Fare propaganda anti Meloni vuol dire soffiare sugli spiriti partigiani: cambiamenti strutturali avviati solo da governi Renzi e Draghi (ilriformista.it)

di Claudio Velardi

Caro Mario,

parto dalle tue conclusioni, con le quali (ohibò!) concordo: due anni dopo siamo al punto di partenza.

Nel senso che nessun problema strutturale del paese è stato finora affrontato dal governo in carica con il passo necessario, che dovrebbe avere la potenza e la velocità di un razzo di Musk. Perché il nostro paese, tra quelli europei, ha il più basso tasso di crescita della produttività non da ieri, ma dal 2000 (0,4% contro l’1,5% medio del continente).

E la vecchia Europa (il cui PIL, da qui a 20 anni, scenderà dal 15% al 10/12% del PIL globale) è l’epicentro dell’Occidente aggredito, oltre che da chi ci fa direttamente la guerra, dal mondo BRIC che cresce alla velocità della luce.

I dati fuorvianti

In questo quadro, che vuoi che faccia il governo Meloni? Certo, neppure ci prova. Si balocca con dati fuorvianti, il principale dei quali – quasi l’unico – è che l’occupazione italiana cresce (vero), ma è mal pagata e sempre meno qualificata, con i giovani bravi che scappano via dal paese; altri dati incoraggianti non ne conosco.

Mentre il governo, nelle sue varie articolazioni, sa usare, con addestrata esperienza, i più classici argomenti securitari (immigrati alle porte, città insicure, cancerose nostalgie verso un passato idealizzato) per dirottare le paure generate dalle trasformazioni (digitalizzazione, tecnologie, IA… Insomma la modernità in marcia) verso obiettivi di comodo: l’”altro” da noi, il diverso pronto a scardinare la nostra civiltà, e la solita sinistra nemica della triade Dio-Patria-Famiglia, emissaria delle élites che non si rassegnano al governo degli underdogs (e poco male se, al di là della Meloni, parecchi di questi underdogs sono brocchi veri).

Solo governi Renzi e Draghi avviato cambiamenti strutturali

Bene, qui finisce la filippica, buona per riempire il vuoto delle chiacchiere tra conoscenti perbene. E poi? Poi, per onestà, dobbiamo anche dirci che nei 25 anni di non-crescita e progressiva depressione dell’Italia ci sono stati governi di centro-sinistra (o tecnici equiparabili) per una dozzina d’anni e di centro-destra per 10.

E, sempre per onestà, dobbiamo aggiungere che nessun governo ha messo in moto nessuno di quei cambiamenti strutturali indispensabili (da fondare sulla triade libertà-mercato-mondo, altro che quell’altra…). Salvo (giudizi miei) il governo Renzi, scalzato per la sua ingenua arroganza giacobina, e il breve regno del supertecnico Draghi, che personalmente ancora rimpiango.

Tu potresti controbattere che questo è il passato, e che – visti i risultati non brillanti della Meloni – sarebbe comunque il caso di puntare, magari a breve, a costruirle un’alternativa, iniziando a pressarla su quello che non fa, mettendo su una coalizione alternativa ragionevole, un programma credibile e bla bla bla… Ma mi parleresti di cose che palesemente non si stanno facendo, dalle parti di Elly e della sua squinternata band.

E comunque il punto, caro Mario, non è neppure questo: il fixing dei rapporti tra Schlein, Conte, Fratoianni, Renzi &C è l’ultimo dei problemi, a mio avviso. Il punto è che, dopo 25 anni di incalzante trasformazione del mondo e di parallelo declino dell’Italia, si può legittimamente arrivare alla conclusione (provvisoria come tutte le cose della vita, ma al momento piuttosto condivisa nel comune sentire) che non è dall’alternarsi di coalizioni e partiti che ci si può aspettare un cambio di rotta, un’inversione di tendenza del piccolo pezzo di pianeta che abitiamo.

