuri».

In sostanza: non è l’Europa ad indicare la lista dei paesi sicuri in cui rimpatriare i migranti, ma ogni singola nazione che la compone. Quindi nel caso italiano è la legislazione italiana. La Corte di giustizia europea chiede in quelle liste che possono essere diverse per esempio in Francia, Germania e Italia, di considerare ogni parte del territorio per definire “sicuro” un paese dove rimpatriare il migrante.

E chiede anche ai singoli paesi di aggiornare periodicamente quelle liste, perché la situazione potrebbe cambiare negli anni (magari dopo colpi di Stato o eventi particolari che non mancano certo, ad esempio, nella storia delle nazioni africane). Ma è il governo italiano, e non un organismo europeo (né la commissione né la Corte di Giustizia) a definire quella lista di paesi sicuri.

Quel che è avvenuto in modo aggiornato proprio con il decreto-legge del governo Meloni successivo alle sentenze del tribunale di Roma.

Tutte le contraddizioni del governo sulle politiche migratorie (lavoce.info)

di

La politica migratoria del governo Meloni naviga 
a vista tra opposte esigenze: la chiusura delle 
frontiere, la solidarietà con l’Ucraina, 
l’apertura ai lavoratori richiesti dal 
sistema produttivo. 

L’accordo con l’Albania rientra in questo quadro.

Il governo Meloni inalbera la bandiera del sovranismo e della chiusura delle frontiere verso i profughi, ma in realtà ha tre diverse politiche migratorie. Più o meno come gli altri governi europei, ma con una maggiore drammatizzazione, a scopi essenzialmente propagandistici, che ne rende più acute le tensioni interne, le contraddizioni, i conflitti con le norme costituzionali e internazionali.

La prima politica è quella più trascurata, spinta sotto il tappeto perché contraddice l’immagine di una difesa granitica dei confini nazionali: la prosecuzione della buona accoglienza dei rifugiati ucraini, varata d’urgenza dal governo Draghi nel marzo del 2022, ma continuata senza scosse anche sotto l’esecutivo di destra-centro.

Non si tratta precisamente di poche famiglie: il dato si aggira su una cifra di circa 150mila persone, un terzo del numero complessivo dei rifugiati e richiedenti asilo accolti in Italia. È vero che si tratta di una popolazione formata essenzialmente da donne e bambini, che suscitano meno allarme e più compassione; che l’accoglienza dei profughi è stata una reazione insieme politica ed emozionale a un’aggressione ingiusta; che tutta l’Europa ne è partecipe, compresi i governi sovranisti dell’Europa orientale.

Detto tutto questo, l’accoglienza degli ucraini non è priva di costi per il bilancio dello stato e senza conseguenze per i servizi sociali. Nel caso italiano, come in Polonia o in Ungheria, stride particolarmente il contrasto con la sorte riservata ai profughi provenienti dal Sud del mondo.

La seconda politica, anch’essa non nuova ma rafforzata dal governo in carica, consiste nell’apertura nei confronti degli ingressi di lavoratori. Dall’uscita dalla pandemia, e in qualche caso anche prima (Germania, Giappone), si avverte in molte economie avanzate una diffusa carenza di manodopera per molte occupazioni.

Non solo di lavoratori altamente qualificati, già richiesti e ben accolti un po’ ovunque, ma pressoché sconosciuti in Italia, con la sola eccezione del settore sanitario. Pesa il calo degli arrivi dai paesi neo-comunitari, come Polonia, Romania, Bulgaria, che per circa vent’anni avevano fornito ai partner occidentali gran parte dei lavoratori di cui avevano bisogno. Già il governo Draghi aveva alzato le quote d’ingresso e alleggerito le procedure, gravate dall’ossessione securitaria, il governo Meloni, però, è andato oltre.

Ha previsto 452 mila nuovi ingressi in tre anni, perlopiù per lavoro stagionale, ma anche per occupazioni stabili. Ha inoltre cercato di alleggerire ulteriormente i passaggi burocratici, coinvolgendo le associazioni datoriali, ma senza avere il coraggio politico di abolire il decreto flussi e la surreale lotteria dei click-day: una specialità italiana, senza paralleli in Europa.

Anche nel secondo caso il governo italiano è in buona compagnia, ma spicca per l’ampiezza dell’apertura, per le contraddizioni con i suoi indirizzi politici generali, per la difficoltà a rendere operative ed efficienti le proprie decisioni. Dire “vogliamo sceglierli noi”, come ripete la retorica governativa per contrapporre lavoratori e rifugiati, non basta a risolvere i problemi.

