Dopo la débâcle in Liguria, riuscirà finalmente il Pd a liberarsi del gagà del populismo? (linkiesta.it)

di

Conte the killer

Il leader del Movimento 5 stelle è riuscito nell’impresa di prendere solo il cinque per cento dei voti, dopo aver impedito con una fatwa l’ingresso di Italia viva nella coalizione di Andrea Orlando.

Ora Schlein dovrà gestire le conseguenze del declino grillino, e sperare in una gamba riformista (con Gentiloni?) per il suo campo largo

C’è una giustizia nel cielo della politica, certe volte. Giuseppe Conte – Conte the killer – ha fatto perdere il centrosinistra che egli vorrebbe condizionare, ed è rimasto sotterrato con tutta la pochette a causa dalle sue manovre. La Liguria ha decretato una vittoria di misura di Marco Bucci, una ideona che va ascritta a Giorgia Meloni che grazie alla faccia del sindaco di Genova è riuscita a raddrizzare una situazione compromessa dopo lo scandalo che ha costretto Giovanni Toti alle dimissioni e imposto le elezioni anticipate. Addio triplete, ora si rischia anche in Umbria.

Andrea Orlando, che ora ha il dente avvelenato con il capo del Movimento 5 stelle e anche un po’ con Elly Schlein che si è fatta mettere i piedi in testa dall’avvocato ha combattuto bene.

Ce la poteva fare ma è stato sgambettato da Conte the killer, l’uomo che ha distrutto il campo largo ponendo il veto su Italia viva e si è autodistrutto dopo la furibonda lite con Beppe Grillo finendo a un penoso cinque per cento (mentre l’antagonista, il Partito democratico, è volato verso il trenta per cento, se non di più).

Il Movimento 5 stelle, il partito populista che per tre lustri ha fatto il bello e soprattutto il cattivo tempo in Liguria è stato superato da Avs e dalla lista Orlando, acconciandosi al ruolo di cespuglio, e nemmeno il più robusto della coalizione.

Oltre a passare alla storia per la velenosa e sciagurata fatwa contro Matteo Renzi, che avrà pure pochi voti ma che sarebbero stati determinanti per far perdere il sindaco di Genova che, dopo il tana libera tutti di Italia viva, verosimilmente è stato votato da molti elettori renziani.

Un harakiri mai visto che è la causa dell’ennesima sconfitta regionale del centrosinistra, vincente solo in Sardegna e anche lì per una manciata di voti. E allora la coalizione diretta da una Elly Schlein comprensibilmente soddisfatta per il risultato di lista del Pd, ma corresponsabile della sconfitta di Orlando perché passiva nei confronti di Conte the killer, come il Cortez raccontato da Neil Young in Zuma, adesso ha due problemi.

Il primo è il declino del M5s, che politicamente può anche non essere un fattore negativo a patto che il Pd sia capace di raccoglierne i voti; e il secondo è la perdurante assenza di un soggetto politico a chiara vocazione di governo, capace di intercettare i consensi di chi non vuole rassegnarsi a una sinistra sbilanciata sull’antiamericanismo, poco sensibile ai temi della crescita e delle riforme, sorda sulle questioni del garantismo, che è esattamente il profilo della sinistra Pd e della coppia Fratoianni-Bonelli.

È un problema in primo luogo di chi avrà la voglia e la capacità di costruire la famosa gamba riformista. È evidente che da questo punto di vista, dopo il fallimento del Terzo polo, siamo a carissimo amico, ma è anche certo che finché non scenderanno in campo personalità come Paolo Gentiloni e altre che per ora non sono in campo, difficilmente i vari Matteo Renzi, Carlo Calenda, Luigi Marattin, Riccardo Magi saranno in grado di costruire quel qualcosa che oggi è mancato e ha fatto perdere Andrea Orlando in Liguria, e che domani farà perdere il centrosinistra in Italia.

Il Washington nella bufera. Ma allora i giornali contano ancora?… (ildubbio.news)

di Daniele Zaccaria

Il caso

Abbonati in fuga dopo il mancato endorsement di Bezos per Kamala Harris: in pochi giorni la testata del “Watergate” ha perso 250mila lettori ed editorialisti di prestigio

È una rivolta senza precedenti quella dei lettori del Washington Post letteralmente indignati dal mancato endorsement della storica testata per la candidata democratica Kamala Harris.

La linea “neutrale” tracciata venerdì scorso dal direttore William Lewis e dal proprietario Jeff Bezos, oltre ad aver sconcertato la redazione, sta provocando una fuga di massa dal quotidiano noto nel mondo per l’inchiesta del watergate: in soli tre giorni sono infatti 250mila gli abbonamenti stracciati, circa il 10% del totale.

Migliaia le lettere e i messaggi di protesta per una scelta che appare del tutto incomprensibile in un giornale che, dal 1988, ha sempre indicato le sue preferenze politiche alla viglia delle elezioni presidenziali. È una consuetudine americana quella degli endorsment politici da parte dei comitati editoriali, ma anche una forma di trasparenza verso i lettori.

