Personalizza le preferenze di consenso

Utilizziamo i cookie per aiutarti a navigare in maniera efficiente e a svolgere determinate funzioni. Troverai informazioni dettagliate su tutti i cookie sotto ogni categoria di consensi sottostanti. I cookie categorizzatati come “Necessari” vengono memorizzati sul tuo browser in quanto essenziali per consentire le funzionalità di base del sito.... 

Sempre attivi

I cookie necessari sono fondamentali per le funzioni di base del sito Web e il sito Web non funzionerà nel modo previsto senza di essi. Questi cookie non memorizzano dati identificativi personali.

Nessun cookie da visualizzare.

I cookie funzionali aiutano a svolgere determinate funzionalità come la condivisione del contenuto del sito Web su piattaforme di social media, la raccolta di feedback e altre funzionalità di terze parti.

Nessun cookie da visualizzare.

I cookie analitici vengono utilizzati per comprendere come i visitatori interagiscono con il sito Web. Questi cookie aiutano a fornire informazioni sulle metriche di numero di visitatori, frequenza di rimbalzo, fonte di traffico, ecc.

Nessun cookie da visualizzare.

I cookie per le prestazioni vengono utilizzati per comprendere e analizzare gli indici di prestazione chiave del sito Web che aiutano a fornire ai visitatori un'esperienza utente migliore.

Nessun cookie da visualizzare.

I cookie pubblicitari vengono utilizzati per fornire ai visitatori annunci pubblicitari personalizzati in base alle pagine visitate in precedenza e per analizzare l'efficacia della campagna pubblicitaria.

Nessun cookie da visualizzare.

Sicurezza sul lavoro, in Italia tre morti al giorno (vanityfair.it)

di

A Montecitorio tre giorni di Stati Generali 
della Salute e Sicurezza sul lavoro 
(29-31 ottobre), organizzati dalla Commissione 
d’inchiesta sulle condizioni di lavoro e 
dalla Camera. 

Denunce in aumento nei primi sette mesi del 2024 rispetto all’anno scorso. Venerdì 25 ottobre l’esplosione alla Toyota di Bologna che ha causato la morte di due persone

Ogni giorno in Italia ci sono più di tre morti sul lavoro. È una media, ma la cronaca la racconta quotidianamente. La morte di due operai alla Toyota di Bologna venerdì 25 ottobre è solo l’ultimo caso salito alle cronache nazionali, ma ci sono incidenti ogni giorno. Le denunce di infortunio presentate all’Inail nei primi sette mesi del 2024 sono state 350.823, in aumento dell’1,7% rispetto alle 344.897 dello stesso periodo del 2023.

Le denunce di infortunio sul lavoro con esito mortale presentate nei primi sette mesi del 2024 all’Inail sono state 577, 18 in più rispetto alle 559 registrate nel pari periodo del 2023. Rapportando il numero degli infortuni denunciati a quello degli occupati, secondo i dati provvisori di luglio 2024, ci sono state 1461 denunce di infortunio ogni 100mila occupati Istat nel 2024. Erano 1.635 nel 2019 con un calo del 10,6%. Rispetto al 2023 la riduzione è dello 0,4%.

Nella relazione annuale 2023 l’Inail riporta 590.215 denunce di infortuni, di cui 1.147 con esito
mortale, in media 3 al giorno. L’analisi dei settori più colpiti evidenzia che un quarto degli infortuni in occasione di lavoro del 2023 è concentrato nel comparto manifatturiero, seguito da sanità e assistenza sociale (14%), costruzioni (13%), trasporto e magazzinaggio (12%) e commercio (11%). Anche le malattie professionali sono in aumento: con 76.210 denunce registrate nel 2023, +19,8% rispetto alle 60.633 mila dell’anno precedente.

