Il bagno di realismo della sinistra e il rischio di un armistizio sulla pelle degli ucraini (linkiesta.it)

di

Pax trumpiana

Dopo la sconfitta dei democratici americani, il timore è che nel Partito democratico italiano si rafforzi quel filone rossobruno che finora Schlein ha tenuto ai margini

L’epocale sconfitta dei Democratici americani è «una grande lezione», come dice Pina Picierno, che in teoria dovrebbe portare a forse qualche novità tra i progressisti europei.

La valanga trumpiana dovrebbe aprire gli occhi a molti, ma è probabile che produca anche il solito riflesso identitario vecchia maniera («dobbiamo essere più radicali», «al centro non si vince» e banalità simili), bypassando il nodo vero di una sinistra che non sa parlare più a popolazioni che nell’età della paura chiedono appunto sicurezza, in tutti i sensi, economica e fisica innanzi tutto.

Nel Partito democratico si attende che la segretaria Elly Schlein imposti una riflessione più approfondita delle prime parole espresse a botta calda («La vittoria di Trump è una brutta notizia. Chi oggi lo festeggia per ragioni di bandiera smetterà presto quando gli effetti di una nuova politica protezionistica colpiranno le imprese e in lavoratori in Europa e anche qui nel nostro Paese»).

Un primo serio ragionamento lo ha svolto Lia Quartapelle, esponente riformista, osservando che «da tempo la sinistra occidentale non vede i problemi scomodi (l’immigrazione, la microcriminalità, la sicurezza nazionale), non aggredisce le questioni economiche o la crisi del sistema di welfare. Quando la sinistra in Occidente vince, vince con personalità rassicuranti che offrono qualche cerotto. Quando mobilita, mobilita segmenti sempre più ridotti di elettorato usando l’identità e l’indignazione».

Ecco dunque che un tema come la sicurezza, sempre un po’ rimosso soprattutto se visto in connessione con la questione-immigrazione, potrebbe avere una sua centralità nella proposta complessiva (di governo) del partito di Elly Schlein. Sarebbe anche ora di abbandonare buonismi e genericità, regalando di fatto alla destra il compito di fare i conti con questa questione che nelle società occidentali è una priorità.

«La sicurezza è un tema decisivo, trasversale e sempre più sentito – dice Carlo Calenda – liquidarlo come argomento reazionario e razzista è una beata fesseria. Se diminuisce il benessere i cittadini hanno paura di dover dividere una torta sempre più piccola con più persone per di più di altre nazionalità».

Altro che evocare una «rivolta sociale» come improvvidamente ha fatto Maurizio Landini, qui si tratta di fare un bagno di realismo nel senso delle riforme partendo dalle domande vere dei cittadini. Non si tratta di inseguire la destra, quanto di competere con essa con progetti seri: «I repubblicani hanno avuto gioco facile – osserva Matteo Renzi – e la cosa che mi fa più rabbia è che questa destra, quanto di più lontano da me, ha saputo raccontare una storia e costretto gli altri a inseguirla».

Allo stesso modo, è possibile che la vittoria di Trump comporti qualche scompiglio in politica estera. Non a caso Lorenzo Guerini ha sentito il bisogno di dire subito la sua: sull’appoggio all’Ucraina non si arretra di un millimetro. La pace? Certo, ma «con l’Ucraina in piedi»: altro che resa!

Il presidente del Copasir ed ex ministro della Difesa si rende benissimo conto che con Donald Trump alla Casa Bianca, Kyjiv rischia di essere usata come primo boccone da consumare assieme a Vladimir Putin, tanto per cementare una diarchia reazionaria alla guida del mondo. E forse Guerini paventa anche un possibile ripiegamento opportunistico appunto in sintonia con il presidente americani da parte di Giorgia Meloni.

Insomma, il rischio di un otto settembre sulla pelle del popolo ucraino è molto forte, tutti a casa, la Russia si pappi pure il Donbas e la Crimea e chi si è visto si è visto. Il nuovo ordine mondiale passa dunque per la strage dei principi, come già è avvenuto molte volte proprio sul suolo europeo.

Guerini forse avverte che, anche per fronteggiare il pacifismo trumpiano di Giuseppe Conte, il gruppo dirigente schleiniano del Pd potrebbe mollare la sua posizione filo-ucraina, peraltro non esente da varie titubanze evidenziate in tante occasioni.

È infatti molto probabile che nel Pd e in generale nella sinistra si rafforzi quel filone rossobruno che finora Schlein ha saputo tenere ai margini, ma che dopo la vittoria di Trump ritiene di sentirsi in sintonia con la Storia, una corrente di pensiero che paradossalmente affida proprio al campione mondiale della destra il compito di portare la pace dopo il bellicismo dei Democratici.

Diversi esponenti soprattutto di scuola comunista la pensano così, anche se per decenza non lo dicono apertamente. Siamo solo alle prime battute ma il dibattito, che sarà ovviamente condizionato dai risultati in Umbria e Emilia-Romagna, è destinato ad aprirsi, con quali conseguenze adesso è impossibile dire. Ma certo è che intorno al Pd tutto sta cambiando.