L’annuncio di Lewis è piombato in redazione proprio mentre i giornalisti stavano preparando un articolo a supporto di Harris, poi soffocato in culla da Bezos che ne ha impedito la pubblicazione. Il sindacato denuncia una «indebita ingerenza alla vigilia di un’elezione che avrà un’ importanza storica».

L’editorialista Robert Kagan, già ex consigliere di George W. Bush, ha rassegnato le dimissioni pronunciando dagli schermi della Cnn parole pesantissime nei confronti della direzione e della proprietà: «Si tratta di una capitolazione intellettuale, il giornale si è inginocchiato a Donald Trump perché ha paura di ritorsioni». Kagan ha poi denunciato l’incontro avvenuto qualche giorno prima tra Donald Trump e David Limp, amministratore delegato del gruppo aerospaziale Blue Origin di proprietà di Bezos.

Il padrone di Amazon e secondo uomo più ricco del pianeta naturalmente ha provato a smentire il presunto conflitto di interesse, affermando che la decisione è stata presa all’interno del giornale che controlla dal 2013 e non per pressioni esterne. Poi ha rivendicato la sua scelta in nome dell’imparzialità e dell’indipendenza e non di sospetti interessi personali o per paura di ritorsioni da parte di Trump.

Diciannove tra editorialisti e commentatori gli hanno risposto sul sito web del quotidiano nella sezione “opinioni” con un testo molto esplicito: «Se fosse un atto di indipendenza intellettuale e di integrità, Bezos avrebbe potuto annunciarlo già nel 2021, nel 2022 o anche lo scorso anno.

Si tratta di una scelta preoccupante considerando che le posizioni di Trump minacciano la libertà di stampa e la stessa Costituzione americana». L’unica cosa che Bezos ha ammesso è la tardività della sua decisione alimentando il dubbio che già conosca chi sarà il vincitore del voto della prossima settimana.

Dall’altra parte degli Stati Uniti, sulla West Coast, un altro grande quotidiano sta attraversando una crisi simile: il proprietario del Los Angeles Times, l’imprenditore Patrick Soon-Shiong, ha anche lui impedito l’endorsment del comitato editoriale per Kamala Harris, provocando le immediate dimissioni di tre membri del consiglio di amministrazione del giornale: «È una loro scelta», è stato il laconico commento di Soon-Shiong.

La svolta neutralista del Post e in misura minore del Los Angeles Times, è diventata un autentico caso mediatico oltreoceano, il che sorprende non poco perché in parte smentisce l’assioma secondo cui i giornali di carta stampata ormai sono delle presenze marginali nel dibattito politico specialmente durante le campagne elettorali che sarebbero influenzate molto di più dall’informazione digitale e dalle piattaforme di social network.

Al contrario le reazioni indignate e l’interesse dei media dimostrano che i giornali sono ancora vivi e vegeti, che i loro lettori non sono minimamente interessati a un’ipocrita e pelosa neutralità e che non cercano un’informazione neutra ma strumenti identitari e di identificazione politica forte.

Il preoccupante ritorno del mascolinismo (internazionale.it)

di Le MondeFrancia

Femminismi

È un movimento diffuso e ostinato.

Una realtà scomoda, a sette anni dalla rivoluzione del #MeToo. Mentre sempre più donne giovani aderiscono a valori progressisti, gli uomini della stessa età tendono ad abbracciare idee conservatrici. Basandosi su dati raccolti in più di venti paesi, il Financial Times ha evidenziato la crescita, da sei anni a questa parte, di un “divario ideologico” di circa trenta punti tra le ragazze e i ragazzi della generazione Z, in particolare sulle questioni di genere.

Anche la Francia è toccata da questo fenomeno preoccupante. A gennaio del 2024, l’Haut conseil à l’égalité entre les femmes et les hommes, un istituto nazionale che si occupa di parità di genere, ha lanciato l’allarme. I risultati della sua indagine annuale sul sessismo mostrano “un divario sempre più polarizzato”, commentano gli autori del rapporto.

“Più l’impegno a favore delle donne si esprime nel dibattito pubblico, più la resistenza si organizza”. In particolare preoccupa la crescita di “riflessi mascolinisti e comportamenti machisti […] tra i giovani uomini: il 28 per cento dei ragazzi tra i 25 e i 34 anni ritiene che “gli uomini siano fatti per occupare posti di controllo più delle donne” (contro il 9 per cento di chi ha tra i 50 e i 64 anni). E secondo il 52 per cento di loro, “c’è un accanimento contro gli uomini”.

Le femministe conoscono bene il fenomeno del backlash (contraccolpo), termine usato dalla giornalista statunitense Susan Faludi per descrivere l’affermarsi di un contromovimento dopo un’avanzata del femminismo. Da quando è cominciato il #MeToo, molti uomini s’interrogano sulla propria identità maschile e rimettono in discussione il modello dominante in cui sono cresciuti. Ma al tempo stesso nel dibattito pubblico si è affermato un antifemminismo senza filtri.

In pochi anni si sono moltiplicati video e “podcast bros”, in cui degli uomini parlano di muscoli, sport e seduzione, ma anche – in modo spesso degradante e caricaturale – di donne, accusate di aver preso troppo potere. Insegnano metodi di seduzione virili ispirati al “maschio alpha” (stereotipo di una mascolinità dominante), che dovrebbero permettere ai giovani uomini di riconquistare il loro posto nella società.

