Messaggi dalle urne (corriere.it)

di Massimo Franco

La destra ha vinto, la sinistra ha perso 
in Liguria. 

Ma per un’incollatura.

E il risultato provocherà qualche increspatura, in particolare nello schieramento sconfitto: sebbene entrambi dovrebbero riflettere sul calo dell’elettorato, che ridimensiona e accomuna vittorie e sconfitte. Né si può ignorare la coincidenza di questo voto locale con uno sfondo di scandali, tensioni legate alla manovra economica, e dossieraggi inquietanti.

Ma per paradosso, uno dei tanti di questo voto, avrebbero dovuto favorire le opposizioni e non la maggioranza di Giorgia Meloni. Si pensava che l’inchiesta giudiziaria che ha travolto la giunta di Giovanni Toti avrebbe spianato la strada al Pd e agli alleati.

Invece, alla fine il tre a zero che sognavano di incassare tra Liguria, e poi Umbria e Emilia-Romagna, chiamate alle urne a novembre, al massimo diventerà un due a uno. Il partito di Elly Schlein può essere soddisfatto del risultato ottenuto in una regione dove continua ad avere un certo radicamento: è nettamente primo, quasi doppiando FdI.

Il problema è che non gli è bastato per vincere. Ieri ha ricevuto la conferma che le sue alleanze sono virtuali e perfino ininfluenti, se il proprio candidato trascina meno della coalizione. Radicalizzano le liti e minano la credibilità dello schieramento del quale in teoria fanno parte.

Il gioco di veti tra M5S e Iv di Matteo Renzi, aggiunto alla faida grillina tra Beppe Grillo e Giuseppe Conte sono stati atti di sabotaggio più o meno intenzionale verso il cartello delle opposizioni. Se qualcuno nutrisse dei dubbi, il voto ligure dovrebbe averli spazzati via.

Non esiste nessun campo, o area, o cartello nel quale possano convivere tutti gli avversari di Palazzo Chigi. Né si delinea, se non nelle mire smisurate di Conte, una competizione tra Cinque Stelle e Pd per chi dovrà fare il capo del governo: tanto più in una prospettiva oggi altamente improbabile di vittoria della sinistra.

Il M5S è sotto il 5 per cento nella regione di Grillo, che non ha nemmeno votato. Dunque, senza un cambio di schema e di riferimenti, difficilmente il Pd riuscirà a scalfire il primato del destra-centro. Se non ci è riuscito questa volta in Liguria, a livello nazionale diventerà quasi proibitivo.

Detto questo, Meloni, Lega e FI hanno il compito di resistere alla tentazione di sfruttare la rendita di posizione di un fronte avversario slabbrato e diviso. E non solo perché l’affermazione di ieri è arrivata di misura, grazie a un candidato civico in mancanza, come sempre più spesso capita, di un accordo tra alleati.

Il tema della classe dirigente della maggioranza rimane acuto e irrisolto: in primo luogo a livello locale ma, come si vede in queste settimane, con un rimbalzo troppo frequente sull’esecutivo. Esiste poi una questione che riguarda non l’uno o l’altro schieramento, ma il sistema politico.

Il calo di altri sette punti nella partecipazione al voto è un segnale brutto. Si dirà che con la caduta della giunta di Giovanni Toti per le inchieste della magistratura, un astensionismo alto era inevitabile. Può darsi, ma bisogna stare attenti a non crearsi un alibi.

Già alle elezioni europee del giugno scorso, l’affluenza alle urne era stata inferiore al cinquanta per cento. E questo nonostante la presenza dei maggiori leader in lista, che avrebbe dovuto catalizzare la partecipazione; e a dispetto di un sistema proporzionale che permetteva di misurare il peso dei singoli partiti e il loro gradimento.

Senza nulla togliere al successo ottenuto allora da Meloni e Schlein, che ebbero il 28 e il 24 per cento, non si può non osservare che quel risultato va tarato sul 49 e rotti per cento di votanti. E dunque mostra consensi importanti ma di minoranza.

Può sembrare un calcolo ozioso, di fronte a un’affermazione chiara: in particolare se confrontata con le percentuali di altri partiti. Eppure, si delinea come un tema centrale per formazioni politiche che in prospettiva hanno l’ambizione di celebrare e affrontare consultazioni referendarie a ripetizione: sia per contrastare la riforma dell’autonomia regionale differenziata voluta dalla Lega; sia per fare approvare dal popolo un’elezione diretta del presidente del Consiglio, che per Meloni significa «la madre di tutte le riforme».