La richiesta da ogni parte è di prevenzione. Questo il monito al centro dello spot** La prevenzione è la soluzione**, che vede protagonista il rapper e conduttore televisivo Clementino e i Tecnici della prevenzione negli ambienti e nei luoghi di lavoro. Dal 28 ottobre al 2 novembre 2024, lo spot sarà trasmesso sui canali della Rai per sensibilizzare il pubblico sull’importanza delle misure di sicurezza nei luoghi di lavoro.

Lo spot, girato presso la Reggia di Caserta e diretto da Luciano Fontana, è promosso dalla Commissione di albo nazionale dei Tecnici della prevenzione nell’ambiente e nei luoghi di lavoro della Federazione nazionale degli Ordini delle professioni sanitarie tecniche, della riabilitazione e della prevenzione.

La Commissione di albo nazionale dei TPALL, consapevole dei mutamenti nel mondo del lavoro, propone un nuovo un cambio di paradigma, che va oltre la semplice repressione delle infrazioni, puntando su iniziative concrete. Tra queste, l’introduzione di programmi educativi sulla sicurezza nelle scuole e la possibilità per le aziende di detrarre il 120% degli investimenti destinati alla tutela della salute e sicurezza sul lavoro.

Tra le proposte, inoltre, una riforma dell’accesso alle qualifiche per le figure chiave della sicurezza nelle aziende e nei cantieri temporanei e mobili.

Nei Piani mirati di prevenzione è previsto un coinvolgimento attivo delle imprese nell’adozione delle migliori pratiche senza il timore di sanzioni, e il potenziamento degli organici dei Dipartimenti di prevenzione delle Aziende sanitarie locali, in linea con il numero di imprese presenti sul territorio.

La Commissione di albo nazionale dei TPALL, propone l’istituzione di spazi di confronto e supporto per le aziende, oltre al miglioramento della qualità e dell’efficacia della formazione obbligatoria dei lavoratori, con l’obiettivo di promuovere una maggiore consapevolezza del “valore del proteggersi”.

Dal 29 al 31 ottobre a Montecitorio gli Stati Generali della Salute e Sicurezza sul lavoro, organizzati dalla Commissione d’inchiesta sulle condizioni di lavoro e dalla Camera dei deputati.

«In questi mesi che hanno visto la Commissione parlamentare lavorare sulle recenti grandi stragi sul lavoro avvenute in Italia (tra queste: Brandizzo, Casteldaccia, Latina) e su tante altre tematiche riguardanti i diritti e la dignità del lavoro (dalle problematiche della cantieristica navale all’impatto dell’Ia sul lavoro ) è emersa la necessità di un più ampio confronto a livello nazionale su salute e sicurezza nei luoghi di lavoro», dice Chiara Gribaudo, vicepresidente del partito democratico, «per fare il punto sulla situazione in Italia e, al di là di ideologismi e interessi di parte, affrontare, tutte e tutti insieme, seriamente e in maniera concreta la questione, fondamentale per la nostra Repubblica, fondata sul lavoro».

La giornalista della tv russa sanzionata alimenta il circo della propaganda di Mosca (linkiesta.it)

di

Stampa e regime

La corrispondente della tv di Stato Rossiya 1 Asya Emelyanova diffonde nel nostro paese le narrazioni del Cremlino in modo aggressivo contro Stefania Battistini e gli eurodeputati Pd.

La sua testata è sotto sanzioni dell’Unione Europea, il regolamento del Consiglio Ue parla chiaro ma né il governo né l’Associazione Stampa Estera fanno nulla

Nel corso di queste ultime settimane, su queste pagine abbiamo raccontato le modalità di ingaggio, finanziamento e canalizzazione delle campagne disinformative nel nostro Paese, suscitando la reazione di molti dei protagonisti, che in modo più o meno composto hanno reagito alzando il tiro con atti provocatori e tentativi di distorsione della realtà e anche campagne diffamatorie, in pieno stile putiniano.