Questi discorsi attirano una “comunità molto organizzata e solidale di uomini che agiscono insieme”, osserva l’antropologa Mélanie Gourarier, che gli ha dedicato la sua tesi di dottorato, Alpha mâles. Séduire les femmes pour s’apprécier entre hommes (Seuil 2017) . La campagna d’odio online che nel 2022 ha colpito l’attrice statunitense Amber Heard durante la sua battaglia legale contro l’ex compagno, l’attore Johnny Depp, ha rivelato il peso mediatico di questi gruppi.
Grazie agli algoritmi, le rappresentazioni che circolano all’interno di questa maschiosfera si stanno diffondendo nella società, in particolare tra i più giovani. La giornalista Pauline Ferrari, autrice del saggio Formés à la haine (JC Lattès 2023), ha creato su TikTok il profilo di un adolescente un po’ fragile e depresso: dopo un quarto d’ora, il suo feed era pieno di contenuti aggressivi contro le donne.
La parola mascolinismo è presente nel dibattito pubblico dall’inizio degli anni duemila. Indica quelle manifestazioni di resistenza al femminismo secondo cui le donne ormai dominano gli uomini, i quali devono quindi difendere i loro diritti e ristabilire la loro identità maschile.
Questo “contromovimento, incentrato sulla vittimizzazione degli uomini”, come lo definiscono la ricercatrice quebecchese Mélissa Blais e il suo collega Francis Dupuis-Déri, può prendere diverse forme, più o meno gravi. “Spesso si usano degli eufemismi, per esempio dicendo che il femminismo si è spinto troppo oltre, che gli uomini non possono più dire né fare nulla, che bisogna riequilibrare la situazione”, spiega Dupuis-Déri, autore del saggio La crise de la masculinité. Autopsie d’un mythe tenace (Remue-Ménage 2018).
Secondo Mélanie Gourarier, il concetto di mascolinismo si estende a “ogni gruppo organizzato intorno alla difesa della ‘causa degli uomini’ e nello scontro con il femminismo e le donne”. E avverte: “Sarebbe un errore considerarlo un fenomeno limitato ad alcuni ambienti. Rappresenta un pensiero predominante, i cui valori sono molto diffusi nella società”.

Il mascolinismo “si inserisce a pieno titolo nel retaggio di un antifemminismo la cui origine è antica quanto quella del movimento femminista, se non addirittura precedente”, sostiene la storica Christina Bard, tra le curatrici del libro Antiféminismes et masculinismes d’hier et d’aujourd’hui (Puf 2019). Il termine è stato inventato alla fine dell’ottocento dalle pioniere del movimento femminista, insieme alla parola femminismo.

La giornalista Hubertine Auclert (1848-1914) lo usava per descrivere “l’egoismo maschile che spinge gli uomini ad agire in difesa dei proprio interessi”, spiega Denis Carlier, che sta completando una tesi di dottorato in scienze politiche su questo tema.

Nel corso del novecento il significato del termine cambia. Spesso considerato un neologismo, assume significati diversi e a volte contraddittori. Questi cambiamenti riflettono i diversi fronti delle battaglie politiche.

Ancora oggi non esiste una definizione unanime in ambito universitario. La filosofa Geneviève Fraisse preferisce parlare di “resistenza al femminismo”, espressione più politica: “Il mascolinismo rimanda a un’identità e difende, in nome dei diritti degli uomini, una struttura non fondata sull’uguaglianza, mentre il femminismo pone fin da subito la questione politica della libertà e dell’uguaglianza, punti di riferimento della democrazia”.

Secondo Dupuis-Déri, “il termine mantiene ancora oggi un significato molteplice, peraltro diverso in francese e in inglese, dove indica l’ideologia patriarcale”.

Anche se la definizione cambia da una lingua all’altra, poggia su una tesi comune, quella di una “crisi della mascolinità” che sarebbe causata dalla femminilizzazione della società e dall’indebolimento delle differenze tra i sessi. “È un discorso che viene regolarmente tirato fuori per spiegare tutto e il contrario di tutto, in ogni paese”, osserva Dupuis-Déri. “Le difficoltà dei bambini e dei ragazzi a scuola, quelle degli uomini sposati, il rifiuto dei tribunali di concedere la custodia dei figli ai padri divorziati e perfino fenomeni complessi come l’immigrazione, le sommosse, il terrorismo o la guerra”.

Femminicidi e vittimismi

Dagli anni settanta, in Francia, questa crisi è evocata dal movimento di difesa dei padri divorziati. Questi ultimi denunciano la presunta ingiustizia di un sistema giudiziario che affida più volentieri i figli e le figlie alle madri. Come ricorda la ricercatrice Gwénola Sueur, “nel 1969 nasce una prima associazione a Grenoble, la Didhem” (Difesa degli interessi degli uomini divorziati e dei loro figli minorenni). L’associazione è creata pochi mesi dopo il caso di Cestas, sulle cui conseguenze Sueur sta scrivendo una tesi di dottorato.