Ora l’Ue dovrebbe agire subito per salvare l’Ucraina: l’alternativa è la resa dell’Europa

di PierGiorgio Gawronski

Questa notte, tutto il mondo (chi ha potuto) 
ha assistito con grande interesse alle elezioni 
americane, per le ovvie ricadute locali nell’era 
della globalizzazione. 

Ma per un Paese in particolare il risultato elettorale americano era una questione di vita o di morte: l’Ucraina.

Attaccando con Kiev l’“ordine globale” vigente, Putin aveva scommesso – più che sulle sue armate – sulla scarsa volontà dell’Occidente di difendere i principi su cui esso stesso si fonda. Codificati – dopo la Seconda guerra mondiale – a Norimberga, nella dichiarazione universale dei diritti dell’Uomo, nel diritto penale internazionale, nelle istituzioni delle Nazioni Unite, della Banca Mondiale, del Wto, dell’Ocse e di altri organismi di cooperazione internazionale. Principi, peraltro, spesso violati dai repubblicani americani (Bush jr. in Iraq, ecc).

Con il successo di Trump, Putin ha vinto la sua prima scommessa: a fine gennaio gli Stati Uniti verosimilmente ritireranno il loro sostegno economico e militare all’Ucraina invasa, colpita, torturata ma finora solo in parte sottomessa.

Biden si è premurato di lasciare in eredità agli ucraini un po’ di soldi e di armi. Ma l’ascesa a Washington di un fervente ammiratore di Putin si farà sentire subito al fronte, attraverso il meccanismo potente delle aspettative. La prevista interruzione degli aiuti, infatti, potrebbe facilmente demoralizzare gli ucraini, determinandone il rapido crollo.

È già successo in Afghanistan pochi anni fa, quando la notizia di un futuro disimpegno americano determinò il rapido crollo dell’esercito alleato locale e, a seguire, la fuga ignominiosa degli americani.

Se dunque l’Europa volesse salvare Kiev dovrebbe agire immediatamente, proponendosi in modo credibile al posto degli americani. I quali però non offrivano agli ucraini solo soldi e armi, ma anche un ombrello nucleare basato sulla deterrenza. E questa, contrariamente al flusso di armi e soldi, cesserà improvvisamente il prossimo 20 gennaio, con il passaggio delle consegne da Biden a Trump.

L’Europa avrebbe dunque di fronte un compito estremamente arduo e urgente, che richiederebbe di fare in due mesi quei progressi che per decenni sono mancati, sul coordinamento delle politiche estere e di difesa e sulla messa in comune della sovranità. O almeno, occorrerebbero fantasia e leadership per creare meccanismi istituzionali provvisori/straordinari ma funzionali.

Ma perché mai l’Unione europea dovrebbe difendere l’Ucraina? Le categorie geopolitiche non chiariscono la questione. Come dice Putin, la guerra (mondiale) è fra i sostenitori del vecchio ordine globale (liberale) e i sostenitori del nuovo ordine globale (autoritario). La profonda divisione dell’elettorato americano dimostra che la faglia fra i liberali e gli autoritari attraversa tutte le nazioni. Questa faglia (come altre) in caso di scontro paralizza ed espone le democrazie (per questo Putin le ritiene decadenti), condannando i regimi liberali alla sconfitta.

L’alternativa è una vergognosa resa dell’Europa in Ucraina. Rinunciando a sostenere la parte combattente del movimento liberaldemocratico internazionale, l’Europa invierebbe un chiaro segnale a dei pericolosi clienti: di essere disposta a sottomettersi. E tuttavia, è questa la soluzione di gran lunga più probabile, in base ai vincoli politici correnti e alla storia di promesse occidentali non mantenute degli ultimi secoli – dalle rivoluzioni del 1848 al tradimento della Cecoslovacchia nel 1938, alla ‘drole de guerre’ nel settembre 1939.

La vittoria di Trump accelera la crisi delle democrazie, acutamente percepita da Putin nel suo ormai famoso articolo di geopolitica del 2021 (del quale l’ambasciata russa due settimane fa pubblicizzava una traduzione in italiano).

Oggi come allora la politica ‘piccola’ ha tutto l’interesse ad alimentare l’illusione che la pace e la libertà possono essere conservate a buon mercato: il risveglio è quasi sempre duro.

Christian Raimo sospeso per tre mesi dall’insegnamento. L’Usr: “Gravi offese al ministro Valditara” (romatoday.it)

Il provvedimento

Il docente subirà anche una decurtazione del 50% dello stipendio. Protestano gli studenti dell’Archimede, dove Raimo insegna

Sospeso per tre mesi dall’insegnamento con una decurtazione del 50% dello stipendio. È il provvedimento disciplinare deciso dall’Ufficio scolastico regionale nei confronti di Christian Raimo, docente dell’Archimede, ex assessore alla Cultura nel municipio III e candidato alle scorse elezioni europee con Avs.

Perché Raimo è stato sanzionato

La decisione è stata presa per le critiche espresse da Raimo nei confronti del ministro dell’Istruzione e del merito Giuseppe Valditara, dal palco della festa annuale di Avs, in occasione di un dibattito pubblico. Il docente era già stato colpito da una sanzione di censura lo scorso agosto per “Comportamenti non conformi”, in relazione a un suo intervento televisivo in cui aveva detto che i neonazisti “vanno picchiati” e all’attacco via social al ministro dell’Istruzione Giuseppe Valditara.