Tra queste personalità spicca Asya Emelyanova, corrispondente della tv di Stato russa, Rossiya 1, media sanzionato dal Consiglio dell’Unione Europea.

Emelyanova, nel corso di questi mesi, si è resa protagonista di un attivismo che per modalità operativa la colloca come agente straniero nel nostro Paese. Oltre alla campagna diffamatoria, di tracciamento e di violenza verbale nei confronti dell’inviata Rai, Stefania Battistini, del suo cameraman Simone Traini, sui cui pende un mandato di arresto del Cremlino per aver seguito (rispettando le convenzioni internazionali sul giornalismo di guerra) le truppe ucraine nell’invasione strategica della regione di Kursk, la corrispondente dell’emittente russa ha provato ad accreditarsi al seminario organizzato a Strasburgo dal Parlamento Europeo in occasione del Premio Daphne Caruana Galizia.

Accredito respinto dagli uffici della Direzione Generale della Comunicazione del Parlamento Europeo perché appunto la testata risulta essere sanzionata.

Asya Emelyanova ha cercato quindi di aggirare un blocco che sapeva essere già pendente su di lei, per intimidire in modo collaterale Stefania Battistini, presente all’evento di Strasburgo, e per marcare una pressione psicologica nei confronti della giornalista che vive sotto scorta dal momento del suo ritorno in Italia.

Qualche giorno dopo, la giornalista si è spostata invece a Sciacca, dove l’amministrazione comunale, dopo la segnalazione di questo giornale, ha deciso di annullare un evento sulle adozioni internazionali nel Donbas, che avrebbe visto la presenza da remoto anche del propagandista italiano Vincenzo Lorusso, autore del documentario “Donbas” prodotto da Russia Today (testata anch’essa sanzionata).

Emelyanova si è piazzata davanti al Comune, alla ricerca dei responsabili del ritiro del patrocinio e della sala, per confezionare un servizio per la Tv di Stato russa, che ha poi condiviso sui suoi canali social, in cui raccontava l’accaduto, sostenendo che il Partito Democratico avrebbe affamato gli orfani del Donbas, e che gli autori della segnalazione alle autorità «dovrebbero vergognarsi perché hanno compiuto un atto di crudeltà», tesi sostenuta anche da Lorusso che in varie dirette ha attaccato gli eurodeputati del Pd, sostenendo che «hanno bloccato gli aiuti umanitari per il Donbas». Ovviamente, nulla di questo corrisponde al vero, ma è stato il solo il pretesto per un’opera di propaganda antieuropea in Russia.

Questo è solamente l’ultimo episodio che abbiamo registrato di totale infrazione delle sanzioni. Consultando il Regolamento del Consiglio dell’Unione Europea 1214/2023, concernente le misure restrittive ai media russi dopo l’invasione estesa dell’Ucraina, oltre alla sospensione (punto 23) delle licenze di radiodiffusione nell’Unione di cinque organi di informazione russi sotto lo stabile controllo della leadership russa (tra cui Rossiya 1, tv della Federazione russa per cui lavora la signora Emelyanova) e il divieto di diffonderne i contenuti, si legge che «da tempo la Russia attua una sistematica campagna internazionale di manipolazione dei media e di distorsione dei fatti (punto 24), nell’intento di giustificare e sostenere la sua guerra di aggressione contro l’Ucraina, la Russia lancia iniziative continue e concertate di propaganda (…) (punto 25), distorcendo gravemente i fatti e manipolando la realtà».

Tali iniziative rappresentano una minaccia consistente e diretta all’ordine pubblico e alla sicurezza dell’Unione. Nel punto 27, il regolamento dichiara che «vista la gravità della situazione, e in risposta alle azioni della Russia che destabilizzano la situazione in Ucraina, è necessario (…) introdurre ulteriori misure restrittive per sospendere le attività di radiodiffusione di tali organi di informazione nell’Unione o dirette all’Unione. Le misure dovrebbero essere mantenute fino a quando la guerra di aggressione contro l’Ucraina non sarà cessata (…)».