Nel villaggio di Cestas, nel dipartimento della Gironda, un capocantiere di 38 anni si barrica nella sua fattoria dopo aver rapito i figli. Chiede che la moglie, da cui è divorziato da tre anni, torni da lui, “perché crepi e creperà”. In seguito al rifiuto dell’ex moglie, uccide un gendarme durante l’assedio, poi ammazza due dei figli e si suicida. Insultata dalla folle, la madre dovrà essere protetta dalle forze dell’ordine per potersi raccogliere in preghiera sulla loro tomba.

Nei mesi seguenti, il caso di Cestas ispira numerosi femminicidi, suicidi di uomini e minacce. “Diventa il simbolo di quello che alcuni giornali chiamano il ‘dramma’ dei padri di fronte all’aumento dei divorzi”, commenta Sueur. “Una copertura mediatica che permette al movimento di portare avanti un discorso vittimistico”.

(Ludovica Anav – Donne)

Messaggi dalle urne (corriere.it)

di Massimo Franco

La destra ha vinto, la sinistra ha perso 
in Liguria. 

Ma per un’incollatura.

E il risultato provocherà qualche increspatura, in particolare nello schieramento sconfitto: sebbene entrambi dovrebbero riflettere sul calo dell’elettorato, che ridimensiona e accomuna vittorie e sconfitte. Né si può ignorare la coincidenza di questo voto locale con uno sfondo di scandali, tensioni legate alla manovra economica, e dossieraggi inquietanti.

Ma per paradosso, uno dei tanti di questo voto, avrebbero dovuto favorire le opposizioni e non la maggioranza di Giorgia Meloni. Si pensava che l’inchiesta giudiziaria che ha travolto la giunta di Giovanni Toti avrebbe spianato la strada al Pd e agli alleati.

Invece, alla fine il tre a zero che sognavano di incassare tra Liguria, e poi Umbria e Emilia-Romagna, chiamate alle urne a novembre, al massimo diventerà un due a uno. Il partito di Elly Schlein può essere soddisfatto del risultato ottenuto in una regione dove continua ad avere un certo radicamento: è nettamente primo, quasi doppiando FdI.

Il problema è che non gli è bastato per vincere. Ieri ha ricevuto la conferma che le sue alleanze sono virtuali e perfino ininfluenti, se il proprio candidato trascina meno della coalizione. Radicalizzano le liti e minano la credibilità dello schieramento del quale in teoria fanno parte.

Il gioco di veti tra M5S e Iv di Matteo Renzi, aggiunto alla faida grillina tra Beppe Grillo e Giuseppe Conte sono stati atti di sabotaggio più o meno intenzionale verso il cartello delle opposizioni. Se qualcuno nutrisse dei dubbi, il voto ligure dovrebbe averli spazzati via.

Non esiste nessun campo, o area, o cartello nel quale possano convivere tutti gli avversari di Palazzo Chigi. Né si delinea, se non nelle mire smisurate di Conte, una competizione tra Cinque Stelle e Pd per chi dovrà fare il capo del governo: tanto più in una prospettiva oggi altamente improbabile di vittoria della sinistra.

Il M5S è sotto il 5 per cento nella regione di Grillo, che non ha nemmeno votato. Dunque, senza un cambio di schema e di riferimenti, difficilmente il Pd riuscirà a scalfire il primato del destra-centro. Se non ci è riuscito questa volta in Liguria, a livello nazionale diventerà quasi proibitivo.

Detto questo, Meloni, Lega e FI hanno il compito di resistere alla tentazione di sfruttare la rendita di posizione di un fronte avversario slabbrato e diviso. E non solo perché l’affermazione di ieri è arrivata di misura, grazie a un candidato civico in mancanza, come sempre più spesso capita, di un accordo tra alleati.

Il tema della classe dirigente della maggioranza rimane acuto e irrisolto: in primo luogo a livello locale ma, come si vede in queste settimane, con un rimbalzo troppo frequente sull’esecutivo. Esiste poi una questione che riguarda non l’uno o l’altro schieramento, ma il sistema politico.

Il calo di altri sette punti nella partecipazione al voto è un segnale brutto. Si dirà che con la caduta della giunta di Giovanni Toti per le inchieste della magistratura, un astensionismo alto era inevitabile. Può darsi, ma bisogna stare attenti a non crearsi un alibi.

Già alle elezioni europee del giugno scorso, l’affluenza alle urne era stata inferiore al cinquanta per cento. E questo nonostante la presenza dei maggiori leader in lista, che avrebbe dovuto catalizzare la partecipazione; e a dispetto di un sistema proporzionale che permetteva di misurare il peso dei singoli partiti e il loro gradimento.

Senza nulla togliere al successo ottenuto allora da Meloni e Schlein, che ebbero il 28 e il 24 per cento, non si può non osservare che quel risultato va tarato sul 49 e rotti per cento di votanti. E dunque mostra consensi importanti ma di minoranza.

Può sembrare un calcolo ozioso, di fronte a un’affermazione chiara: in particolare se confrontata con le percentuali di altri partiti. Eppure, si delinea come un tema centrale per formazioni politiche che in prospettiva hanno l’ambizione di celebrare e affrontare consultazioni referendarie a ripetizione: sia per contrastare la riforma dell’autonomia regionale differenziata voluta dalla Lega; sia per fare approvare dal popolo un’elezione diretta del presidente del Consiglio, che per Meloni significa «la madre di tutte le riforme».