“In merito alla recente sanzione inflitta al professor Christian Raimo a seguito di dichiarazioni pubbliche offensive nei confronti del ministro Valditara che definiscono quest’ultimo ‘cialtrone’ e ‘lurido’ e che ‘va colpito come la Morte Nera’ – spiega il direttore generale dell’Usr, Anna Paola Sabatini – non possono essere considerate una critica costruttiva; al contrario, si configurano come un’offesa che viola i principi fondamentali di rispetto reciproco e dialogo civile. Preme ricordare che il docente era stato già precedentemente oggetto di sanzione perché, in occasione di un suo intervento in una trasmissione televisiva, aveva affermato di incitare i giovani alla violenza. L’offensività delle dichiarazioni assume un carattere di particolare gravità quando sono indirizzate a un rappresentante delle istituzioni. La situazione è ulteriormente aggravata dal fatto che tali affermazioni sono state proferite da un docente. I docenti ricoprono un ruolo fondamentale nella formazione delle giovani generazioni e dovrebbero rappresentare un esempio di comportamento etico e civile per gli studenti. Incoraggiare il rispetto e la tolleranza è parte integrante della loro missione educativa”.

E ancora: “Stupisce che si difenda a oltranza – sottolinea Sabatini – chi, nonostante il proprio ruolo educativo, abbia, oltretutto, nel proprio percorso dichiarato pubblicamente che avrebbe insegnato storia militare per formare truppe volte ad assediare il ministero dell’Istruzione, quanto fosse giusto picchiare un avversario politico, che abbia definito la premier in modi indicibili, e altri episodi analoghi divulgati peraltro anche attraverso mezzi caratterizzati da una diffusività elevatissima. Il suo ruolo di docente e di educatore, soprattutto, non può non tenere in considerazione che questa dicotomia non possa essere scissa”.

La mobilitazione all’Archimede

A Raimo è arrivata la solidarietà di studenti e studentesse dell’Archimede che, questa mattina, giovedì 7 novembre, si sono mobilitati in difesa del loro professore, esponendo uno striscione con scritto “Tre mesi di sospensione per un’opinione”. I ragazzi, inoltre, hanno convocato un’assemblea per discutere di quanto accaduto. Sul caso è intervenuto anche  il segretario nazionale di Sinistra italiana, Nicola Fratoianni: “Un chiaro tentativo di intimidire una persona libera – spiega -. Colpirne uno per educarne cento, si sarebbe detto. È così che la punizione a Raimo diventa esemplare ed è un messaggio agli altri docenti, a studenti e studentesse e alle famiglie: la libertà di espressione e la libertà di dissenso costano e lo paghi a caro prezzo e sulla tua pelle”.

E, a proposito degli studenti che hanno manifestato in solidarietà con il docente, Fratoianni aggiunge: “Vogliamo raccogliere il loro testimone e ripartire dalla loro iniziativa di solidarietà e mandare anche noi un messaggio a tutte e tutti coloro che hanno paura: non siete soli. Noi siamo al loro fianco, non tolleriamo le ritorsioni di questi signori e signore con l’ossessione per i bavagli e i manganelli. Non ci faremo intimidire e non faremo passi indietro”.

E Angelo Bonelli, portavoce di Europa Verde e deputato di Avs aggiunge: “Quello che sta accadendo in questo Paese è ormai inaccettabile: ci troviamo di fronte a esponenti di governo che si sentono autorizzati a dire tutto e il contrario di tutto, sdoganando anche offese nei confronti di avversari politici e giornalisti, tutto ciò è inaccettabile”.

Solidarietà a Raimo anche dai parlamentari Pd delle commissioni Istruzione di Camera e Senato che, in una nota, spiegano: “Il governo nella sua ansia di creare nuovi reati vuole introdurre quello di lesa maestà? Il dissenso è il cuore della democrazia e la sospensione rischia di ledere pesantemente la libertà di opinione e costituisce un precedente inquietante. Raimo ha espresso un parere legittimo peraltro a una festa di partito e non nello svolgimento della sua funzione”.

La Flc Cgil: “Impugneremo il provvedimento”

Annunciano provvedimenti sulla vicenda le sezioni Flc Cgil di Roma e Lazio e nazionale, che fanno sapere che saranno attuate “tutte le azioni di tutela legale e sindacale per impugnare il provvedimento e invita tutto il personale a partecipare alle iniziative che saranno messe in campo a difesa della libertà di espressione”. E parlano, inoltre, di una “censura politica mascherata da sanzione disciplinare e prefigura una limitazione della libertà di espressione, garantita a tutti i cittadini nel nostro paese dalla Costituzione”.

Pratelli: “Provvedimento contro Raimo è un precedente gravissimo”

L’assessora alla Scuola del Comune di Roma, Claudia Pratelli, commenta così la notizia della sospensione: “Christian Raimo è un intellettuale prezioso che sta subendo una sanzione ingiusta, figlia di un approccio punitivo che non ammette dissenso e pensiero libero.Tre mesi di sospensione dall’insegnamento e stipendio dimezzato per aver espresso la sua opinione e per aver criticato nel merito le politiche messe in campo sulla scuola dal ministro Valditara.