Lo stesso regolamento precisa (punto 28) che «tali misure non impediscono agli organi di informazione e al loro personale di svolgere nell’Unione attività diverse dalla radiodiffusione, come la ricerca e le interviste», «coerentemente con i diritti e le libertà fondamentali riconosciuti nella Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea, in particolare con il diritto alla libertà di espressione e di informazione, la libertà d’impresa e il diritto di proprietà sanciti dagli articoli 11, 16 e 17 della stessa».

Un regolamento chiaro, disatteso da Asya Emelyanova che invece ogni giorno compie sul territorio azioni tese ad accreditare le tesi del Cremlino facendo sponda con altri propagandisti come Andrea Lucidi e Vincenzo Lorusso. Le interviste e le attività di ricerca che sono giustamente consentite per raccontare l’Italia fuori dai confini non sono quelle che Rossiya 1 realizza nel nostro Paese.

Intimidire, inseguire, tracciare, enfatizzare le campagne di disinformazione sono il riflesso di un lavoro di guerriglia ibrida di concerto con gli apparati del ministero degli Affari esteri di Mosca, e che l’Italia continua a non sanzionare.

Ma se da chi ha messo l’Italia, le sue istituzioni e la sua democrazia tra gli obiettivi c’è da aspettarsi tutto questo, crea invece sconcerto il silenzio dell’Associazione Stampa Estera che, incurante delle sanzioni ai media russi, continua a ospitare e a offrire assistenza logistica e informativa ad Asya Emelyanova e a tutti coloro che partecipano alla caccia al giornalista italiano. Nessuna sanzione viene applicata, nessun distinguo viene effettuato da chi rappresenta l’insieme dei corrispondenti stranieri nel nostro Paese.

Abbiamo chiesto all’ex presidente Esma Çakir un commento su queste vicende, ma non ci ha voluto rispondere, dicendoci che non essendo più la legale rappresentante dell’Associazione avremmo dovuto chiedere al nuovo presidente, Marteen van Aalderen, corrispondente del quotidiano olandese De Telegraaf, il quale però non ha risposto alle nostre domande.

Forse anche loro ignorano le sanzioni europee (Çakir era presidente fino a qualche mese fa), forse anche loro hanno scelto da che parte della storia stare, quella di chi giustifica la repressione contro dissidenti e giornalisti, di chi ne fa perdere le tracce e ne dichiara la morte durante gli spostamenti da un carcere all’altro?

Non è dato saperlo, così come non è dato sapere cosa ne pensa il governo italiano, che forse dimentica di essere un obiettivo del Cremlino, che si cela dietro la debolissima linea della Farnesina fatta di stupori e tremori, di silenzi mascherati da soft power, di nascondimento fatto passare per lavoro sotterraneo.

Da qualsiasi prospettiva si legga questa storia, si nota una debolezza italiana che diventa colpevolezza per tutto quello che stiamo regalando a un regime illiberale.

Anche per questo la Russia non è nostra amica, ma la peggior nemica del nostro futuro.

Reagire al coinvolgimento nordcoreano in Ucraina vuol dire escalation. E non farlo? (ilfoglio.it)

di Adriano Sofri

Piccola posta

La Corea del nord era lo stato dal cui fanatismo demenziale ci si poteva soprattutto aspettare una mossa nucleare. La questione resta, e non è un caso che ad avvertire dell’intervento di Pyongyang in Ucraina sia stata per prima la Corea del sud

Non sopportava di venire scavalcata dagli eventi, la sindrome nordcoreana. Vediamo se ho capito bene. Nella guerra di aggressione russa all’Ucraina, ambedue i combattenti, gli aggressori e i difensori, hanno degli alleati più o meno ufficiali, più o meno stretti.