L’astensionismo a livello locale e alle Europee conferma e sottolinea un fenomeno di distacco non solo dai partiti ma dalle istituzioni. È un campanello d’allarme che sarebbe rischioso non volere sentire. Dice che esiste un popolo elettorale deluso profondamente dall’offerta politica di oggi.

E che, almeno in parte, aspetta di capire chi sarà capace di offrirgli una buona ragione per tornare a votare. È il dilemma inconfessato che ristagna al di là di un risultato chiaritosi in extremis. Incoraggiante per la maggioranza. Disastroso per i suoi avversari. Preoccupante per tutti.

Il rischio di una guerra nucleare è reale. Il 15 ottobre, profondamente preoccupati per questo rischio, un gruppo di 20 paesi tra i quali Austria e Irlanda, hanno presentato una mozione all’Assemblea Generale delle Nazioni Unite, per chiedere agli Stati di rinnovare il loro impegno al disarmo nucleare, e istituire una Commissione Scientifica indipendente per valutare i rischi reali di una catastrofe nucleare oggi. È una iniziativa limitata ma concreta, seria e lungimirante. Mi auguro vivamente che l’Italia abbia la saggezza di appoggiarla.

La Commissione dovrebbe essere incaricata di “esaminare gli effetti fisici e le conseguenze sociali di una guerra nucleare su scala locale, regionale e planetaria, compresi tra l’altro gli effetti climatici, ambientali e radiologici, e i loro impatti sulla salute pubblica, sui sistemi socio-economici globali, sull’agricoltura e sugli ecosistemi, nei giorni, nelle settimane e nei decenni successivi alla guerra nucleare, e di esaminare e commissionare studi pertinenti, inclusa la modellizzazione ove appropriato, e pubblicare un rapporto completo, trarre conclusioni chiave e identificare le aree che richiedono ricerche future”.

Sorprendentemente, questo sarebbe il primo studio di questo genere condotto dalle Nazioni Unite, dopo quelli degli anni 80, che furono importanti per arrivare ai saggi trattati che hanno portato allora alla riduzione degli armamenti nucleari. Molte cose sono cambiate negli armamenti nucleari da allora, e il rischio potrebbe essere perfino più grave di quanto si pensi.

Quattro considerazioni sono rilevanti. Primo, un governo ha già usato le armi nucleari. Secondo, nei decenni passati abbiamo più volte sfiorato la catastrofe, anche accidentale. Nel caso più clamoroso, il lancio da un sottomarino che avrebbe scatenato la guerra nucleare è stato approvato dal primo e dal secondo ufficiale, ed è stato bloccato dai dubbi e dall’opposizione del terzo, che non era militare di carriera.

Viviamo sull’orlo dell’abisso. Terzo, Gli Stati Uniti hanno recentemente aumentato in maniera drastica gli investimenti nelle armi nucleari. Le superpotenze nucleari ora non sono più solo Russia e America, si sta aggiungendo la Cina, rendendo disequilibrata la deterrenza a due che fino a ora ci ha tenuto pericolosamente vicini alla catastrofe, ma ha evitato il peggio.

Quarto, il recente abbandono dei trattati che mettevano al bando le armi nucleari a medio raggio rende la deterrenza molto più fragile, perché aumenta la tentazione di una scinsiderata rischiosa mossa d’anticipo. Una nuova valutazione seria dei rischi condotta da una autorità al di sopra delle parti come le Nazioni Unite può portare una luce di ragionevolezza, in un mondo che sembra averne molto bisogno.

Mi auguro che l’Italia sappia, come l’Austria e l’Irlanda, vedere l’interesse comune dell’umanità in una questione di importanza così vitale, e sostenere questa mozione. Non è impossibile che la Nato faccia pressione sui suoi membri per ostacolare la mozione. Cedere a questa pressione vorrebbe dire cadere nella miopia dello scellerato gioco di potenza fra le parti, in un mondo sempre più diviso e sempre più belligerante.

Opporsi a una spinta, anche piccola, verso un controllo delle armi nucleari è profonda stupidità. Mi auguro vivamente che questo governo abbia la schiena diritta. In gioco c’è la possibilità stessa del nostro futuro.

Perché la Cina non rinuncerà a un modello economico fallimentare (foreignaffairs.com)

di 

Pechino potrebbe vedere guadagni a breve termine, 
ma ignora il rischio di sofferenze a lungo termine

Alla fine di settembre, dopo mesi di mancato raggiungimento degli obiettivi di crescita post-pandemia, il governo cinese ha iniziato a lanciare un’ampia serie di misure di stimolo economico.

Finora, questi hanno incluso il sostegno del mercato azionario, l’allentamento della politica monetaria, la ricapitalizzazione delle grandi banche statali e alcuni stimoli fiscali limitati.

L’importo totale e le specifiche dello stimolo fiscale saranno rivelati dopo le elezioni statunitensi, dopo la riunione del Comitato permanente dell’Assemblea nazionale del popolo all’inizio di novembre, ma il vice ministro delle Finanze Liao Min lo ha descritto come “su larga scala”.

