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Riondino va controcorrente:il sindacato si è autodistrutto«Ho idee diverse da LandiniE la classe operaia è finita» (corriere.it)

Il regista a Massafra dopo la prima londinese 
di Palazzina Laf

Il piegamento agli interessi degli industriali, l’estinzione della classe operaia, il diritto al lavoro calpestato. Riassumendo: «Il sindacato si è autodistrutto».

Nel giorno dello sciopero generale, al quale non fa però alcun riferimento diretto, Michele Riondino assesta una frustata sulla pelle di chi, oggi, porta in piazza centinaia di migliaia di impiegati, operai e precari di tutta Italia a manifestare contro la manovra del governo Meloni.

Reduce dalla presentazione a Londra di Palazzina Laf , il film che ha segnato il suo debutto da regista e che è valso – a lui e al suo cast – tre David di Donatello e cinque Nastri d’Argento, l’attore non si risparmia durante un incontro con gli studenti del liceo De Ruggieri di Massafra organizzato dalla concessionaria Autoclub e magistralmente orchestrato da Dionisio Ciccarese.

Così, tra uno spezzone e l’altro della premiatissima opera prima, Riondino torna ad argomentare di un tema che non è solo il suo cavallo di battaglia cinematografico ma anche una ragione d’impegno civile che l’ha spinto ad essere il motore del concertone dell’Uno Maggio di Taranto.

«La storia che ho raccontato, il calvario dei 79 dipendenti dell’Ilva confinati in un edificio a non far nulla perché ritenuti molesti, risale ad un’epoca – il 1997 – in cui il padrone, nella fattispecie Emilio Riva, decideva chi licenziare lasciando che i sindacati corressero a collezionare iscritti in funzione di nuove assunzioni. È stato l’inizio di un processo che, nel tempo, ha finito per destituire di autorevolezza il ruolo delle sigle e di chi le rappresentava. Oggi esistono gli operai – ha incalzato Riondino – ma non esiste più la classe operaia che Elio Petri, con il suo film, mandava in paradiso. Ieri c’erano gli impiegati, che simbolizzavano una sorta di borghesia nella galassia occupazionale di una grande fabbrica come l’Ilva, ma nemmeno quella borghesia esiste più. Operai e impiegati ora sembrano la stessa cosa. E sulla perdita d’importanza, di peso specifico dei lavoratori, il sindacato ha forti responsabilità. Al punto di essersi autodistrutto».

Tra i punti di caduta della conversazione, il cenno – pressoché inevitabile – a Maurizio Landini: «Con il segretario generale della Cgil mi sono già scontrato, abbiamo opinioni diverse sulle politiche da attuare in difesa dei diritti dei lavoratori. Questo non significa, come pensa qualcuno, che io abbia idee di destra o che stia dalla parte del governo, anzi».

L’antagonismo artistico di Riondino, peraltro, ha una sua traduzione rivendicativa nella partita legale anti-Netflix giocata insieme a numerosi colleghi del mondo dello spettacolo: «Con la cooperativa Artisti 7607 ci stiamo battendo per il riconoscimento dei diritti connessi ai passaggi sulla piattaforma. Vogliamo che ciascuno ottenga il compenso proporzionato e adeguato spettante per legge. Ma sapete qual è il paradosso di questa vicenda? Che – spiega – abbiamo contro il sindacato tradizionale, lo stesso che per statuto dovrebbe tutelare i nostri diritti».

La stoccata finale, mentre tutt’attorno la platea di ragazzi e professoresse applaude l’attore (e regista) che ammette di cercare «lo spunto per girare un nuovo film. Non su Taranto, ma che sia ancor più scomodo di Palazzina Laf ».

Landini tifa rivolta, e non si rende conto dei guai che potrebbe causare (linkiesta.it)

di

Arriva il populismo sindacale

Il segretario della Cgil dovrebbe stare attento alle parole usate durante lo sciopero generale.

In un momento di crisi economica e di tensione sociale, parlare con i toni usati ieri potrebbe essere equivocato da qualche persona facilmente influenzabile

«Vogliamo rivoltare il paese come un guanto. Possiamo dire, dopo la giornata di oggi, che questo governo non rappresenta la maggioranza di questo Paese». La cosa preoccupante non è solo che Maurizio Landini parli come uno studente del Settantasette o un capetto dei Cobas, ma che nella Cgil non ci sia nemmeno uno che si alzi per dirgli di cambiare registro. Ormai il danno è fatto. 

A parte che delegittimare il governo, e dunque il Parlamento che lo esprime, che non sarebbe «rappresentativo della maggioranza del Paese» è un pochino pericoloso, «rivolta» è stata la parola d’ordine dello sciopero generale di ieri, un termine che con tutta la sua carica di ambiguità, per non dire di peggio, ha oscurato il valore di una giornata di protesta che ha coinvolto centinaia di migliaia di lavoratori.

Per dire, il segretario di una organizzazione che si chiama “Rifondazione comunista”, Maurizio Acerbo, ha twittato: «Da troppo tempo non c’è una rivolta sociale. Tifiamo rivolta». Ora, costui non conta niente, ma forse quelli che ieri hanno fomentato i disordini a Torino magari sguazzano meglio in un clima reso caldo anche dalle parole del segretario della Cgil: non ne siamo sicuri, ma può essere.

D’altronde la tensione dell’altro giorno a Milano è stata dai media prontamente battezzata come «la rivolta di Corvetto». Le parole sono importanti. Questo mélenchonismo di Landini può essere una spia della sua voglia di condizionare la sinistra italiana. Ma «rivolta» non è una parola del vocabolario del movimento sindacale italiano. Gli operai in carne e ossa non parlano così. Anzi, è un termine aborrito non solo dai riformisti ma anche dai rivoluzionari perché allude alle jacqueries, alla agitazione estremista, alla protesta di un giorno. Magari violenta.

Infatti il sindacato italiano non si è mai sognato di rivoltarsi, ma quando mai i grandi leader sindacali hanno usato questa parola. Chi si sta rivoltando nella tomba sono i Lama, i Trentin, i Del Turco, gli Epifani, i Di Vittorio.

Neanche un minimo di memoria storica riesce ad arginare questo populismo sindacale che alligna da qualche tempo al vertice della Cgil, in parallelo con l’avvento del populismo politico giallo-verde che oggi, tendenzialmente in crisi, potrebbe trovare uno sbocco ancora peggiore in forme di estremismo legittimate dagli slogan del principale sindacato italiano. Bisogna stare attenti, perché il Paese è nervoso più di quanto si creda. La crisi è reale e l’Italia è ferma, con un Prodotto interno lordo stimato a più zero virgola sei, cioè niente.

Sarà un inverno tosto, altro che la propaganda di Giorgia Meloni. E “L’uomo in rivolta” di Albert Camus che Landini ha regalato alla presidente del Consiglio, pensando di fare bella figura, non c’entra assolutamente nulla con la protesta sindacale e politica, è un testo filosofico-letterario di una certa difficoltà che passa dai Vangeli a Dostoevskij a Lenin secondo una certa lettura dell’esistenzialismo: ma di che parliamo?

In momenti come questi la protesta, proprio perché ha mille ragioni, deve essere incanalata nei binari della politica e della razionalità. I sindacati seri a questo servono. Per le rivolte ci sono i gilet gialli. Qualcuno lo faccia capire a Maurizio Landini prima che la cosa scappi di mano.