Dal lato russo (uso sempre nomi come Russia e aggettivi come russo riferendoli al regime vigente e al suo capo, Vladimir Putin) c’è per esempio la Bielorussia, uno stato formalmente indipendente, dittatoriale nei confronti dei suoi cittadini, asservito economicamente e militarmente alla Russia, cobelligerante con qualche prudenza di facciata (la Cecenia di Kadyrov è invece una repubblica della Federazione russa, libera di fornire scherani). Poi c’è la vasta gamma degli alleati più o meno ufficiosi, a cominciare dall’Iran.

Dalla parte dell’Ucraina c’è soprattutto la Nato. La Nato, e a modo loro i suoi singoli stati, hanno via via fissato una lunga serie di limitazioni al loro sostegno.

Due di queste condizioni, le più influenti, sono tuttora in atto: il divieto all’impiego di armamenti di lunga gittata oltre il confine ucraino-russo, e il rifiuto della partecipazione diretta di militari della Nato sul campo ucraino. 

Alcuni governanti di singoli stati hanno bensì dichiarato di essere favorevoli alla fornitura di missili utilizzabili oltre il confine. Alcuni altri, sia pure in forma ipotetica e, come educatamente si dice, provocatoria, hanno ventilato l’intervento di truppe nel territorio ucraino, come fece Macron. Sono finora rimaste espressioni retoriche. In qualche caso, si è sostenuta come perennemente invalicabile la proibizione all’intervento diretto di proprie forze armate: così, con speciale enfasi, da parte del governo italiano.

Tutto ciò si riassume nella constatazione annosa del forte squilibrio fra la Russia, che combatte sul territorio ucraino e non conosce limiti ai luoghi da colpire con tutti i suoi congegni bellici, e l’Ucraina, le cui escursioni in territorio russo sono a volte avventurose ma rare, circoscritte, ed eseguite solo con le sue forze.

Questa la premessa, allo stato. Ora uno stato indipendente, la Corea del nord, riconosce e anzi vanta la partecipazione sul campo ucraino di proprie armi e truppe. La Corea del nord è, proverbialmente, il più grottescamente canaglia degli stati canaglia, si vanta come una potenza nucleare, e prima che la Russia dell’invasione rimettesse all’ordine del giorno la minaccia esplicita e ostentata del ricorso all’atomica, era lo stato dal cui fanatismo demenziale poteva soprattutto aspettarsi una mossa nucleare.

Benché la gara si sia precipitosamente infittita, la questione resta, e non è un caso che ad avvertire dell’intervento di Pyongyang in Ucraina sia stata per prima la Corea del sud.

L’escalation è la parola magica del nostro tempo. Per restare alla retorica vigente, il compito supremo della comunità internazionale è di sventare l’escalation – anche il più mancato. L’esercito nordcoreano sul fronte ucraino è una fragorosa tappa dell’escalation. Rispondere, vuol dire compiere un altro passo nell’escalation. Non rispondere, che cosa vuol dire?

I governanti di qualunque paese democratico hanno le migliori ragioni per ricordare di non essersi messi in politica, di non aver cercato e ottenuto il sostegno degli elettori, per affrontare questioni di una tale portata. Di guerra e di pace, e di una simile dimensione della cosiddetta guerra e delle sue conseguenze.

Basta guardarle, guardarli, per sentirne l’inadeguatezza, che appare in quanto tale anche il loro pregio, il loro riscatto: non sono loro a non essere all’altezza, sono le cose e i loro peggiori attori ad aver superato la misura. L’altezza d’uomo – di donna.

La conclusione più umana è quella: non vorrei essere nei loro panni. Ancora più umana, se completata da un dettaglio: non vorrei essere nei panni di una famigliola di Zaporizhia.

“Il ragazzo dai pantaloni rosa”, genitori di una scuola di Treviso si oppongono alla proiezione del film (orizzontescuola.it)

A Treviso, un gruppo di genitori di una scuola ha 
espresso contrarietà alla proiezione del film 
“Il ragazzo dai pantaloni rosa”, pellicola 
incentrata sul tema del bullismo e ispirata 
alla storia vera di Andrea Spezzacatena. 