È un precedente gravissimo, intimidatorio, che non può passare inosservato perché palesemente rivolto a dare un messaggio non solo a lui ma a chiunque abbia una idea che si discosta da quella del governo. Colpisce la reazione di solidarietà al professor Raimo degli studenti e delle studentesse della scuola dove insegna. Mi unisco a loro esprimendo a lui stima, vicinanza e amicizia”.

Cori anti-arabi, bandiere strappate. Poi i pestaggi. Cinque israeliani feriti (ilmanifesto.it)

di Ester Nemo

Tutto in una notte Ore di violenze ad Amsterdam 
prima e dopo la partita con l’Ajax, circa 60 
i fermi. 

La sindaca sotto attacco cancella i cortei pro-Pal

Cinque feriti israeliani e una sessantina di arresti. È il bilancio, ancora da chiarire, degli scontri che si sono verificati ad Amsterdam tra giovedì e venerdì notte. I tifosi del Maccabi Tel Aviv sono stati aggrediti all’uscita del match perso con l’Ajax per 5-0.

«Pogrom», hanno tuonato media e politici dalla capitale dello Stato ebraico, insieme ai nazionalisti dei Paesi bassi e a quelli di mezza Europa. «Espelleremo i radicali islamici», ha dichiarato Geert Wilders, leader di estrema destra del Partito per la Libertà. Il premier olandese Dick Schoof ha condannato «gli attacchi antisemiti».

La presidente della Commissione europea Ursula von der Leyen ha parlato di «aggressioni inaccettabili». Sulla stessa linea d’onda Joe Biden, secondo cui si è trattato di atti che «ricordano momenti bui della storia in cui gli ebrei erano perseguitati».

AL CORO GRANITICO dei sostenitori di Israele senza se e senza ma, manca però un pezzo della vicenda. Prima della brutta esplosione di violenza, infatti, gli ultrà del Maccabi avevano spadroneggiato impuniti per le strade della capitale olandese. I tanti video disponibili online mostrano un pre partita con, per così dire, poco fair play.

«Tifosi» israeliani che si arrampicano sulle case strappando le bandiere della Palestina esposte alle finestre. Un tassista arabo, pare di origine marocchina, aggredito. Notizie confermato dal capo della polizia di Amsterdam Peter Holla in una conferenza stampa. E poi i cori all’ingresso dello stadio: «Israele distruggerà gli arabi» e «Non ci sono più scuole a Gaza perché non restano più bambini».

L’oltraggio verso le vittime del genocidio è continuato anche durante il minuto di silenzio per le vittime dell’alluvione nella provincia di Valencia. La tifoseria israeliana lo ha interrotto rumorosamente, in dissenso con il sostegno spagnolo al popolo palestinese.A un certo punto della giornata di ieri si era diffusa la voce che ci fossero dei «dispersi» o persino degli «ostaggi». Tutto smentito.

GLI SCONTRI non sembrano riducibili alle classiche dinamiche da stadio, anche perché la curva dell’Ajax ha connessioni storiche con il variegato mondo ebraico. Stando alle autorità sarebbero diversi i minorenni coinvolti e gran parte delle azioni sarebbe avvenuta nell’area di Bijlmer, zona periferica a sud-est della capitale dove ha sede la John Cruijff arena, lo stadio dell’Ajax.

La costellazione di attivisti e associazioni che nei Paesi Bassi sostengono la Palestina, e si coordinano su Instagram intorno a profili come Amsterdam Encampment, avevano chiamato alla mobilitazione e alla protesta, denunciando gli atti intimidatori.

La sindaca di Amsterdam Femke Halsema – del partito Sinistra verde che però non ha mai nascosto una certa ostilità nei confronti del mondo musulmano e in particolare dei manifestanti pro Palestina – aveva risposto nei giorni passati a chi chiedeva di giocare a porte chiuse che il Maccabi non era nella lista delle tifoserie «attenzionate».

Durante la conferenza stampa di ieri la sindaca ha annunciato una serie draconiana di misure per il weekend, con la dichiarazione dello stato d’emergenza e il divieto di manifestazioni. Poco prima il driehoek (il comitato per l’ordine e la sicurezza in Olanda, composto da sindaco, capo della polizia e pm) si era unito d’urgenza in seguito agli scontri.

Il giornalista del quotidiano Nrc Toon Beemsterboer, però, aveva ricordato che la tifoseria della squadra si era già fatta riconoscere, eccome, ad Atene per episodi simili a quelli visti a piazza Dam. Nella capitale greca un cittadino di origine arabe era stato aggredito e mandato in ospedale da una quarantina di hooligans solo perché indossava una kefiah.

L’ARABISTA olandese Rena Netjes ha puntato il dito contro chi ha consentito a quei tifosi di marciare indisturbati per le vie di Amsterdam intonando in ebraico quei cori contro palestinesi e arabi. Responsabilità istituzionali rapidamente sparite dal dibattito, che ha avuto un’eco globale.

SE NON È POSSIBILE escludere che in alcuni casi l’esplosione di rabbia abbia assunto sfumature antisemite, dai video che si trovano in rete è evidente che le ragioni principali riguardassero la situazione a Gaza. «Grida Palestina libera, grida Palestina libera», dice un uomo a un supporter della squadra israeliana caduto a terra.