Svelando queste misure, Pechino ha finalmente riconosciuto ciò che il popolo cinese e il mondo sanno da tempo: l’economia cinese è in guai seri. Il “sogno cinese” – la visione del presidente cinese Xi Jinping di raddoppiare le dimensioni dell’economia entro il 2035 e raggiungere una prosperità su larga scala – sta scivolando via. Ma lo stimolo funzionerà?

La sfida economica più urgente per la Cina a breve termine è la debole domanda interna, trainata dalla mancanza di fiducia dei consumatori. Quando i consumatori cinesi si rifiutano di spendere, accumulano liquidità, creando un eccesso di risparmio che, insieme all’eccesso di investimenti del governo in industrie politicamente favorite, aggrava il problema strutturale più grave a lungo termine della Cina: l’eccesso di capacità industriale.

Come ho sostenuto su Foreign Affairs ad agosto, le dinamiche che si rafforzano a vicenda tra il calo della domanda interna e l’eccesso di capacità industriale formano un circolo vizioso economico da cui la Cina deve uscire per evitare la stagnazione. La leadership cinese afferma che l’ultimo stimolo ha lo scopo di stimolare i consumi.

Escludendo in gran parte l’assistenza diretta alle famiglie come parte dei suoi piani di stimolo, tuttavia, il governo ha dimostrato di essere ancora aggrappato al suo vecchio copione economico di investimenti diretti dallo Stato.

Al centro del problema della domanda cinese c’è una crisi di fiducia derivante dalle ansie dei cinesi comuni riguardo alla loro situazione economica e al loro futuro.

Nel 2017, l’anno in cui Xi ha iniziato il suo secondo mandato e ha rafforzato la sua presa sull’economia, le famiglie urbane stavano godendo dei frutti di decenni di forte crescita, con il reddito disponibile che raddoppiava circa ogni otto anni. Per le giovani famiglie di oggi, quei giorni felici sono finiti. Entro il 2024, il reddito medio disponibile era aumentato solo del 50% dal 2017, un drastico rallentamento rispetto all’era precedente, e la tempistica per raddoppiarlo di nuovo si è allungata a circa 15 anni.

Questo rallentamento significa un passaggio dalle aspettative un tempo incrollabili di opportunità economiche a una nuova realtà caratterizzata da una crescita moderata e da pressioni crescenti. Invertire l’attuale traiettoria della Cina richiederebbe a dir poco una macchina del tempo, e i piani di stimolo in discussione non forniscono il tipo di sostegno finanziario a livello familiare necessario per ripristinare la fiducia nel futuro della Cina.

GUAI IRRISOLTI

Le recenti misure di stimolo di Pechino sembrano mirare principalmente a ripristinare la fiducia tra l’élite imprenditoriale del paese. La People’s Bank of China sta adottando una strategia simile all’approccio di quantitative easing della Federal Reserve, concentrandosi sui prezzi degli asset finanziari nella speranza di generare un effetto ricchezza che si ripercuote sull’economia in generale.

La PBOC ha stabilito due meccanismi, entrambi progettati per iniettare liquidità nei mercati e sostenere i prezzi degli asset finanziari più rischiosi come azioni, obbligazioni societarie e fondi negoziati in borsa. Il primo è un programma governativo da 70 miliardi di dollari che consente agli investitori istituzionali – principalmente i broker statali e le compagnie assicurative note come “squadra nazionale” – di acquistare attività finanziarie rischiose e successivamente scambiarle con titoli di Stato di alta qualità.

Queste obbligazioni possono quindi essere ricostituite come garanzia per prestiti bancari, garantendo di fatto al team nazionale l’accesso a finanziamenti economici della banca centrale per acquisire attività e sostenere i prezzi. La PBOC ha implementato un programma simile nel 2015 per stabilizzare il mercato azionario dopo che i prezzi sono scesi di oltre il 40% in pochi mesi.

Il secondo meccanismo è un programma di rifinanziamento da 42 miliardi di dollari progettato per estendere i prestiti alle società quotate in borsa, consentendo loro di utilizzare i proventi per riacquistare le loro azioni sul mercato azionario, funzionando essenzialmente come un dividendo che aumenta i rendimenti per gli azionisti. I funzionari cinesi sperano che ciò fornisca carburante continuo per un rally del mercato azionario; da metà settembre i prezzi delle azioni sono aumentati di circa il 25 per cento.

Nonostante questi sforzi, è improbabile che il quantitative easing della PBOC con caratteristiche cinesi risolva i problemi economici più ampi della Cina, perché fa relativamente poco per stimolare la domanda effettiva dei consumatori. Tra i limitati sostegni diretti alle famiglie vi sono le nuove normative che consentono ai mutuatari di rifinanziare i loro mutui, consentendo loro di beneficiare di una recente riduzione di mezzo punto percentuale del tasso di riferimento sui mutui ipotecari.

Si prevede che questo cambiamento farà risparmiare a circa 50 milioni di famiglie, per un totale di circa 21 miliardi di dollari all’anno, in pagamenti di interessi più bassi.