Il sindaco della città, esponente della Lega, è intervenuto sulla vicenda, manifestando la propria intenzione di promuovere la visione del film e definendo la mancata proiezione “un’occasione persa per approfondire temi rilevanti e complessi della nostra società”.

Il film, recentemente presentato al Festival di Roma, era stato programmato per essere proiettato il 4 novembre agli studenti della scuola di Treviso, con posti già riservati per l’evento, ma alcune famiglie hanno avanzato la richiesta alla dirigenza scolastica di escludere i ragazzi dalla visione della pellicola, che tratta tematiche delicate come l’omofobia, la depressione e il suicidio.

In risposta alla decisione di sospendere temporaneamente la proiezione, il sindaco ha evidenziato la rilevanza del film come strumento educativo. Ha affermato che ignorare o evitare il confronto su argomenti come il bullismo e l’omofobia non rappresenti una soluzione adeguata, sottolineando la necessità di una riflessione comunitaria su problematiche sociali attuali.

Il dibattito sulla proiezione a Treviso giunge poco dopo un episodio analogo accaduto durante un’anteprima riservata alle scuole a Roma, dove il film è stato accolto con fischi e insulti, generando la reazione del ministro Valditara, che ha espresso indignazione per l’accaduto, interpretandolo come un segnale preoccupante di atteggiamenti omofobi diffusi.

La dirigenza dell’istituto di Treviso ha precisato che la proiezione del film non è stata cancellata, ma solo temporaneamente sospesa. La decisione finale riguardo alla visione del film per gli studenti sarà valutata nei prossimi giorni, con l’obiettivo di bilanciare le diverse istanze emerse all’interno della comunità scolastica e rispondere in modo adeguato alle preoccupazioni delle famiglie e delle istituzioni locali.

Messaggi dietro le quinte (corriere.it)

di Paolo Mieli

Tra America e Cina

Autodifesa proporzionata.

Con queste parole il presidente degli Stati Uniti d’America e la sua vice (nonché candidata per il Partito democratico alle elezioni presidenziali che si terranno tra nove giorni) Kamala Harris hanno definito l’attacco israeliano all’Iran. Con l’aggiunta di un avvertimento al Paese preso a bersaglio: «Teheran non risponda».

In effetti la cosiddetta «Operazione giorni di pentimento» non ha colpito l’Iran in maniera devastante pur essendo durata quattro ore e avendo provocato alcuni (pochi) morti. Come del resto non era stato drammaticamente distruttivo, il 1° ottobre scorso, il lancio di missili e droni da parte dell’Iran sul territorio israeliano.

Sono parse entrambe più una manifestazione di ostilità e di potenza da esibire ai propri popoli che azioni di guerra vere e proprie. Netanyahu oltretutto ha fatto precedere il suo lancio di missili da una lunghissima attesa e da consultazioni anche personali con i vertici statunitensi. Inoltre, non ha colpito né gasdotti né centrali nucleari. E ha provocato danni forse ingenti ma che gli iraniani sono in grado di minimizzare.

Inoltre, i due Paesi, sia all’inizio di ottobre che ieri, si sono scambiati messaggi trasversali avvertendosi l’un l’altro del momento in cui avrebbero attaccato e, secondo alcune fonti, segnalandosi reciprocamente gli obiettivi verso i quali si sarebbero indirizzati. In modo da ridurre al minimo il numero dei morti.

Ammesso che tutto ciò sia vero, si è trattato di operazioni delicatissime. Di quelle che possono facilmente sfuggire di mano. Ragion per cui sarebbe sciocco sottovalutarle e trattarle come semplici rappresentazioni di una guerra che in senso proprio non sarebbe (ancora) in atto. Ma lo sforzo del giorno successivo di illustrare i successi dell’iniziativa (l’Iran un mese fa, ieri Israele) appaiono viziati da un eccesso di enfasi.