Del resto da Tel Aviv non era partita una comitiva di turisti israeliani in visita alla casa di Anne Frank, come hanno sottolineato anche Stephan van Baarle, capogruppo alla Camera olandese del partito multitenico Denk e Esther Ouwehand, leader del Partito per gli Animali – i soli parlamentari ad aver protestato per la reazione a senso unico dell’establishment dei Paesi Bassi – ma ultra nazionalisti che a dispetto delle promesse, la politica non l’hanno affatto lasciata fuori dai confini olandesi.

UN PROBLEMA SERIO in una città come Amsterdam, una delle capitali europee con più alte percentuali di musulmani – che rappresentano circa il 15% della popolazione – che allo stesso tempo si porta dietro la drammatica storia di persecuzioni e deportazioni di ebrei.

E un problema persino più serio se a guidare la città c’è una sindaca diventata di recente il bersaglio preferito degli attacchi di Geert Wilders, che ne ha auspicato diverse volte la rimozione, con la dichiarazione dello stato d’emergenza sembra abbia ceduto alle pressioni del capo del primo partito in Olanda, che pur non avendo formalmente incarichi, dice di aver parlato al telefono con Nethanyau e di aver garantito il massimo impegno per cacciare dal paese «i musulmani radicali».

(ha collaborato Massimiliano Sfregola)

Manifestanti pro-palestinesi al corteo che ha preceduto la partita Ajax-Maccabi foto Epa/Jeroen Jumelet (Manifestanti pro-palestinesi al corteo che ha preceduto la partita Ajax-Maccabi – Epa/Jeroen Jumelet)

150.000 posti di lavoro in Germania minacciati con Trump vincente (bild.de)

di Lena Campanaro, Nils Heisterhagen

Gli esperti economici avvertono

Come i presidenti avrebbero un impatto sui portafogli dei cittadini tedeschi.

Azioni

► Trump: I mercati azionari potrebbero gioire in un primo momento. Il motivo: Trump vuole una riduzione delle imposte sulle società, il che significa maggiori profitti per gli azionisti. Il capo economista di Commerzbank, il dottor Jörg Krämer (58 anni), ha dichiarato a BILD: “Anche i proprietari tedeschi di azioni statunitensi ne trarrebbero beneficio”.

A lungo termine, tuttavia, gli svantaggi superano gli svantaggi: i dazi di Trump probabilmente provocheranno contro-dazi. “Questo potrebbe indebolire la divisione internazionale del lavoro e persino innescare una guerra commerciale”. Anche le aziende e gli azionisti tedeschi ne risentirebbero.

Una vittoria di Trump potrebbe inizialmente dare una spinta ai mercati azionari, ma avere conseguenze negative a lungo termine

(Una vittoria di Trump potrebbe inizialmente dare una spinta ai mercati azionari, ma avere conseguenze negative a lungo termine Foto: AP)

Harris: Per il democratico, è il contrario: prevede un aumento delle tasse sulle società, che inizialmente potrebbe deprimere i prezzi delle azioni. A lungo termine, tuttavia, Krämer si aspetta “più stabilità”, poiché Harris non inizieranno una guerra commerciale con noi.

Lavoro

Trump: L’IW di Colonia ha calcolato cosa significherebbero per noi i piani tariffari di Trump: se aumentasse i dazi sui prodotti europei fino al 20% e Bruxelles rispondesse con contromisure, il prodotto interno lordo della Germania potrebbe ridursi di ben 180 miliardi di euro entro il 2028.

Si tratterebbe di una media di 2170 euro in meno in ogni portafoglio. Peggio ancora, la Germania è minacciata di una perdita fino a 151.000 posti di lavoro.

Se Trump dovesse effettivamente introdurre le tariffe, sarebbe “un problema per la Germania come paese esportatore”, ha detto Krämer. L'”industria automobilistica già malconcia” ne risentirebbe in modo particolare.

Martin Moryson (Chief Economist Europe presso l’asset manager DWS) a BILD: “Anche se i dazi non arriveranno come precedentemente annunciato, sconvolgeranno gli investimenti. Le aziende attendono le loro decisioni di investimento fino a quando non avranno chiarezza. Questo può richiedere molto tempo con Trump, fino a quattro anni”.

"L'elezione di Harris non significa che la Germania possa stare a guardare", dice l'economista Krämer

(“L’elezione di Harris non significa che la Germania possa stare a guardare”, dice l’economista Krämer Foto: KENT NISHIMURA/Getty Images via AFP)

► Harris: Uno studio della Fondazione Hans Böckler avverte che se continuerà il corso del suo predecessore Joe Biden (81), potrebbe mettere a dura prova anche il mercato del lavoro tedesco. Questo perché gli Stati Uniti stanno attirando industrie ad alta intensità energetica nel paese con sussidi giganteschi.

Lo scenario peggiore: le aziende migrano. Krämer a BILD: “Questa distorsione della concorrenza rimane, non puoi ingannare te stesso”.

Quale futuro per i tuoi soldi?

Nel complesso, gli economisti di Harris si aspettano “deficit più bassi, inflazione e tassi di interesse più bassi”. L’economista Max Krahe del Future Department Institute ha detto a BILD: “Quindi i rendimenti dei risparmi rimarranno come sono ora, ma i mutui non diventeranno più costosi”.