Infatti, non è che i lavoratori, una volta insediati anche provvisoriamente, si astengano dall’esprimere domande sociali e culturali: basti pensare a ciò che accade a Monfalcone, dove gli operai bangladesi della cantieristica, tutti regolari, sono il bersaglio di politiche locali che cercano di negare loro il diritto alla libertà di culto o alla pratica del gioco del cricket.

Tre aspetti inoltre colpiscono. Il primo è l’attivismo delle associazioni imprenditoriali, che dopo molti anni di sostanziale silenzio o di prese di posizione scolorite in materia di politiche migratorie, hanno preso apertamente la parola per chiedere maggiori aperture.

Il secondo è lo scarso senso pragmatico: in altri paesi, come Svezia, Germania, in parte Francia, i richiedenti asilo diniegati possono essere assunti o inseriti in percorsi formativi finalizzati all’assunzione, e a quel punto regolarizzati. In Italia si lamenta la mancanza di manodopera e si lasciano vegetare nel sommerso, quando va bene, giovani atti al lavoro e desiderosi d’inserirsi.

L’ideologia prevale sugli interessi del paese e del sistema economico. Il terzo aspetto è la ristrettezza della visione sottostante ai decreti flussi. Richiamano la politica dei lavoratori-ospiti della Germania degli anni Cinquanta e Sessanta. Si pensa soltanto all’ingresso di braccia, senza ragionare su misure di integrazione linguistica, abitativa, familiare.

Il governo sembra dimenticare che insieme alle braccia arrivano le persone, e poi anche le famiglie. Non appare azzardato prevedere che nell’arco di una decina d’anni, con i ricongiungimenti familiari e le nuove nascite, l’apertura alle braccia comporti l’insediamento di almeno un milione di nuovi residenti.

Chiusura netta agli ingressi per ragioni umanitarie

A questo punto entra in scena la terza politica, quella della chiusura verso gli ingressi per ragioni umanitarie. Il governo Meloni, costretto a rinfoderare la spada del sovranismo su altri e più impegnativi dossier, come la solidarietà atlantica con l’Ucraina o il rigore di bilancio richiesto da Bruxelles, ha individuato nella politica dell’asilo il terreno su cui dare soddisfazione alle attese dei propri sostenitori e lucidare la propria immagine ideologica.

Tra l’altro a basso costo, e comunicando persino il messaggio di risparmiare sulle spese per l’accoglienza, avendo accuratamente rimosso il dossier ucraino.

Gli impedimenti frapposti ai salvataggi in mare da parte delle ong, il decreto Cutro con la quasi abolizione della protezione speciale per i rifugiati e la conseguente condanna a una vita di stenti per i richiedenti asilo respinti, ma raramente espulsi, le restrizioni dell’accoglienza dei minori non accompagnati, costretti a convivere per mesi con gli adulti in spregio dei diritti dell’infanzia, i ripetuti viaggi e gli accordi con il regime tunisino e con quello egiziano, oltre a quelli con la Libia, hanno disegnato una linea politica a suo modo coerente.

Il governo italiano sta di fatto rinnegando l’articolo 10 della Costituzione e le convenzioni internazionali sul diritto d’asilo. A un mondo attraversato da crescenti crisi umanitarie risponde con una restrizione di umanità. Se poi, come è probabile, arriveranno un giorno sentenze che limiteranno gli effetti di queste misure, il risultato politico e propagandistico sarà stato comunque raggiunto.

Va aggiunto che l’Unione europea di Ursula von der Leyen, e diversi governi europei, in questa fase mostrano una progressiva convergenza con le posizioni meloniane: pensano di contrastare il populismo sovranista adottandone le proposte.

In questa cornice s’inserisce l’accordo con l’Albania e la realizzazione di centri extraterritoriali per l’esame delle domande di asilo. Meloni non ha esitato a parlare di una misura di deterrenza nei confronti dei potenziali partenti. Il fatto – pure sbandierato – che nei due centri verranno trattenuti soltanto uomini adulti non fragili, tratti in salvo da navi militari e provenienti da paesi classificati come sicuri, conferma l’intenzione punitiva del progetto e dunque l’obiettivo di spargere paura tra i candidati all’asilo.