In più, sempre attraverso canali clandestini (non si sa quanto affidabili), l’Iran avrebbe fatto sapere che, in contrasto con le pubbliche minacce di rappresaglia, stavolta non reagirà. Il che può voler dire che, se reagirà, lo farà in modo assai diverso e più violento. E che quelle di ottobre possono essere considerate alla stregua di una prova generale. Per Israele, ovviamente, vale lo stesso discorso.

Se ne può dedurre che la vera novità della giornata sia stata la reazione della Casa Bianca. Così diversa da quelle che nei mesi scorsi insistevano sulla «sproporzione» delle reazioni israeliane e sfioravano appena il tema dell’«autodifesa» di Gerusalemme dall’aggressione di formazioni militari ispirate da Teheran.

Tra le righe della dichiarazione del duo Biden-Harris si leggono poi due messaggi. Il primo, pressoché esplicito, ai capi del governo israeliano: concordate con noi ogni passaggio futuro, quantomeno della parte del conflitto che riguarda direttamente l’Iran e vi sosterremo alla maniera dei vecchi tempi.

Il secondo, più obliquo, è rivolto all’Arabia Saudita. In che senso? L’interpretazione corrente del pogrom del 7 ottobre è che esso sia stato incoraggiato e forse anche ideato da Teheran per impedire che l’Arabia Saudita si facesse coinvolgere negli «Accordi di Abramo».

Accordi nati da una dichiarazione congiunta tra Stati Uniti, Israele ed Emirati Arabi Uniti (13 agosto 2020) che prevedevano un riconoscimento reciproco in cambio di un impegno alquanto vago a far nascere uno Stato palestinese. E infatti dopo l’attacco di Hamas, l’Arabia Saudita, pur senza compromettersi con il conflitto, ha sospeso ogni trattativa (che sembrava essere a buon punto) in «direzione Abramo».

Non solo. A marzo, su iniziativa cinese, i rappresentanti dell’Iran sciita e dell’Arabia Saudita sunnita — due Paesi da lungo tempo tra loro ostili che per un discreto periodo avevano interrotto le relazioni diplomatiche (dal 2016) e si sono combattuti in Yemen per interposte milizie — si erano incontrati e avevano stabilito un dialogo da essi stessi definito proficuo. A tal punto proficuo che la settimana scorsa Iran e Arabia Saudita avevano annunciato una manovra navale congiunta.

Questo piccolo capolavoro cinese aveva colto di sorpresa la maggior parte degli osservatori e spostava la collocazione internazionale dell’Arabia Saudita. Allontanandola da Washington e avvicinandola, più che a Teheran, a Pechino. Tra le righe dell’asciutto ancorché esplicito commento statunitense si nasconderebbe un avvertimento all’Arabia Saudita: gli Stati Uniti considerano un atto di inimicizia ogni alleanza con l’Iran.

Non si può infine non notare che con le due parole di cui abbiamo detto all’inizio (quella di Gerusalemme sarebbe un’«autodifesa proporzionata») Kamala Harris rischia di vanificare a pochi giorni dalle elezioni il gigantesco sforzo che aveva fatto per recuperare il voto di quella parte del Paese, soprattutto giovanile, fortemente antiisraeliana e poco amante dei distinguo. Sembra evidente che di ciò fosse consapevole.

E che, se ha deciso di non lasciare l’incombenza al solo Biden, quella dichiarazione contenga più di quello che riusciamo ad immaginare.

Cittadinanza, le nuove richieste mettono in crisi uffici e tribunali (ilsole24ore.com)

Burocrazia

Domande in forte aumento. La gran parte arriva da Argentina e Brasile

La forte crescita delle richieste di riconoscimento della cittadinanza per ius sanguinis sta mettendo in difficoltà uffici comunali, consolati e tribunali, cioè i soggetti cui il cittadino straniero può rivolgersi per ottenere il passaporto italiano.