Con Trump, d’altra parte, potrebbero esserci “deficit più alti, più crescita, più inflazione e tassi di interesse più alti”. Quest’ultimo potrebbe estendersi all’Europa, rendendo i mutui più costosi ma allo stesso tempo aumentando il rendimento dei risparmi, secondo Krahe.

Risultato

Il verdetto del capo economista di Commerzbank Krämer: “Harris sarebbe meglio per la Germania di Trump. Ma con lei non c’è il sole”.

Il disinteresse di Donald Trump per l’Africa (internazionale.it)

di

Geopolitica

Pensando al primo mandato di Donald Trump e all’Africa, la prima cosa che torna alla mente è la sua uscita sui “shithole countries”, paesi di merda.

Era l’11 gennaio 2018 e alla Casa Bianca Trump stava parlando di un nuovo pacchetto sull’immigrazione con alcuni senatori. In particolare si discuteva della proposta di garantire protezione a immigrati provenienti da Haiti, El Salvador e vari paesi africani. A quel punto Trump era sbottato: “Perché lasciamo che tutte quelle persone provenienti da paesi di merda vengano qui?”.

Pochi mesi prima Trump aveva ordinato il molto discusso travel ban (divieto di viaggiare, nei fatti un divieto di soggiornare negli Stati Uniti per un lungo periodo) ai cittadini di sette paesi a maggioranza musulmana (tra cui Somalia e Libia), divieto che successivamente era stato esteso a chi veniva da Nigeria, Sudan, Tanzania ed Eritrea. Una volta Trump ha detto anche che i nigeriani, una volta arrivati negli Stati Uniti, “non se ne sarebbero più tornati nelle loro capanne” in Africa.

In quegli anni Trump si è interessato poco al continente – di cui non sembra avere una conoscenza approfondita, almeno a giudicare dalle sue dichiarazioni – e non ha mai compiuto una visita ufficiale in un paese africano. Anche il suo segretario di stato, Mike Pompeo, c’è andato solo due volte, in Senegal e in Etiopia.

Il presidente Joe Biden negli ultimi quattro anni non ha fatto di meglio: ha rimandato a dicembre, a fine mandato, la sua prima visita nel continente e ha scelto di recarsi in un paese, l’Angola, che non è esattamente un esempio democratico (però da lì passa una ferrovia molto strategica per gli Stati Uniti). La sua vice Kamala Harris, candidata sconfitta alle ultime elezioni, invece, c’è stata e ha scelto delle democrazie: Ghana, Tanzania e Zambia.

Reazioni contenute

Dopo la vittoria di Trump i leader di molti paesi africani – tra cui quelli di Sudafrica, Nigeria, Etiopia e Repubblica Democratica del Congo – gli hanno fatto le congratulazioni di rito. Ma il ritorno alla presidenza degli Stati Uniti suscita anche preoccupazioni, come testimoniato dal fatto che la moneta sudafricana, il rand, ha perso il 3 per cento del suo valore subito dopo l’annuncio dei vincitori delle presidenziali statunitensi.

Il timore, scrive il sito sudafricano Daily Maverick, è che con un senato controllato dal Partito repubblicano, si mettano in discussione gli accordi commerciali preferenziali con alcuni paesi africani (per esempio, quelli previsti dal trattato Agoa) o gli aiuti statunitensi al continente, cosa che avrebbe ripercussioni enormi.

L’Africa riceve la maggior parte degli aiuti esteri dagli Stati Uniti, che nell’ultimo anno affermano di aver versato 3,7 miliardi di dollari. Ma dall’America arrivano anche altri tipi di sostegno: il 7 novembre è stato annunciato inoltre che il 6 novembre gli Stati Uniti e la Somalia hanno firmato un accordo che formalizza la cancellazione di 1,14 miliardi di debiti accumulati dal paese africano verso Washington, una mossa che dovrebbe aiutare Mogadiscio a risollevarsi dagli strascichi della guerra civile.

Tornando in Sudafrica, dal punto di vista delle relazioni tra Pretoria e Washington, potrebbero esserci attriti visto che il Sudafrica fa parte dei Brics ed cerca di mantenere buoni rapporti con Russia e Cina.

Allo stesso tempo, è il paese d’origine del miliardario Elon Musk, un importante sostenitore di Trump nella sua ultima campagna, che già in passato aveva promosso teorie complottiste come quelle del genocidio dei bianchi sudafricani (questo articolo di Eve Fairbanks su The Dial spiega bene il rapporto distorto di Musk con il paese in cui è nato).

Ma il rischio più temuto è un braccio di ferro tra Stati Uniti e Cina, che potrebbe avere conseguenze importanti sia in Sudafrica sia nel resto del continente.

Allargando lo sguardo, ci si può chiedere anche come si contrapporrà la nuova amministrazione Trump alla Russia in Africa, che nel suo primo mandato non aveva ancora una presenza visibile nel Sahel e in altri paesi del continente. Offrirà più aiuti militari ai paesi minacciati dalle insurrezioni jihadiste che si sono rivolti al Cremlino, per contrastare l’avanzata russa nel continente? O lascerà fare?