L’astensionismo a livello locale e alle Europee conferma e sottolinea un fenomeno di distacco non solo dai partiti ma dalle istituzioni. È un campanello d’allarme che sarebbe rischioso non volere sentire. Dice che esiste un popolo elettorale deluso profondamente dall’offerta politica di oggi.

E che, almeno in parte, aspetta di capire chi sarà capace di offrirgli una buona ragione per tornare a votare. È il dilemma inconfessato che ristagna al di là di un risultato chiaritosi in extremis. Incoraggiante per la maggioranza. Disastroso per i suoi avversari. Preoccupante per tutti.

Il rischio di una guerra nucleare è reale. Il 15 ottobre, profondamente preoccupati per questo rischio, un gruppo di 20 paesi tra i quali Austria e Irlanda, hanno presentato una mozione all’Assemblea Generale delle Nazioni Unite, per chiedere agli Stati di rinnovare il loro impegno al disarmo nucleare, e istituire una Commissione Scientifica indipendente per valutare i rischi reali di una catastrofe nucleare oggi. È una iniziativa limitata ma concreta, seria e lungimirante. Mi auguro vivamente che l’Italia abbia la saggezza di appoggiarla.

La Commissione dovrebbe essere incaricata di “esaminare gli effetti fisici e le conseguenze sociali di una guerra nucleare su scala locale, regionale e planetaria, compresi tra l’altro gli effetti climatici, ambientali e radiologici, e i loro impatti sulla salute pubblica, sui sistemi socio-economici globali, sull’agricoltura e sugli ecosistemi, nei giorni, nelle settimane e nei decenni successivi alla guerra nucleare, e di esaminare e commissionare studi pertinenti, inclusa la modellizzazione ove appropriato, e pubblicare un rapporto completo, trarre conclusioni chiave e identificare le aree che richiedono ricerche future”.

Sorprendentemente, questo sarebbe il primo studio di questo genere condotto dalle Nazioni Unite, dopo quelli degli anni 80, che furono importanti per arrivare ai saggi trattati che hanno portato allora alla riduzione degli armamenti nucleari. Molte cose sono cambiate negli armamenti nucleari da allora, e il rischio potrebbe essere perfino più grave di quanto si pensi.

Quattro considerazioni sono rilevanti. Primo, un governo ha già usato le armi nucleari. Secondo, nei decenni passati abbiamo più volte sfiorato la catastrofe, anche accidentale. Nel caso più clamoroso, il lancio da un sottomarino che avrebbe scatenato la guerra nucleare è stato approvato dal primo e dal secondo ufficiale, ed è stato bloccato dai dubbi e dall’opposizione del terzo, che non era militare di carriera.

Viviamo sull’orlo dell’abisso. Terzo, Gli Stati Uniti hanno recentemente aumentato in maniera drastica gli investimenti nelle armi nucleari. Le superpotenze nucleari ora non sono più solo Russia e America, si sta aggiungendo la Cina, rendendo disequilibrata la deterrenza a due che fino a ora ci ha tenuto pericolosamente vicini alla catastrofe, ma ha evitato il peggio.

Quarto, il recente abbandono dei trattati che mettevano al bando le armi nucleari a medio raggio rende la deterrenza molto più fragile, perché aumenta la tentazione di una scinsiderata rischiosa mossa d’anticipo. Una nuova valutazione seria dei rischi condotta da una autorità al di sopra delle parti come le Nazioni Unite può portare una luce di ragionevolezza, in un mondo che sembra averne molto bisogno.

Mi auguro che l’Italia sappia, come l’Austria e l’Irlanda, vedere l’interesse comune dell’umanità in una questione di importanza così vitale, e sostenere questa mozione. Non è impossibile che la Nato faccia pressione sui suoi membri per ostacolare la mozione. Cedere a questa pressione vorrebbe dire cadere nella miopia dello scellerato gioco di potenza fra le parti, in un mondo sempre più diviso e sempre più belligerante.

Opporsi a una spinta, anche piccola, verso un controllo delle armi nucleari è profonda stupidità. Mi auguro vivamente che questo governo abbia la schiena diritta. In gioco c’è la possibilità stessa del nostro futuro.