Dopo 25 anni dare stabilità e credibilità a sistema Italia

L’unica remota possibilità di migliorare le cose, sul medio-lungo periodo, sarebbe dare al sistema-Italia un minimo di stabilità e credibilità in più, magari unendo le forze, non organizzando gli eserciti contrapposti: ma questo, più che una speranza, è un sogno.

Mentre la sfida più concreta, stimolante e appassionante – almeno secondo me – sta nel costruire, giorno dopo giorno, la cultura diffusa, cosmopolita e moderna delle casematte della società civile (niente egemonia, dio scampi…), che – sole – possono far sperare in una crescita del paese reale.
Di qui la conclusione. Che si dica che il governo Meloni è “così così”, è splendido o fa schifo, non cambia le cose, neppure di un ette.

Le sorti di Giorgia dipenderanno da come riuscirà a districarsi nel caos crescente di casa sua, e dalla quantità di elettori/tifosi che andranno alle urne e, quando sarà il momento, decideranno. Ma, anche a questo fine, che si alzi la voce e si sparga una parola di propaganda in più contro il suo governo, non significa conquistare consensi ma solo soffiare sui bollenti spiriti dei partigiani.

Che continueranno, contenti loro, ad andare in cerca di qualche rivincita e non della soluzione dei problemi. Ma quella è una partita che non può appassionare i riformisti.

Firmato il contratto degli statali: aumento di 165 euro, settimana di 4 giorni e smartworking articolato (lastampa.it)

di Francesca Del Vecchio

L’accordo è stato sottoscritto dalla Cisl-Fp e 
dai sindacati autonomi Confsal Unsa, Flp e 
Confintesa Fp. 

Il no di Fp-Cgil e Uil-Pa

Firmato all’Aran – con una spaccatura tra i sindacati – il rinnovo del contratto 2022-24 del comparto Funzioni centrali, che interessa circa 195mila dipendenti dei ministeri, delle agenzie fiscali, degli enti pubblici non economici tra cui Inps e Inail. L’accordo è stato sottoscritto dalla Cisl-Fp e dai sindacati autonomi Confsal Unsa, Flp e Confintesa Fp, no invece da Fp-Cgil e Uil-Pa.

Le sigle firmatarie raggiungono la maggioranza del 54,6%. Il contratto prevede un incremento retributivo medio di 165 euro al mese, per tredici mensilitàA questi incrementi economici si aggiungono circa mille euro di arretrati medi mensili, calcolati al dicembre 2024.

Tra le principali novità, la possibilità della settimana corta, su quattro giorni: in via sperimentale e volontaria mantenendo le 36 ore settimanali, comportando ovviamente una giornata lavorativa più lunga, pari a nove ore più la pausa, oltre al riproporzionamento di ferie e permessi giornalieri.

Si tratta di una prima sperimentazione, che le amministrazioni possono decidere di attuare su base volontaria e con l’assenso del lavoratore, fermi restando i servizi da erogare.

«In pratica – evidenzia il presidente Aran – un’ulteriore norma di flessibilità che si aggiunge alla possibilità di fare smart working in modo più articolato a seconda delle esigenze delle amministrazioni, con la quota di lavoro agile che può superare anche la presenza in servizio».

Lo afferma Antonio Naddeo, presidente Aran, al termine dell’incontro con i sindacati che ha portato alla sottoscrizione del nuovo contratto per il pubblico impiego. «Tra le novità – sottolinea Naddeo – una maggiore valorizzazione del ruolo delle relazioni e della partecipazione sindacale e l’introduzione di una norma – già molto dibattuta a livello mediatico – che avvia la sperimentazione di una rimodulazione su quattro giorni, invece che su cinque, dell’attuale orario di lavoro di 36 ore settimanali, comportando ovviamente una giornata lavorativa più lunga, pari a nove ore più la pausa, oltre al riproporzionamento di ferie e permessi giornalieri.