Inoltre, le autorità locali hanno ridotto l’acconto richiesto per l’acquisto di una seconda casa come parte degli sforzi per eliminare l’inventario in eccesso dal mercato e fornire un sostegno ai prezzi delle case. Dato che l’edilizia abitativa rappresenta circa il 70% del patrimonio delle famiglie cinesi e che i mutui rappresentano circa il 75% del debito delle famiglie, qualsiasi misura volta a stabilizzare i prezzi delle case e a diminuire i costi di finanziamento è probabile che rafforzi i bilanci delle famiglie.

Stabilire un livello minimo sotto i prezzi delle case è un primo passo fondamentale per ripristinare la fiducia dei consumatori cinesi nelle loro prospettive finanziarie a lungo termine.

Ad oggi, i principali responsabili politici cinesi sono stati notevolmente riluttanti a discutere anche solo di trasferimenti diretti di denaro ai consumatori ordinari. Ciò è probabilmente dovuto alla limitata esperienza politica del governo in questo settore e alla diffidenza da parte dei funzionari economici di Pechino nel segnalare qualsiasi cambiamento di politica senza una direzione esplicita da parte di Xi.

Eppure l’infrastruttura finanziaria cinese è ben preparata per facilitare uno stimolo diretto alle famiglie. La maggior parte delle buste paga e delle prestazioni di sicurezza sociale sono già collegate ai conti di deposito presso le banche commerciali statali, rendendo le ricariche dei saldi operativamente semplici.

A MODO MIO O IN AUTOSTRADA

Xi non è contrario a brusche inversioni di politica, come dimostrato dal suo improvviso abbandono della politica “zero COVID” alla fine del 2022 e dalle sue iniziative economiche mutevoli durante il suo mandato. Eppure una costante della sua leadership è stata la sua avversione per l’elemosina in denaro, che, ha suggerito, potrebbe consolidare uno stato sociale.

Ha messo in guardia i membri del partito dal “cadere nella trappola del ‘welfarismo’ che nutre i pigri”. La retorica di Xi non dovrebbe essere interpretata erroneamente come l’approvazione di un’ideologia di robusto individualismo in Cina. Piuttosto, il suo approccio dall’alto verso il basso alla governance privilegia l’unità ideologica rispetto alle concessioni populiste e favorisce gli investimenti guidati dallo Stato rispetto al sostegno fiscale individuale.

Xi ha chiarito che la sua priorità assoluta è trasformare la Cina in una superpotenza globale autosufficiente. Mira a essere il leader che si lascia definitivamente alle spalle il “secolo di umiliazione” della Cina, un riferimento alla lunga era in cui la Cina percepiva la sottomissione alle potenze occidentali.

In questo contesto, l’attuale obiettivo di crescita del PIL del governo di circa il 5% e il pacchetto di stimolo che ha annunciato per contribuire a raggiungerlo sono solo mezzi per raggiungere un fine. Al contrario, uno stimolo diretto alle singole famiglie sposterebbe il potere d’acquisto dal governo ai consumatori, lasciando potenzialmente meno risorse per le grandi ambizioni di Xi e dandogli meno controllo sulla direzione generale del paese.

Gli annunci del governo in merito al pacchetto di stimolo hanno deliberatamente enfatizzato la retorica sui sostanziali cambiamenti politici volti ad aumentare i consumi. Questo approccio è in linea con l’obiettivo di Xi di aumentare la fiducia nell’economia senza distogliere risorse dal perseguimento dell’autosufficienza cinese.

Il capitale iniettato nel sistema finanziario per sostenere i prezzi delle azioni e stabilizzare le banche sarà probabilmente reindirizzato verso le stesse industrie strategiche che dovrebbero consentire alla Cina di scavalcare gli Stati Uniti in tecnologia e capacità militari.

Il pacchetto di stimolo di Xi non affronta i problemi strutturali più profondi della Cina.

Il sistema “dell’intera nazione” per gli investimenti tecnologici garantisce che tutti i grandi bacini di capitale possano essere mobilitati per ottenere scoperte in aree critiche come l’intelligenza artificiale, i semiconduttori e i motori aeronautici.

A differenza di un vero e proprio pacchetto di stimolo per i consumi, l’attuale serie di misure sembra avere un secondo fine: rafforzare la capacità della Cina di superare l’Occidente economicamente e militarmente. Allo stato attuale, la direzione politica articolata nei dettagli del pacchetto di stimolo fornisce ai governi occidentali pochi incentivi a riconsiderare le barriere commerciali o ad allentare i controlli sulle esportazioni in Cina.

L’entità potenziale delle elargizioni di denaro alle famiglie è limitata dalla posizione finanziariamente tesa dei governi locali cinesi. Pechino si è impegnata ad aiutare offrendo swap del debito per rifinanziare il debito ad alto costo e a breve termine che grava su molte amministrazioni locali.

I bilanci locali sono stati schiacciati dalla riduzione delle entrate derivanti dalla vendita di terreni a causa della flessione del mercato immobiliare, dei costi sanitari pubblici residui legati alla pandemia e dell’aumento delle spese di assistenza sociale legate all’invecchiamento della popolazione. Per molti funzionari locali, il raggiungimento del progresso industriale e la garanzia della sicurezza della catena di approvvigionamento hanno la precedenza sullo stimolo della spesa dei consumatori.