Perché la Cina non rinuncerà a un modello economico fallimentare (foreignaffairs.com)

di 

Pechino potrebbe vedere guadagni a breve termine, 
ma ignora il rischio di sofferenze a lungo termine

Alla fine di settembre, dopo mesi di mancato raggiungimento degli obiettivi di crescita post-pandemia, il governo cinese ha iniziato a lanciare un’ampia serie di misure di stimolo economico.

Finora, questi hanno incluso il sostegno del mercato azionario, l’allentamento della politica monetaria, la ricapitalizzazione delle grandi banche statali e alcuni stimoli fiscali limitati.

L’importo totale e le specifiche dello stimolo fiscale saranno rivelati dopo le elezioni statunitensi, dopo la riunione del Comitato permanente dell’Assemblea nazionale del popolo all’inizio di novembre, ma il vice ministro delle Finanze Liao Min lo ha descritto come “su larga scala”.

Svelando queste misure, Pechino ha finalmente riconosciuto ciò che il popolo cinese e il mondo sanno da tempo: l’economia cinese è in guai seri. Il “sogno cinese” – la visione del presidente cinese Xi Jinping di raddoppiare le dimensioni dell’economia entro il 2035 e raggiungere una prosperità su larga scala – sta scivolando via. Ma lo stimolo funzionerà?

La sfida economica più urgente per la Cina a breve termine è la debole domanda interna, trainata dalla mancanza di fiducia dei consumatori. Quando i consumatori cinesi si rifiutano di spendere, accumulano liquidità, creando un eccesso di risparmio che, insieme all’eccesso di investimenti del governo in industrie politicamente favorite, aggrava il problema strutturale più grave a lungo termine della Cina: l’eccesso di capacità industriale.

Come ho sostenuto su Foreign Affairs ad agosto, le dinamiche che si rafforzano a vicenda tra il calo della domanda interna e l’eccesso di capacità industriale formano un circolo vizioso economico da cui la Cina deve uscire per evitare la stagnazione. La leadership cinese afferma che l’ultimo stimolo ha lo scopo di stimolare i consumi.

Escludendo in gran parte l’assistenza diretta alle famiglie come parte dei suoi piani di stimolo, tuttavia, il governo ha dimostrato di essere ancora aggrappato al suo vecchio copione economico di investimenti diretti dallo Stato.

Al centro del problema della domanda cinese c’è una crisi di fiducia derivante dalle ansie dei cinesi comuni riguardo alla loro situazione economica e al loro futuro.

Nel 2017, l’anno in cui Xi ha iniziato il suo secondo mandato e ha rafforzato la sua presa sull’economia, le famiglie urbane stavano godendo dei frutti di decenni di forte crescita, con il reddito disponibile che raddoppiava circa ogni otto anni. Per le giovani famiglie di oggi, quei giorni felici sono finiti. Entro il 2024, il reddito medio disponibile era aumentato solo del 50% dal 2017, un drastico rallentamento rispetto all’era precedente, e la tempistica per raddoppiarlo di nuovo si è allungata a circa 15 anni.

Questo rallentamento significa un passaggio dalle aspettative un tempo incrollabili di opportunità economiche a una nuova realtà caratterizzata da una crescita moderata e da pressioni crescenti. Invertire l’attuale traiettoria della Cina richiederebbe a dir poco una macchina del tempo, e i piani di stimolo in discussione non forniscono il tipo di sostegno finanziario a livello familiare necessario per ripristinare la fiducia nel futuro della Cina.

GUAI IRRISOLTI

Le recenti misure di stimolo di Pechino sembrano mirare principalmente a ripristinare la fiducia tra l’élite imprenditoriale del paese. La People’s Bank of China sta adottando una strategia simile all’approccio di quantitative easing della Federal Reserve, concentrandosi sui prezzi degli asset finanziari nella speranza di generare un effetto ricchezza che si ripercuote sull’economia in generale.

La PBOC ha stabilito due meccanismi, entrambi progettati per iniettare liquidità nei mercati e sostenere i prezzi degli asset finanziari più rischiosi come azioni, obbligazioni societarie e fondi negoziati in borsa. Il primo è un programma governativo da 70 miliardi di dollari che consente agli investitori istituzionali – principalmente i broker statali e le compagnie assicurative note come “squadra nazionale” – di acquistare attività finanziarie rischiose e successivamente scambiarle con titoli di Stato di alta qualità.

