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Scoperti al centro (corriere.it)

di Paolo Mieli

Spiegava ieri Marco Imarisio su queste pagine 
quanto siano stati determinanti, per l’elezione 
di Marco Bucci a governatore della Liguria, i 
voti provenienti da Imperia. 

Imperia è feudo di Claudio Scajola già ministro berlusconiano del centrodestra ma prima ancora esponente della Dc.

Partito dello scudo crociato che in questa parte della regione fu fondato, nel secondo dopoguerra, dal padre di Scajola, Ferdinando. Scajola era stato tutt’altro che un simpatizzante di Giovanni Toti. Ma, nel momento del bisogno, è corso in aiuto al suo successore. Come insegnavano i comandamenti di Piazza del Gesù (che fu a Roma la sede nazionale della Democrazia cristiana).

Mentre Scajola mobilitava i suoi a sostegno di Bucci, sul fronte opposto Andrea Orlando veniva costretto — da Giuseppe Conte con l’assenso non entusiasta dei vertici del Pd — ad epurare le proprie liste da esponenti renziani, accusati di aver collaborato, nella stagione che si è appena chiusa, con Bucci sindaco di Genova.

Ma che ora lo avevano lasciato ed erano tornati a sinistra. Cose che capitano in politica: qualche anno fa capitò anche a Conte e ai grillini di lasciare Matteo Salvini (in realtà era stato lui a lasciarli) per unirsi in matrimonio con Nicola Zingaretti.

M a se non è considerata una colpa passare dall’abbraccio con Salvini a quello con Zingaretti, che genere di reato è quello di mollare Bucci per Orlando? Il fatto è un altro. L’ex democristiano ed ex presidente del Consiglio Matteo Renzi è tenuto nel conto di una bestia nera da Conte e da una fetta di dirigenti del partito del quale, pure, fu segretario.

Dirigenti che, all’epoca in cui lui era al timone, uscirono dal Partito democratico e fondarono un gruppo che, elezioni dopo elezioni, conquistò una quantità di voti non dissimile da quella di cui dispone oggi Renzi. Sostengono, Conte e quei reduci, che solo a sentire il nome di Renzi molti elettori scappano e pochi se ne aggiungono. Esibiscono a riprova di ciò sondaggi, accompagnati da studi politologici e racconti di manifestazioni antirenziane alle feste dell’«Unità».

Lungi da noi voler prendere le difese di Renzi. Può darsi che Conte e i revenants di «Articolo Uno» abbiano ragione. Ma allora non si capisce come mai essi stessi abbiano accettato che rappresentanti di quel «demone!» compaiano nelle liste Pd presentate alle elezioni regionali in Umbria ed Emilia. Elezioni che si terranno non tra anni ma tra una ventina di giorni.

La storia della sinistra che deriva dal Pci è piena di mostrificazioni del genere. Moltissime hanno avuto come bersaglio i socialisti. Ma la più celebre fu quella che riguardò Lev Trotzki (per carità: nessun paragone con Renzi) elevato da Stalin a simbolo di ogni male. E da lui fatto uccidere in Messico: nel 1940, con un colpo di piccone alla nuca.

La mostrificazione durò poi ben più a lungo della sua eliminazione fisica. Oltre anche alla morte di Stalin (1953) e alla denuncia di Chruscev dei crimini del terribile georgiano (1956). Tant’è che, quando l’uccisore di Trotzki, Ramón Mercader, si recò nel 1961 a Mosca, fu accolto da Chruscev con tutti gli onori. E persino Pietro Ingrao, grande eretico della storia del Pci, raccontava divertito d’essere stato negli anni Sessanta accusato di trotzkismo.

In piccolo — molto, molto più piccolo — la storia si ripete con Renzi. Parte degli attuali dirigenti «riformisti» del Pd (ridotti ormai a sparuta minoranza), ad ogni manifestazione di fedeltà ai valori dell’atlantismo o a quelli dell’economia di mercato, sono costretti a difendersi dall’accusa di «cripto renzismo».

E, reato dei reati, d’aver preso parte al «golpe» che portò al governo Mario Draghi. Al più — se proprio si vuol volgere lo sguardo al centro — contiani e reduci di «Articolo Uno» concedono che sia offerta qualche poltroncina agli amici di Carlo Calenda e di Emma Bonino.