Se Pechino dovesse perseguire pagamenti diretti in contanti alle famiglie, si troverebbe di fronte alla sfida di bypassare le autorità locali, che potrebbero dirottare una parte dei fondi. I trasferimenti diretti dal governo centrale alle casse locali rischiano una cattiva allocazione o addirittura un’appropriazione indebita, limitando l’efficacia pratica dei trasferimenti di reddito delle famiglie come stimolo. Senza una supervisione eccezionale, questi pagamenti potrebbero raggiungere le famiglie solo in piccole quantità, gocciolando come gocce da un rubinetto che perde.

UN GIOCO DI FIDUCIA DIVERSO

Il recente pacchetto di stimoli potrebbe effettivamente raggiungere gli obiettivi a breve termine di Pechino: un rally del mercato azionario con capacità di resistenza, un mercato immobiliare stabilizzato, un aumento temporaneo della fiducia dei consumatori e una crescita del PIL del cinque per cento per il 2024.

Tuttavia, non affronta i problemi strutturali più profondi della Cina ed è improbabile che spinga le famiglie a spendere di più a lungo termine. Il governo non sembra disposto a intraprendere le misure coraggiose necessarie, come il sostegno diretto al reddito delle famiglie, che potrebbero portare a un significativo riequilibrio economico.

Invece, gran parte degli ultimi stimoli sembrano volti a puntellare i punti più deboli dell’economia quel tanto che basta per segnalare che il partito non ha abbandonato il suo ruolo di buon amministratore dell’economia e rimane impegnato a sostenere la fine del contratto sociale cinese.

Senza una crescita del reddito più forte, le famiglie cinesi continueranno a risparmiare a tassi ostinatamente elevati. Anche se il recente stimolo si rivelerà sorprendentemente efficace, il declino demografico della Cina e le crescenti tensioni geopolitiche con l’Occidente suggeriscono che le prospettive economiche a lungo termine del paese rimarranno incerte.

Da quando sono iniziati i lockdown dell’era della pandemia, la classe media cinese ha sperimentato una persistente insicurezza economica, una percezione che potrebbe richiedere anni per essere scossa.

Negli ultimi quattro decenni, l’economia cinese ha vissuto forse il periodo di crescita più straordinario della storia umana. Nel 1981, oltre il 90% della popolazione cinese viveva in condizioni di povertà così gravi come nelle regioni meno sviluppate del mondo. Oggi, oltre la metà della popolazione appartiene alla classe media, con un tenore di vita paragonabile a quello di molte nazioni sviluppate.

Eppure, in un certo senso, i cinesi della classe media non si sono mai sentiti così poveri. La sensazione di essere in ritardo rispetto alla qualità della vita dei loro coetanei è aumentata e le opportunità per i loro figli di raggiungere la ricchezza e studiare all’estero sembrano più fuori portata.

Per la prima volta dopo le riforme economiche in Cina, molte famiglie temono che il domani potrebbe non essere migliore di oggi, non a causa di fallimenti personali, ma a causa di forze al di fuori del loro controllo. I giovani adulti che entrano nel mondo del lavoro si sentono impotenti e un numero crescente di loro si sente incapace di iniziare una carriera redditizia, con una disoccupazione giovanile che supera il 17%.

Le giovani famiglie devono affrontare una pressione incessante solo per mantenere il loro tenore di vita. Le visite ai templi buddisti sono aumentate di oltre il 300% l’anno scorso, suggerendo che sempre più persone si rivolgono alle superstizioni per avere fortuna per assicurarsi il proprio futuro. Sempre più spesso, molti cinesi sembrano riporre più fiducia nelle offerte del tempio o negli amuleti che nelle assicurazioni del partito di una prosperità comune.

La prossima amministrazione statunitense dovrà affrontare una Cina alle prese con un rallentamento della crescita economica, una classe media inquieta e un leader che sembra più impegnato a costruire un esercito di livello mondiale che una società prospera.

Questa complessa situazione richiede una strategia cinese che valuti realisticamente le capacità e i limiti di Xi, non solo le sue ambizioni. Sebbene i comuni cittadini cinesi possano avere un potere d’azione limitato, collettivamente possono esercitare una pressione economica su Pechino. Stringendo i loro portafogli e dando priorità ai risparmi, esprimono di fatto un silenzioso ma potente voto di sfiducia nella direzione del paese.

Se le condizioni economiche in Cina continuano a deteriorarsi, Xi potrebbe cambiare repentinariamente, forse ammorbidendo il suo antagonismo verso l’Occidente. Mentre osserva l’evolversi degli stimoli cinesi e la probabile incapacità di Pechino di risolvere i problemi economici di fondo del paese, Washington dovrebbe evitare di fissarsi così tanto sulla minaccia percepita dalla Cina da trascurare le potenziali opportunità di ridefinire le relazioni USA-Cina in futuro.

(Una vista del distretto finanziario di Pudong a Shanghai, Cina, settembre 2024 Tingshu Wang / Reuters)