Queste obbligazioni possono quindi essere ricostituite come garanzia per prestiti bancari, garantendo di fatto al team nazionale l’accesso a finanziamenti economici della banca centrale per acquisire attività e sostenere i prezzi. La PBOC ha implementato un programma simile nel 2015 per stabilizzare il mercato azionario dopo che i prezzi sono scesi di oltre il 40% in pochi mesi.

Il secondo meccanismo è un programma di rifinanziamento da 42 miliardi di dollari progettato per estendere i prestiti alle società quotate in borsa, consentendo loro di utilizzare i proventi per riacquistare le loro azioni sul mercato azionario, funzionando essenzialmente come un dividendo che aumenta i rendimenti per gli azionisti. I funzionari cinesi sperano che ciò fornisca carburante continuo per un rally del mercato azionario; da metà settembre i prezzi delle azioni sono aumentati di circa il 25 per cento.

Nonostante questi sforzi, è improbabile che il quantitative easing della PBOC con caratteristiche cinesi risolva i problemi economici più ampi della Cina, perché fa relativamente poco per stimolare la domanda effettiva dei consumatori. Tra i limitati sostegni diretti alle famiglie vi sono le nuove normative che consentono ai mutuatari di rifinanziare i loro mutui, consentendo loro di beneficiare di una recente riduzione di mezzo punto percentuale del tasso di riferimento sui mutui ipotecari.

Si prevede che questo cambiamento farà risparmiare a circa 50 milioni di famiglie, per un totale di circa 21 miliardi di dollari all’anno, in pagamenti di interessi più bassi.

Inoltre, le autorità locali hanno ridotto l’acconto richiesto per l’acquisto di una seconda casa come parte degli sforzi per eliminare l’inventario in eccesso dal mercato e fornire un sostegno ai prezzi delle case. Dato che l’edilizia abitativa rappresenta circa il 70% del patrimonio delle famiglie cinesi e che i mutui rappresentano circa il 75% del debito delle famiglie, qualsiasi misura volta a stabilizzare i prezzi delle case e a diminuire i costi di finanziamento è probabile che rafforzi i bilanci delle famiglie.

Stabilire un livello minimo sotto i prezzi delle case è un primo passo fondamentale per ripristinare la fiducia dei consumatori cinesi nelle loro prospettive finanziarie a lungo termine.

Ad oggi, i principali responsabili politici cinesi sono stati notevolmente riluttanti a discutere anche solo di trasferimenti diretti di denaro ai consumatori ordinari. Ciò è probabilmente dovuto alla limitata esperienza politica del governo in questo settore e alla diffidenza da parte dei funzionari economici di Pechino nel segnalare qualsiasi cambiamento di politica senza una direzione esplicita da parte di Xi.

Eppure l’infrastruttura finanziaria cinese è ben preparata per facilitare uno stimolo diretto alle famiglie. La maggior parte delle buste paga e delle prestazioni di sicurezza sociale sono già collegate ai conti di deposito presso le banche commerciali statali, rendendo le ricariche dei saldi operativamente semplici.

A MODO MIO O IN AUTOSTRADA

Xi non è contrario a brusche inversioni di politica, come dimostrato dal suo improvviso abbandono della politica “zero COVID” alla fine del 2022 e dalle sue iniziative economiche mutevoli durante il suo mandato. Eppure una costante della sua leadership è stata la sua avversione per l’elemosina in denaro, che, ha suggerito, potrebbe consolidare uno stato sociale.

Ha messo in guardia i membri del partito dal “cadere nella trappola del ‘welfarismo’ che nutre i pigri”. La retorica di Xi non dovrebbe essere interpretata erroneamente come l’approvazione di un’ideologia di robusto individualismo in Cina. Piuttosto, il suo approccio dall’alto verso il basso alla governance privilegia l’unità ideologica rispetto alle concessioni populiste e favorisce gli investimenti guidati dallo Stato rispetto al sostegno fiscale individuale.

Xi ha chiarito che la sua priorità assoluta è trasformare la Cina in una superpotenza globale autosufficiente. Mira a essere il leader che si lascia definitivamente alle spalle il “secolo di umiliazione” della Cina, un riferimento alla lunga era in cui la Cina percepiva la sottomissione alle potenze occidentali.