Non per caso, l’ispirazione è venuta dal progetto britannico di deportazione in Ruanda dei migranti sbarcati dal mare. Già al primo viaggio, quattro naufraghi sono stati però reindirizzati verso l’Italia perché non rientravano nei criteri per l’invio in Albania: erano minorenni, oppure adulti fragili.

Altri interrogativi riguardano sia il livello pratico-operativo, sia quello dei principi. Anzitutto, al di là dei costi (800 milioni di euro in cinque anni secondo il Sole-24Ore, ma il calcolo probabilmente è approssimato per difetto), il piano governativo si concentra su una parte dei richiedenti asilo: 39mila casi all’anno.

Ma si basa sull’ipotesi di trattare le domande di asilo in quattro settimane, grazie a una procedura accelerata, mentre oggi serve mediamente più di un anno, spesso due.

Si prevedono collegamenti online con Roma e altre forzature procedurali. Per accelerare i tempi, si comprimono i diritti dei richiedenti, lasciando loro pochissimo tempo per prepararsi all’audizione, raccogliere la documentazione utile a suffragare la loro richiesta, fare appello alla giustizia in caso di diniego: una settimana soltanto per quest’ultima azione.

Quanto all’elenco dei paesi sicuri, è già emerso il pressapochismo con cui si è mosso il governo Meloni. Qualche mese fa la lista italiana è stata allargata a ventidue paesi, tra cui Egitto, Tunisia, Nigeria, contro nove soltanto della Germania. Casi dunque assai dubbi, “sbiancati” per poter accrescere i dinieghi dell’asilo: non i rimpatri, molto più complicati e costosi.

Poi è stata ignorata la sentenza della Corte di giustizia europea degli inizi di ottobre, che ha condotto all’annullamento del trattenimento dei primi dodici malcapitati. Ora è stata approvata una nuova lista, ridotta a diciannove paesi, senza la Nigeria. Per contro, paesi come Egitto e Tunisia sono stati dichiarati sicuri per tutti, senza eccezioni.

La lunga carcerazione di Patrick Zaki a quanto pare è stata dimenticata. Per evitare altri incidenti di percorso, la controversa lista è stata inoltre incardinata in un decreto-legge che dovrebbe essere più difficilmente attaccabile da parte della magistratura.

Non è chiaro poi che cosa succederà ai richiedenti la cui domanda verrà respinta. Data la scarsa capacità delle autorità italiane di realizzare i rimpatri, si potrebbe pensare a un rilascio in Albania, ma il presidente Rama si è già risolutamente opposto. Si potrebbe così configurare l’esito paradossale di un trasferimento in Italia dei richiedenti diniegati.

In conclusione, il governo Meloni in materia migratoria naviga tra opposte esigenze: quella della chiusura delle frontiere, quella della solidarietà con l’Ucraina, quella dell’apertura ai lavoratori richiesti dal sistema produttivo. Si muove in una materia complicata tra approssimazione, forzature delle regole, ricerca di consenso.

Ogni tanto cade in contraddizione o inciampa in qualche sentenza sfavorevole: numerose le vittorie legali dell’Asgi, Associazione di studi giuridici sull’immigrazione, su varie misure discriminatorie, come quelle in materia di edilizia sociale. Il governo Meloni continua apparentemente a beneficiare di un certo consenso presso l’opinione pubblica, ma suscita anche la reazione della parte più avvertita della società civile.

Il cattivismo programmatico porta voti, ma anche dissenso.

La frociaggine è finita quando anche i busoni hanno cominciato a piazzare i congiunti (linkiesta.it)

di

L’avvelenata

Mutatis mutandis

La profezia di Checco Zalone si è avverata: gli omosessuali sono tali e quali a noi. La prossima battaglia culturale sarà quella di non usare parole a casaccio come pederasta, sentiment o radical chic

Nessuno sa chi abbia detto la battuta più adatta a commentare la questione-Giuli. Se la guglate, vi esce un mio vecchio articolo che con gran sicumera la attribuisce a Beppe Grillo (ma figuriamoci), e uno di Michele Serra che in modo più dubitativo dice che potrebbe essere di Lenny Bruce (già più probabile).

La battuta parla apparentemente d’altro, rispetto al caso-Giuli, caso che procedo a riassumervi casomai in questi giorni foste impegnati a rileggere Proust (quel pederasta, cit. di chat). Alessandro Giuli arriva al ministero della Cultura a sostituire Sangiuliano, e nomina un suo capo di gabinetto, tal Francesco Spano, che le persone normali non avevano mai sentito nominare e gli analfabeti avevano visto criticato dal varietà “Le iene”, che a quanto leggo nel 2017 aveva deciso fosse uno dei cattivi (una garanzia).