Per il momento è difficile fare previsioni. Come ha detto l’analista liberiano W Gyude Moore alla Bbc, “Trump è sempre poco ortodosso in tutto ciò che fa. Quindi bisogna prepararsi a essere aperti a cose nuove, non necessariamente buone, ma di certo diverse”.

Questo testo è tratto dalla newsletter Africana.

Un altro sciopero (corriere.it)

di Massimo Gramellini
IL CAFFÈ DI GRAMELLINI

Ha ragione de Bortoli: i primi che avrebbero diritto di rivoltarsi, in questo Paese, sono i milioni di cittadini costretti a subire gli effetti dei continui scioperi selvaggi del trasporto pubblico.

La logica dello sciopero è di infliggere un danno economico e di reputazione al datore di lavoro (in questo caso il governo), mentre così si finisce per rafforzarlo. So bene che in un mondo ideale dovrebbe scattare la solidarietà tra utenti e manifestanti, ma nel mondo reale (quello, per intenderci, dove vincono i Trump) ciascuno finisce per mettere davanti i propri interessi.

Puoi anche sentirti spiritualmente vicino al bigliettaio vessato e all’autista sottopagato, ma se poi lo sciopero selvaggio trasforma il tuo tragitto casa-lavoro in un’impresa epica, farai fatica a tifare per chi, pur dicendo in buona fede di voler creare un disagio a Salvini, nei fatti lo sta procurando a te.

Il diritto di sciopero è sacrosanto e intoccabile, però mi si conceda una provocazione: agli scioperanti non converrebbe affiancare forme di protesta più moderne e anche più furbe? Se ieri i mezzi pubblici avessero funzionato regolarmente ma gratuitamente, cioè se i manifestanti avessero aperto i tornelli ed evitato di controllare i biglietti, avrebbero ottenuto il loro scopo — danneggiare la controparte — senza inimicarsi la clientela.

Ci sarebbero stati strascichi legali? Sicuramente, e per qualche tempo, ma la storia insegna che ogni cambiamento comincia con un attrito e finisce con un accordo.

Il grande equivoco delle materie non-Lep (lavoce.info)

di  e 

Quattro regioni hanno chiesto maggiore autonomia 
su materie non-Lep, quelle che secondo la legge 
non dovrebbero ledere l’eguaglianza dei diritti 
civili e sociali. 

Pur nella totale mancanza di trasparenza del processo, alcuni esempi mostrano il contrario.

La trasparenza che manca sulle richieste di autonomia

Il processo di attuazione del terzo comma dell’articolo 116 della Costituzione, innescato dalla legge 86/2024, la cosiddetta “autonomia differenziata”, avanza nell’opacità più assoluta. Persino alcuni ministri della Repubblica appaiono stupiti quando scoprono che materie di loro competenza, ad esempio la protezione civile o il commercio con l’estero, vengono ora richieste da alcune regioni.

Eppure, era ben noto che con l’entrata in vigore il 13 luglio scorso della legge 86/2024, le regioni avrebbero avuto la possibilità di iniziare immediatamente il negoziato con il governo per arrivare a una intesa sulle nove materie non-Lep, quelle cioè per le quali non è prevista la definizione di un livello essenziale delle prestazioni (Lep) che – come vuole la Costituzione – lo stato deve garantire in tutti i territori. Sappiamo, perché lo ha dichiarato lo stesso ministro per gli Affari regionali, Roberto Calderoli, al Consiglio dei ministri, che già il 25 luglio quattro regioni – Lombardia, Veneto, Liguria e Piemonte – hanno presentato richieste di maggior autonomia in queste materie.

Non c’è traccia però dei documenti relativi né sui siti istituzionali delle regioni né tantomeno sul sito del ministero per gli Affari regionali e le autonomie. Solo nel caso del Veneto, e solo perché il presidente ha dovuto riferirne al suo Consiglio regionale il 15 ottobre, qualche riferimento più preciso a un documento con le richieste della regione è stato fatto.

Si viene così a sapere che, per esempio, il Veneto ha chiesto funzioni su tutte le materie non Lep, la Lombardia su otto, Liguria e Piemonte su sei. Continuiamo però a non sapere con esattezza quali funzioni all’interno di quali materie sono state richieste da quali regioni.

In attesa fiduciosa che, per una banale ragione di trasparenza democratica, le regioni o il ministro si decidano a pubblicare i documenti relativi, quello che si sa sul processo di devoluzione in corso è comunque sufficiente a sollecitare qualche riflessione su un aspetto finora poco discusso, ma cruciale nel dibattito sull’autonomia differenziata. Si tratta del rapporto tra materie Lep e non Lep e dall’assoluta indipendenza tra i due gruppi di materie ipotizzata nella legge 86/2024. Proviamo a spiegare perché si tratta di un punto importante.

Lep e non-Lep

L’intera architettura della legge 86/2024 si regge sulla suddivisione delle 23 materie enumerate nel comma 3 dell’articolo 117 della Costituzione (e che coprono quasi tutto lo spettro dell’intervento pubblico) in materie Lep e materie non-Lep. Su queste ultime, con l’entrata in vigore della legge, le regioni possono chiedere subito maggiore autonomia (come hanno fatto appunto le quattro regioni). Sulle altre, invece, la richiesta non può essere avanzata finché i Lep relativi non siano stati definiti e quantificati in termini finanziari.