In questo contesto, l’attuale obiettivo di crescita del PIL del governo di circa il 5% e il pacchetto di stimolo che ha annunciato per contribuire a raggiungerlo sono solo mezzi per raggiungere un fine. Al contrario, uno stimolo diretto alle singole famiglie sposterebbe il potere d’acquisto dal governo ai consumatori, lasciando potenzialmente meno risorse per le grandi ambizioni di Xi e dandogli meno controllo sulla direzione generale del paese.

Gli annunci del governo in merito al pacchetto di stimolo hanno deliberatamente enfatizzato la retorica sui sostanziali cambiamenti politici volti ad aumentare i consumi. Questo approccio è in linea con l’obiettivo di Xi di aumentare la fiducia nell’economia senza distogliere risorse dal perseguimento dell’autosufficienza cinese.

Il capitale iniettato nel sistema finanziario per sostenere i prezzi delle azioni e stabilizzare le banche sarà probabilmente reindirizzato verso le stesse industrie strategiche che dovrebbero consentire alla Cina di scavalcare gli Stati Uniti in tecnologia e capacità militari.

Il pacchetto di stimolo di Xi non affronta i problemi strutturali più profondi della Cina.

Il sistema “dell’intera nazione” per gli investimenti tecnologici garantisce che tutti i grandi bacini di capitale possano essere mobilitati per ottenere scoperte in aree critiche come l’intelligenza artificiale, i semiconduttori e i motori aeronautici.

A differenza di un vero e proprio pacchetto di stimolo per i consumi, l’attuale serie di misure sembra avere un secondo fine: rafforzare la capacità della Cina di superare l’Occidente economicamente e militarmente. Allo stato attuale, la direzione politica articolata nei dettagli del pacchetto di stimolo fornisce ai governi occidentali pochi incentivi a riconsiderare le barriere commerciali o ad allentare i controlli sulle esportazioni in Cina.

L’entità potenziale delle elargizioni di denaro alle famiglie è limitata dalla posizione finanziariamente tesa dei governi locali cinesi. Pechino si è impegnata ad aiutare offrendo swap del debito per rifinanziare il debito ad alto costo e a breve termine che grava su molte amministrazioni locali.

I bilanci locali sono stati schiacciati dalla riduzione delle entrate derivanti dalla vendita di terreni a causa della flessione del mercato immobiliare, dei costi sanitari pubblici residui legati alla pandemia e dell’aumento delle spese di assistenza sociale legate all’invecchiamento della popolazione. Per molti funzionari locali, il raggiungimento del progresso industriale e la garanzia della sicurezza della catena di approvvigionamento hanno la precedenza sullo stimolo della spesa dei consumatori.

Se Pechino dovesse perseguire pagamenti diretti in contanti alle famiglie, si troverebbe di fronte alla sfida di bypassare le autorità locali, che potrebbero dirottare una parte dei fondi. I trasferimenti diretti dal governo centrale alle casse locali rischiano una cattiva allocazione o addirittura un’appropriazione indebita, limitando l’efficacia pratica dei trasferimenti di reddito delle famiglie come stimolo. Senza una supervisione eccezionale, questi pagamenti potrebbero raggiungere le famiglie solo in piccole quantità, gocciolando come gocce da un rubinetto che perde.

UN GIOCO DI FIDUCIA DIVERSO

Il recente pacchetto di stimoli potrebbe effettivamente raggiungere gli obiettivi a breve termine di Pechino: un rally del mercato azionario con capacità di resistenza, un mercato immobiliare stabilizzato, un aumento temporaneo della fiducia dei consumatori e una crescita del PIL del cinque per cento per il 2024.

Tuttavia, non affronta i problemi strutturali più profondi della Cina ed è improbabile che spinga le famiglie a spendere di più a lungo termine. Il governo non sembra disposto a intraprendere le misure coraggiose necessarie, come il sostegno diretto al reddito delle famiglie, che potrebbero portare a un significativo riequilibrio economico.

Invece, gran parte degli ultimi stimoli sembrano volti a puntellare i punti più deboli dell’economia quel tanto che basta per segnalare che il partito non ha abbandonato il suo ruolo di buon amministratore dell’economia e rimane impegnato a sostenere la fine del contratto sociale cinese.

Senza una crescita del reddito più forte, le famiglie cinesi continueranno a risparmiare a tassi ostinatamente elevati. Anche se il recente stimolo si rivelerà sorprendentemente efficace, il declino demografico della Cina e le crescenti tensioni geopolitiche con l’Occidente suggeriscono che le prospettive economiche a lungo termine del paese rimarranno incerte.