Quando Spano si dimette, noialtri normali – noi che per informarci non ci affidiamo ai varietà coi balletti né a programmi senza balletti ma sempre con inviati la cui idea di giornalismo è sputtanare la gente – apprendiamo innanzitutto due cose: in una chat di governo gli hanno dato del «pederasta»; e Spano avrebbe dato al marito (all’unito civilmente) un incarico al Maxxi.

Sull’esistenza di un ossimoro quale «chat di governo» già mi ero espressa e poi ci torniamo; anche su «pederasta» poi ci torniamo, ma sul marito che appena si sistema trova lavoro anche a te io penso immediatamente a quella battuta che chissà di chi era.

La battuta faceva così: il razzismo sarà finito quando si potrà dire che un negro è uno stronzo. Possiamo dunque dire che la frociaggine (cit. papale) è finita quando anche i busoni hanno cominciato a piazzare i congiunti, realizzando la profezia di Checco Zalone: sono tali e quali a noi, noi normali.

Quando mi hanno detto di «pederasta» ho – io ottimista, io sognatrice, io che vivo in un mondo in cui le parole si usano per quel che significano – chiesto se stessero dicendo che andava coi ragazzini. No, mi hanno detto, è che usano parole degli anni Cinquanta. Ah, dicono «pederasta» per dire «busone», non per dire «pedofilo»: ma tu pensa che sciatteria, chi se la sarebbe mai aspettata.

Michele Serra è rimasto colpito dal fatto che, per giustificare l’epiteto, il tizio che l’ha usato avesse detto d’aver riportato il «sentiment» della base. «Mettere nella stessa frase “pederasta” e “sentiment” è quasi un capolavoro: fotografa un’anima arcaica, incallita nei suoi pregiudizi, dentro un involucro finto-moderno, che dicendo “sentiment” invece di opinione si sente in regola con la neolingua dell’aziendalismo e della pubblicità», ha scritto. Io non sono così convinta.

Io temo che dicano «pederasta» e «sentiment» con la stessa noncuranza con cui dicono «sdoganato» di cose mai state ferme in dogana, o «radical chic» di insegnanti di lettere col mutuo; con la sciatteria con cui parlano una lingua a orecchio della cui offensività ci si preoccupa per le ragioni sbagliate: io sono a favore dell’offendere, ma volontariamente.

Gli abitanti di questo secolo usano le parole talmente a casaccio che quando qualcuno s’offende poi trasecolano, non l’avevano fatto apposta, si scusano sinceramente sorpresi dal fatto che le parole significhino cose precise: loro mica ci hanno messo l’intenzione, è solo che non riescono a fare con cura niente, parlano con la distrazione con cui il chirurgo ti lascia le garze nella pancia e il barista ti fa un cappuccino imbevibile.

Hanno il feticcio della laurea, i dottorati in bio, i genitori che li hanno mantenuti fino a quarant’anni acciocché potessero avere titoli di studio da incorniciare in salotto, ma poi quando Alessandro Giuli dice quattro frasi da studenti di filosofia ridono come tredicenni imbarazzati e dicono «supercazzola». Pietro Germi, scusali, tu che li avevi capiti da prima, tu che li avevi pittati così bene da illuderli di stare dalla loro parte. (Io intanto scuso preventivamente tutti quelli che riterranno di notificarmi che “Amici miei” era di Monicelli).

Naturalmente questa destra serve soprattutto ad alimentare la brutta televisione, compito che alla sinistra di questo disastrato secolo riesce chissà perché assai peggio. Quindi un fiorire di talk su Giuli col capo di gabinetto gay che forse ha piazzato il marito (a quanto capisco si sarebbe limitato a rinnovargli un contratto già in essere da molti anni, ma un po’ mi piange il cuore a privarlo della credenziale che lo rendeva tale e quali a noi, noi italiani etero che piazziamo i parenti).

“Report” promette grandi rivelazioni tra cui «un nuovo caso Boccia» per la prossima puntata («un nuovo caso Boccia» è il nuovo «accattatevill’»), e a me viene in mente quella volta che un americano mi disse che il programma di John Oliver lo guardi pensando «che bravi» finché non parlano di un tema che conosci, e quella è in genere la puntata di fronte alla quale ti chiedi come hai potuto finora credere a questa pecionata (come si dice «pecionata» in inglese, si chiederanno i miei piccoli lettori). «Ah, è il vostro “Report”», avevo risposto io, e lui non aveva capito.