Infatti il riconoscimento della cittadinanza (un diritto stabilito fin dal 1865 per garantire ai figli degli emigrati di mantenere il legame con l’Italia) si può far valere per via amministrativa con una richiesta al Comune in cui l’avo italiano risiedeva se anche il richiedente risiede nello stesso Comune o, se risiede all’estero (ed è la grande maggioranza dei casi), rivolgendosi all’ufficio consolare territorialmente competente.

Se i tempi di attesa del canale amministrativo sono molto lunghi ci si può rivolgere al tribunale. La via giudiziale è poi l’unica percorribile se l’antenata era una donna poiché prima del 1948 la trasmissione del diritto era solo per via paterna.

All’estero consolati e ambasciate sono sotto stress, soprattutto in Brasile e in Argentina, con liste d’attesa molto lunghe: in alcune sedi si parla di oltre dieci anni per avere un appuntamento. Secondo l’indagine Anusca-Istat, nel 2023, il 68,5% dei nuovi passaporti italiani è stato attribuito a cittadini brasiliani e il 19,9% a cittadini argentini.

«È un’ondata collegata alla discendenza degli emigrati tra il 1876 e il 1925 – spiega Giancarlo Gualtieri, responsabile Istat dell’area Presenza straniera e integrazione dei cittadini con background migratorio –. Nelle Americhe furono quasi nove milioni, di cui 3,5 in Brasile e Argentina, Paesi in cui le crisi economiche e politiche stanno spingendo le persone a recuperare il passaporto italiano poiché apre le porte dell’Unione europea e permette un accesso più facile anche negli Stati Uniti. In futuro i flussi potrebbero mantenersi consistenti».

Visto l’affanno di consolati e ambasciate, molti residenti all’estero presentano la domanda in tribunale: fino a giugno 2022 l’unico foro competente era quello di Roma; la riforma della giustizia ha poi deciso di decentrare queste controversie sul territorio, affidandole alle sezioni immigrazioni dei tribunali in base al comune di nascita del genitore o dell’avo.

Una novità che ha mandato in tilt gli uffici in tutte le aree più toccate dall’emigrazione, con effetti che rischiano di pesare anche sugli obiettivi Pnrr di riduzione dei tempi della giustizia.

«Nel 2023 il 52% dei riconoscimenti per via giudiziale è stato deciso dal Tribunale di Venezia – dice Salvatore Laganà, presidente sia del Tribunale che della sezione immigrazione –. Abbiamo 1.500 nuove iscrizioni al mese, con in media dieci ricorrenti per fascicolo. Da giugno 2022 abbiamo deciso 5.800 fascicoli che equivalgono a circa 58mila nuovi cittadini. Abbiamo stilato accordi con le associazioni degli avvocati per semplificare alcune prassi, ma stiamo fissando le udienze al 2027».

Al Tribunale di Torino «avevamo ridotto i tempi delle cause, ma con le controversie per la cittadinanza iure sanguinis la situazione è di nuovo peggiorata: ora stiamo fissando le prime udienze per cittadinanza nel 2026 e per protezione internazionale nel 2027», spiega la presidente della sezione immigrazione, Roberta Dotta.

«I procedimenti per cittadinanza iure sanguinis sono gravosi perché spesso sono promossi da più ricorrenti e richiedono l’esame di documenti anche molto risalenti: a volte si fa riferimento ad ascendenti nati prima dell’Unità d’Italia».

Ora il disegno di legge di Bilancio propone di rendere più oneroso per i richiedenti il riconoscimento per via giudiziaria. Infatti, se oggi si paga un solo contributo unificato per fascicolo, anche se i richiedenti sono più di uno, il testo propone di stabilire un contributo unificato di 600 euro a carico di ciascun richiedente.