Da quando sono iniziati i lockdown dell’era della pandemia, la classe media cinese ha sperimentato una persistente insicurezza economica, una percezione che potrebbe richiedere anni per essere scossa.

Negli ultimi quattro decenni, l’economia cinese ha vissuto forse il periodo di crescita più straordinario della storia umana. Nel 1981, oltre il 90% della popolazione cinese viveva in condizioni di povertà così gravi come nelle regioni meno sviluppate del mondo. Oggi, oltre la metà della popolazione appartiene alla classe media, con un tenore di vita paragonabile a quello di molte nazioni sviluppate.

Eppure, in un certo senso, i cinesi della classe media non si sono mai sentiti così poveri. La sensazione di essere in ritardo rispetto alla qualità della vita dei loro coetanei è aumentata e le opportunità per i loro figli di raggiungere la ricchezza e studiare all’estero sembrano più fuori portata.

Per la prima volta dopo le riforme economiche in Cina, molte famiglie temono che il domani potrebbe non essere migliore di oggi, non a causa di fallimenti personali, ma a causa di forze al di fuori del loro controllo. I giovani adulti che entrano nel mondo del lavoro si sentono impotenti e un numero crescente di loro si sente incapace di iniziare una carriera redditizia, con una disoccupazione giovanile che supera il 17%.

Le giovani famiglie devono affrontare una pressione incessante solo per mantenere il loro tenore di vita. Le visite ai templi buddisti sono aumentate di oltre il 300% l’anno scorso, suggerendo che sempre più persone si rivolgono alle superstizioni per avere fortuna per assicurarsi il proprio futuro. Sempre più spesso, molti cinesi sembrano riporre più fiducia nelle offerte del tempio o negli amuleti che nelle assicurazioni del partito di una prosperità comune.

La prossima amministrazione statunitense dovrà affrontare una Cina alle prese con un rallentamento della crescita economica, una classe media inquieta e un leader che sembra più impegnato a costruire un esercito di livello mondiale che una società prospera.

Questa complessa situazione richiede una strategia cinese che valuti realisticamente le capacità e i limiti di Xi, non solo le sue ambizioni. Sebbene i comuni cittadini cinesi possano avere un potere d’azione limitato, collettivamente possono esercitare una pressione economica su Pechino. Stringendo i loro portafogli e dando priorità ai risparmi, esprimono di fatto un silenzioso ma potente voto di sfiducia nella direzione del paese.

Se le condizioni economiche in Cina continuano a deteriorarsi, Xi potrebbe cambiare repentinariamente, forse ammorbidendo il suo antagonismo verso l’Occidente. Mentre osserva l’evolversi degli stimoli cinesi e la probabile incapacità di Pechino di risolvere i problemi economici di fondo del paese, Washington dovrebbe evitare di fissarsi così tanto sulla minaccia percepita dalla Cina da trascurare le potenziali opportunità di ridefinire le relazioni USA-Cina in futuro.

(Una vista del distretto finanziario di Pudong a Shanghai, Cina, settembre 2024 Tingshu Wang / Reuters)

La sfida BRICS all’Occidente e l’Europa grande assente (romanoprodi.it)

Articolo di Romano Prodi su Il Messaggero 
del 26 ottobre 2024

A Kazan, la città sacra al popolo russo che si trova tra Mosca e gli Urali, è terminato il vertice dei Brics: un gruppo di paesi che originariamente comprendeva, come dice l’acronimo, Brasile, Russia, India, Cina e Sud Africa. Un gruppo a cui si sono aggiunti e si stanno aggiungendo tanti altri paesi, fra i quali Etiopia ed Egitto e alla cui porta si sta affacciando, insieme a Indonesia e Messico, persino la Turchia, che pure è membro della NATO.

Tutti insieme raggiungono il 45% della popolazione mondiale, oltre quattro volte quella dei G7, mentre il loro Prodotto Interno lordo si colloca intorno al 30% del totale mondiale, sostanzialmente simile a quello dei G7.

La presenza di tutti i maggiori responsabili politici di queste nazioni, da Putin a Xi Jinping, con la sola eccezione di Lula infortunato, ha creato grande attesa fra tutti gli osservatori, naturalmente divisi fra coloro che vedono nella grande diversità di natura e di interessi dei paesi partecipanti un limite invalicabile per il successo dei Brics allargati, e coloro che ne vedono invece l’embrione di una grande nuova alleanza di carattere mondiale.