L’altra sera, in quello zoo di vetro intitolato “Otto e mezzo”, si parlava dell’omofobia di quelli che a destra avevano voluto le dimissioni di Spano. In rappresentanza di Facebook – «Non mi aspettavo il successo che questo post ha avuto» – Annalisa Terranova, in rappresentanza di Instagram Andrea Scanzi, in rappresentanza della chat del 25 aprile Massimo Giannini, e in rappresentanza di Provita, unico dei quattro social di cui nessuno sappia il numero degli iscritti, Jacopo Coghe.

«Lei s’immagini, mutatis mutandis», dice Coghe, e a me manca tantissimo Germi («mutatis mutandis» non viene liquidato come supercazzola: tecnicamente lo sarebbe – è un riempitivo sonoro, non aggiunge nulla – ma il latino è un crampo dell’intelletto così diffuso che pare normale).

Centinaia di migliaia di associati, giurava Coghe, sembrando il pubblico di “Ok, il prezzo è giusto” quando urlava «Cento, cento, cento», non riuscendo poi a fornire un numero preciso. Gruber insisteva, ma lui niente, e francamente non capisco perché: gli iscritti di Provita sono come gli streaming di Netflix, puoi millantare qualunque enormità, tanto come ti smentisco?

Non si può trasformare il primo partito d’Italia in un partito confessionale, ammoniva la Terranova, e io sognavo un paese migliore, un secolo migliore, un parterre migliore in cui ci fosse qualcuno di abbastanza spiritoso da rispondere «Certo, mica siamo Israele».

Tutti (tranne Coghe) stigmatizzavano l’uso retrivo di «pederasta», e io pensavo a Tony Blair, che un mese fa ha detto ad Aldo Cazzullo «mi colpisce la disinvoltura con cui oggi molti leader usano Whatsapp, Telegram, Signal e varie piattaforme per comunicare».

L’occidente è finito il giorno in cui, per essere acclamato come statista di vaglia e gigante del pensiero e dell’azione, è bastato capire che forse non era il caso di dire cose istituzionali nelle varie chat dei Finzi Giannini.

(Stanley Dai)

Creatori di contenuti, trollate e analfabetismo digitale (butac.it)

di 

Siamo stati taggati sotto a un post di un profilo X con un seguito di oltre diecimila follower, che riporta un video accompagnato da questo testo:

Abituato a imporre i propri costumi nella metropolitana, un giovane riceve un calcio da un buon patriota francese. Razzismo o meritato?

E, come nel caso del bambino rapito dalla Tesla e portato nel deserto, siamo di fronte a un classico caso di utente della rete che non ha le capacità necessarie per distinguere tra fiction e realtà.

Sia chiaro, vista la mole di video come questi – che solitamente vengono diffusi da creator che hanno compreso quanto le piattaforme diano loro visibilità a contenuti del genere – comprendiamo benissimo come si faccia fatica a distinguere, ed è proprio per questo motivo che vi invitiamo a non condividere a meno che non siate certi al 100% delle informazioni che state contribuendo a far circolare, il rischio è farci immani figuracce e indignarvi per un contenuto fasullo, creato apposta per generare quel tipo di viralità, oppure usarlo come argomentazione per sostenere le vostre posizioni su argomenti controversi, dimostrando di non potervi basare su fatti verificati.

Nel caso specifico siamo di fronte a una celebrità del web belga, Mr Boris Becker (nome d’arte di Bule Mbelu), così noto da avere anche una pagina WikipediaSi tratta di un ballerino e creatore di contenuti che su Instagram ha 2,6 milioni di follower, su TikTok un milione, su YouTube oltre 800mila.

Casi come questo sono la perfetta dimostrazione di quanto sia facile cadere vittime di contenuti costruiti ad arte per alimentare viralità e indignazione e contribuire al disordine informativo.

La capacità di distinguere tra realtà e finzione è sempre più messa alla prova dalla rete di oggi, sia a causa di chi sfrutta le piattaforme social per diffondere falsità a fini di visibilità, sia da chi sta platealmente trollando.

Non crediamo sia necessario aggiungere altro.