«Innovativa – prosegue Naddeo – l’introduzione dell’age management, che stimola le amministrazioni a tenere in considerazione le diverse età dei dipendenti, con il duplice obiettivo di avviare un nuovo patto intergenerazionale, valorizzando al meglio chi ha maggiore esperienza, attraverso il “mentoring”, nei confronti dei più giovani, ma allo stesso tempo permettendo di attivare un “reverse mentoring” verso i più anziani, per esempio, sulle competenze digitali. Nel testo si rivolge, inoltre, una particolare attenzione nella contrattazione integrativa per i nuovi assunti. In particolare con specifiche indennità, lavoro agile e welfare aziendale».

Conclude Naddeo: «siamo chiamati a ridefinire un nuovo orizzonte alla Pubblica amministrazione e a rendere più attrattivo il lavoro, e sono certo che queste norme possono veramente avviare il cambiamento, iniziato con il precedente contratto firmato poco più di due anni fa, valorizzando le persone che ogni giorno garantiscono all’Italia servizi e competenze».

Tre brani di Leon Wieseltier da conservare su Musk, l’America e l’occidente (ilfoglio.it)

di Adriano Sofri

Piccola posta

Dalla conversazione con Paola Peduzzi, il giudizio sul miliardario: “Elon Musk è forse l’uomo più spregevole della terra, è il primo supercattivo della vita reale”. Sull’occidente, è la “nostra way of life a essere sotto attacco”

Della lunga conversazione di Paola Peduzzi con il prescritto Leon Wieseltier, vorrei preservare, a futura memoria, tre brani. Il primo su Elon Musk, che ormai mi sembra il più smagliante esemplare dell’Uomo nuovo. Le multinazionali avevano surclassato gli Stati, Musk ha surclassato le multinazionali.

Donald Trump è il suo proxy-man alla Casa Bianca. (Mi scuso, vedo sul dizionario Oxford che, a parte l’app windows, Proxy-man ha una sola ricorrenza letteraria, nel 1696: ma mi piace). In un solo dettaglio dissento dal ritratto che Wieseltier fa di Musk: dice che non è affatto idiota. Forse non lo è, ma certo lo è. Ecco dunque:

“Elon Musk è forse l’uomo più spregevole della terra, è il primo supercattivo della vita reale. E’ un uomo senza inibizioni e con una quantità esorbitante di potere, rappresenta il vero pericolo di una concentrazione estrema di denaro in un unico individuo, e dico ‘concentrazione estrema’ perché non ho nulla contro le persone ricche, ma Elon Musk pensa, e lo dice lui stesso, che le regole politiche, le regole etiche, le lezioni della storia per lui non valgono. Il danno che farà alla società americana eccede di molto i benefici dei suoi dannati razzi nello spazio. Musk è davvero un villain, un supercattivo, che non ha precedenti: è un nuovo fenomeno nella storia del male”.

Il secondo brano che trascrivo è questo: “L’occidente non capisce che non potrà godersi l’ordine liberale – e con godersi non intendo un cappuccino in un bar in una bella piazza, ma i suoi benefici e i suoi diritti – senza la volontà di mettere il proprio potere a protezione del proprio modo di vivere, perché è questa nostra way of life a essere sotto attacco”.

In questo caso, più che concordare con l’assunto, con cui pure concordo, ne estraggo, senza limitazioni, la definizione della vita universale per la quale vale la pena di dare la vita: un cappuccino in un bar in una bella piazza.

Il terzo e ultimo brano: “Gli americani votano nell’ignoranza, come se il voto fosse l’espressione di un’emozione e non di un ragionamento informato, come se il diritto di voto fosse l’unica cosa che conta nel voto”. Il voto è, nello sgretolamento dell’idea e delle pratiche della democrazia (fino al cuore, il cappuccino e la piazza) l’ultimo filo cui appigliarsi, mentre manipolazioni e brogli ne svuotano il senso, e perfino l’astensione rinuncia a motivarsi.

Il diritto di voto che diventa l’unica cosa che conta nel voto, dunque nella rinuncia a votare senza nemmeno porsi più il problema.