Se guardiamo alle conclusioni concrete e al comunicato finale non vi sono certo novità eclatanti perché non si è concluso, e non si poteva concludere, nessun accordo immediatamente operativo fra paesi così eterogenei.

Tra India e Cina vi sono infatti tensioni non solo commerciali, ma anche territoriali, mentre Brasile e India non si oppongono agli Stati Uniti come, invece, vi si oppongono Cina e Russia.

E potremmo continuare constatando che l’India compera petrolio e armi dalla Russia mentre, nello stesso tempo, si schiera in un’alleanza militare con gli Stati Uniti, l’Australia e il Giappone, un’alleanza esplicitamente dedicata a contenere la Cina. Il che non è un problema di poco conto.

La Cina, infatti, gioca un ruolo dominante nel consesso dei Brics , dato che il suo PIL, da solo, pesa per il 60% del Prodotto Interno Lordo di tutti i paesi che oggi partecipano a questo grande consesso. Il rafforzamento del gruppo dei Brics comporta quindi automaticamente la crescita dell’influenza di Pechino su tutta l’economia e la politica del pianeta.

In questo contesto nessuno poteva illudersi che il vertice di Kazan cambiasse l’esistente ordine mondiale e nemmeno mettesse le basi per un futuro cambiamento.

Il vertice, tuttavia ha raggiunto alcuni obiettivi non certo trascurabili per i leader che vi erano presenti. In primo luogo, dato l’elevato e qualificato numero dei partecipanti e i numerosi incontri bilaterali dei quali è stato protagonista, Putin è riuscito, almeno in parte, a dimostrare di non essere solo e isolato di fronte agli Stati Uniti e ai suoi alleati occidentali, ma al contrario ha potuto mostrare di avere molti amici e molti paesi aperti al dialogo.

In questo suo disegno ha persino contato sulla presenza del Segretario Generale delle Nazioni Unite che, partecipando al vertice di Kazan, ha ovviamente provocato una risentita disapprovazione da parte dell’Ucraina.

In secondo luogo, le differenze che pur esistono fra i paesi presenti a Kazan non hanno impedito il consolidarsi di un condiviso malcontento nei confronti delle grandi istituzioni finanziarie internazionali, a cominciare dal Fondo Monetario Internazionale e dalla Banca Mondiale, accusate di favorire gli interessi dell’Occidente contro tutti i paesi emergenti.

Su questo tema l’accordo è così ampio da rendere doverosa un’approfondita riflessione sulla necessità di riformare queste importantissime istituzioni per adeguarle ai grandi cambiamenti della politica e dell’economia mondiale.

Ovviamente a Kazan non è nata, come qualche paese partecipante sperava, la moneta dei Brics da contrapporre al dollaro, oggi e ancora per molto tempo dominante, ma si è cominciato ad operare per creare un sistema dei pagamenti internazionali alternativo a quello esistente interamente controllato dagli americani.

Sembrerebbe un problema puramente tecnico, ma questo sistema (chiamato Swift) è stato l’unico strumento veramente efficace per potere applicare le sanzioni nei confronti dei paesi, delle banche e delle imprese che hanno rapporti finanziari con la Russia. A questo si è aggiunta, anche se con scarsa possibilità di essere messa in atto in un tempo prevedibile, la proposta di creare a Mosca un grande mercato dei cereali capace di fare concorrenza a quello di Chicago.

A Kazan, quindi, non è cominciata nessuna concreta rivoluzione, ma con la convergenza di un grande numero di paesi e con la presenza dei leader politici di mezzo mondo, si è certamente accentuata la divisione fra l’Occidente e il resto del mondo. Naturalmente i maggiori frutti di quest’evoluzione non potrà che raccoglierli la Cina, che ha compiuto un ulteriore passo in avanti nella sua strategia di presentarsi come il grande protettore di tutto il sud del pianeta, dall’Asia all’Africa, fino all’America Latina.

L’ormai lunga tensione fra Cina e Stati Uniti si sta quindi ancora più trasformando, proprio come vuole la Cina, in una sfida fra l’Occidente e il resto del mondo, senza che vi sia in corso una qualsiasi azione di mediazione o di composizione. E’ purtroppo doveroso constatare che in tutto questo grande processo di cambiamento il ruolo dell’Europa è inesistente.

Anche a Kazan l’Europa non c’era.