Fin qui Elly Schlein è stata al gioco. Sotto la sua guida il partito vola (è accaduto anche due giorni fa). Forse anche solo per il fatto che non assomiglia in nulla a chi l’ha preceduta. Ma attorno al Pd si va facendo il deserto. Non a sinistra dove il partito di Fratoianni e Bonelli — in tutto e per tutto sovrapponibile ai Cinque stelle, con una storia alle spalle, però, di maggiore linearità — va crescendo di elezione in elezione.

Il problema è alla destra di Schlein, dove il patrimonio degli ex democristiani e dei cosiddetti partiti laici è andato disperso. A sinistra non ci sono gli Scajola. Ogni tanto Goffredo Bettini propone di dedicare all’«operazione Lazzaro», cioè all’impresa di resuscitare il «centro», qualche personalità del passato: Paolo Gentiloni, Francesco Rutelli. Ma loro con gentilezza lasciano cadere l’invito. Chissà se qualcuno al Nazareno si è accorto che lasciare alla destra l’intero spazio del centro è rischioso?

A volte, come si è visto, nelle elezioni a turno unico, un pugno di voti può fare la differenza. E le elezioni politiche sono a turno unico.

Il romanzo su Lenin di Ezio Mauro da far leggere a Putin e Musk (ammanettati) (ilfoglio.it)

di Adriano Sofri

Piccola posta

Una conclusione che tira le somme, letteralmente: “Dei sei candidati alla successione di Lenin secondo il suo Testamento, cinque sono scomparsi pochi anni dopo, sterminati dal sesto”

Ieri Repubblica ha pubblicato la nona e ultima puntata di “Lenin. Un romanzo russo”, la storia che Ezio Mauro ha dedicato al centenario della morte del capo della rivoluzione d’ottobre.

Una conclusione che tira le somme, letteralmente: “Dei sei candidati alla successione di Lenin secondo il suo Testamento, cinque sono scomparsi pochi anni dopo, sterminati dal sesto”.

Mauro ha però riservato l’ultimo racconto all’anatomopatologia del sacrario bolscevico. Lenin era morto nella puntata precedente, adesso si tratta di renderlo immortale, imbalsamato, surgelato, immerso in formalina, glicerina, acetato di potassio, devozione e terrore. 

Il corpo sta disfacendosi nell’imperizia quando si trova il riluttante taumaturgo. Il mondo è piccolo, lui “ha 48 anni, viene da Odessa, insegna anatomia all’Università di Kharkiv e sta osservando da lontano, dietro gli occhiali pince-nez rotondi, la scena del gran ballo moscovita attorno al cadavere del Capo dell’Urss che sembra scritta da Bulgakov: stanno sbagliando tutto, ancora pochi giorni affidati al ghiaccio e quel corpo non potrà più essere recuperato.

Il professor Volodimir Petrovic Vorobyov sa cosa bisogna fare ma non vuole dirlo, il rischio è troppo grande, comanda la politica e non la scienza: meglio restare silenzioso lontano da Mosca, nel vecchio obitorio. Vorobyov non ha paura degli spettri. Nel 1919 ha fatto parte della commissione per i crimini dei bolscevichi a Kharkiv nella guerra civile.

Ha visto e certificato l’orrore che riemergeva dagli scavi nei campi di Kharkiv, fin dai 18 cadaveri riaffiorati nel primo giorno d’inchiesta, per arrivare al comunicato numero 19 che denuncia “mille persone uccise in città”, al rinvenimento di 97 cadaveri torturati nella prigione del lavoro forzato, al calcolo ufficiale più prudente di 286 vittime… Vorobyov aveva conservato molti organi anatomici, ma non aveva mai provato a imbalsamare un intero corpo umano: e doveva incominciare proprio con Lenin?”.

E’ impressionante come la storia giri attorno a se stessa. Attorno agli stessi luoghi, specialmente, città memorabili e dimenticate fosse comuni. Kharkiv bombardata è cronaca di oggi.

Allora, solo alcuni anni dopo, “davanti alle voci dissacranti, un collega curatore, il professor Boris Zbarskij, invitò nella cripta moscovita un gruppo di testimoni stranieri tra cui il giornalista americano Louis Fischer, che lo vide aprire la bara di vetro, prendere la salma di Lenin per il naso e scuotere la testa a destra e sinistra, assicurando: “Durerà un secolo””. Il secolo è suonato, la mummia andata a rotoli.

Grazie a Mauro per l’ennesimo reportage dal passato, che, se ne avessi il potere, leggerei ad alta voce, nell’unico podcast della mia vita, a due ascoltatori, possibilmente ammanettati, l’uno all’altro magari: Vladimir Putin, ed Elon Musk.