Dietro la dicotomia c’è l’idea che i Lep devono proteggere i diritti essenziali dei cittadini. Le regioni non possono richiedere funzioni nelle materie Lep finché non si sa quali siano i livelli essenziali delle prestazioni e come debbano essere finanziati, perché altrimenti la devoluzione potrebbe minare l’eguaglianza che deve essere garantita in tutti i territori in tema di diritti civili e sociali. Un rischio che il legislatore ha escluso a priori per le materie non-Lep.

La classificazione tra materie Lep e non-Lep è stata svolta da un Comitato per la determinazione dei livelli essenziali delle prestazioni (Clep), presieduto da Sabino Cassese.

La logica adottata dal Clep per distinguere i due gruppi si fonda sull’idea che vi siano materie per le quali vi è un legame diretto con la tutela di un diritto civile e sociale e quelle per le quali il legame non è immediato. Ipotizzando che la classificazione conseguente sia stata correttamente effettuata, è chiaro che la distinzione regge sul piano concettuale solo se si può introdurre una cesura netta tra i due gruppi di materie, per cui assegnare una funzione a una regione in una materia non-Lep non influenza il godimento dei diritti sociali dei cittadini in una materia Lep.

Altrimenti, la distinzione è spuria e prima di devolvere a una regione una funzione in una materia non-Lep si dovrebbe tener conto dei possibili effetti che la devoluzione ha sulle materie Lep. Come stanno allora le cose? Un paio di esempi aiutano a chiarire la questione.

Due esempi

Una cosa che sappiamo con sicurezza (perché lo ha annunciato lo stesso ministro Roberto Calderoli è che Veneto, Lombardia, Liguria e Piemonte hanno richiesto la materia “protezione civile”, cioè personale, funzioni, materiali, risorse ma anche autonomia nella regolamentazione e negli standard di servizio. Tuttavia, la protezione civile può essere funzionale a garantire materie Lep e se la devoluzione interferisce con questo processo si crea potenzialmente un problema molto serio.

Ad esempio, durante la pandemia da Covid-19, la protezione civile ha svolto un ruolo fondamentale nell’organizzazione dei servizi in funzione anti-pandemica, con in cima alla catena di comando lo stesso presidente del Consiglio dei ministri. Sarebbe stato possibile ottenere lo stesso servizio da un insieme di protezioni civili regionali, ciascuna delle quali risponde a un diverso organo politico, quale la regione? Sarà possibile farlo in futuro, con una nuova (possibile) pandemia?

Il punto importante da sottolineare qui è che, anche se si accetta che la protezione civile sia una materia non-Lep, dunque devolvibile alle regioni, la sua regionalizzazione potrebbe influenzare la capacità di offrire in modo uniforme sul territorio nazionale i servizi relativi alla “tutela della salute”, una materia invece chiaramente Lep. Allo stesso modo, potrebbe influire sulla tutela del territorio, anch’essa una materia Lep.

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Più in generale, se la struttura organizzativa e di incentivi della protezione civile differisce da una regione all’altra, senza che siano introdotti e rispettati standard nazionali, nel caso di una emergenza, alcune regioni potrebbero non essere in grado di garantire l’organizzazione dei soccorsi, con ovvi effetti anche sul piano sanitario o di altre materie coperte dai Lep.

Che non si tratti solo di fisime teoriche, lo dimostra l’alluvione nell’area di Valencia, dove la protezione civile è regionalizzata, e dove si sono verificati ritardi nell’organizzazione dei soccorsi e rimpalli di responsabilità tra il governo centrale e quello regionale.

Il secondo esempio fa riferimento alla materia“Coordinamento della finanza pubblica e del sistema tributario”, definita non-Lep dal Comitato Cassese. Pare certo che in questa materia almeno una regione si prepari a chiedere autonomia legislativa e amministrativa sul tributo speciale in materia di rifiuti, con la facoltà di definire i soggetti passivi, l’importo del tributo, le eventuali detrazioni o deduzioni e così via.

Il diavolo sta nei dettagli ma, di nuovo, pare evidente che decisioni autonome di una regione in questo contesto potrebbero essere in contrasto con la legislazione nazionale o europea sulla materia “Valorizzazione dei beni culturali e ambientali”, cioè la protezione dell’ambiente, che è invece secondo il Clep una materia Lep.

La decisione sugli importi da pagare nel caso in cui si utilizzino discariche o impianti di incenerimento obsoleti, ovviamente, influenza il livello di inquinamento del territorio, su cui il Clep ha invece richiesto che ci siano standard, uniformi a livello nazionale, da rispettare.

I due esempi (se ne potrebbero fare anche molti altri) suggeriscono che la distinzione tra materie Lep e non-Lep, su cui si regge tutto il percorso di devoluzione immaginato dalla legge 86/2024, sia nei fatti molto fragile e non regga alla prova dei fatti. Esistono ovvie complementarità tra materie definite Lep e non-Lep.

Ma se le materie non-Lep influenzano il rispetto dei Lep in altri campi, come si può separare l’attribuzione delle prime dalle seconde? Il rischio del pasticcio istituzionale, del rimpallo di responsabilità e della montagna dei ricorsi alla Corte costituzionale è dietro l’angolo.

Forse conviene ripensarci, finché si è in tempo.