Ucraina, Usa, Taiwan. Quei contatti segreti tra Elon Musk e Putin (ildubbio.news)

di Alessandro Fioroni

Il Wall Street Journal rivela che il patron di 
SpaceX avrebbe oscurato il suo  Starlink 
sull’isola per favorire Xi Jinping

Che il super multi miliardario Elon Musk, proprietario di Tesla, SpaceX e X, sia un personaggio contraddittorio e dai tratti sulfurei non è un mistero.

La sua influenza ormai ha abbondantemente travalicato il mondo del business tecnologico e si estende anche su tutto lo scacchiere internazionale comprese le aree di crisi e i suoi risvolti geopolitici.

I suoi rapporti e il sostegno a Donald Trump sono acclarati e ora sono le rivelazioni del quotidiano statunitense Wall Street Journal a gettare una nuova luce, ancora più inquietante se possibile, sul tycoon sudafricano naturalizzato statunitense.

Secondo le fonti investigative del Journal, che cita diversi funzionari ed ex funzionari statunitensi, europei e russi, Musk sarebbe in contatto continuo da almeno due anni con Putin. I colloqui sarebbero continuati quest’anno, proprio quando Musk ha iniziato a intensificare le sue critiche al sostegno militare degli Stati Uniti all’Ucraina ed è stato attivamente coinvolto nella campagna elettorale del candidato repubblicano ed ex presidente che è sempre stato ondivago sull’appoggio a Kiev.

Nell’ottobre 2022, Musk ha anche iniziato a twittare una serie di punti di discussione del Cremlino sulla guerra, che ha presentato come un piano di pace, ma ha scatenato una forte opposizione da parte degli alti funzionari ucraini, nonché dello stesso presidente Volodymyr Zelenskyy. Le conversazioni tra l’imprenditore e il presidente russo dunque avrebbero riguardato non solo questioni personali e affari ma anche le tensioni geopolitiche.

Le fonti interpellate dal giornale finanziario statunitense hanno rivelato alcuni accadimenti come quello che avrebbe visto Putin chiedere a Musk di non attivare il suo servizio Internet satellitare Starlink su Taiwan come favore, per interposta persona al presidente cinese Xi Jinping.

Ma esiste una circostanza che mostrerebbe tutta la spregiudicatezza del proprietario di X, perché l’accesso al suo servizio di tecnologie satellitari è stato fornito gratuitamente all’Ucraina dopo che Putin ha lanciato la sua invasione su vasta scala nel febbraio 2022.

Poi deve essere mutato qualcosa negli intendimenti di Musk, Starlink infatti è stato salutato come uno strumento importante per la capacità dell’Ucraina di combattere contro le forze russe, ma le relazioni tra il magnate tecnologico e le autorità ucraine si sono raffreddate pian piano nel corso della guerra e Musk ha smesso di finanziare i terminali per l’Ucraina e ha persino limitato l’uso di Starlink da parte delle sue forze armate per controllare i droni.

Contemporaneamente sarebbero iniziati i colloqui con il capo del Cremlino. Fino ad arrivare all’inizio di quest’anno quando i rapporti dell’intelligence militare ucraina hanno affermato che il servizio satellitare di Musk veniva addirittura utilizzato dall’esercito russo per individuare le postazioni dei militari di Kiev.

Lo scoop del WSJ arriva in un momento critico della campagna elettorale degli Stati Uniti, con il potere dell’uomo d’affari che, attraverso la sua piattaforma di social network e le sue società tecnologiche come SpaceX, gode di contratti governativi e autorizzazioni di sicurezza di alto livello per le informazioni classificate della Casa Bianca.

Pochi giorni fa, nel corso di un evento elettorale a sostegno di Trump in Pennsylvania, Musk ha menzionato le sue credenziali per l’accesso a informazioni governative riservate: «Ho un’autorizzazione top secret, ma devo dire che come per la maggior parte delle cose di cui sono a conoscenza la ragione per cui le tengono segrete è che sono estremamente noiose». Ma è più che legittimo che i rapporti con Putin, se dimostrati, metterebbero in seria crisi la politica Usa e i suoi alleati.

Per il momento una reazione è arrivata direttamente da Mosca con il portavoce di Putin, Dmitry Peskov, secondo il quale l’unica comunicazione del Cremlino con Musk è stata una telefonata in cui si e discusso di solo di spazio, così come di tecnologie attuali e future, il tutto in modo generico. Mosca dunque afferma che si tratta di informazioni assolutamente false, quelle pubblicate sul giornale americano. Musk invece non ha ancora reagito alle notizie e nemmeno alle richieste di commento da parte del Wall Street Journal.