Maccabi Fanatics, una storia di ultraviolenza e odio razzista (ilmanifesto.it)

di Valerio Moggia

Il gruppo che comanda nella curva di Tel Aviv 
Nel 2020 aggredivano i manifestanti che 
contestavano Netanyahu

Il contorno di quanto avvenuto giovedì sera ad Amsterdam ha sorpreso poche delle persone che conoscono la tifoseria del Maccabi Tel Aviv.

Lo stesso comportamento messo in mostra nella capitale olandese si era visto lo scorso 7 marzo ad Atene, quando il club israeliano era andato in trasferta in casa dell’Olympiakos. Nelle ore precedenti alla partita, gli ultras del Maccabi avevano aggredito in gruppo una persona di origini egiziane (o irachene, secondo altre fonti) a Piazza Syntagma. La sua unica colpa sarebbe stata quella di indossare una kefiah.

IN ISRAELE i Maccabi Fanatics – questo il nome del gruppo ultras – sono conosciuti per la loro predisposizione alla violenza e l’ideologia di estrema destra, che li avvicinano alla ben più famosa Familia del Beitar Gerusalemme. In origine, la squadra di Tel Aviv era espressione, come tutti i club denominati Maccabi, del movimento sionista conservatore.

Ma a partire degli anni Novanta, con la trasformazione delle società sportive da club di soci a soggetti privati, la sua identità politica si è molto diluita. Nonostante questo, il Maccabi è rimasta una delle squadre di calcio più amate in Israele (la seconda più tifata dopo il Maccabi Haifa), legata in particolar modo alla classe media di Tel Aviv. È all’interno di questa ampia comunità di sostenitori che si sono formati i Maccabi Fanatics.

Politicamente di estrema destra, già nel 2014 avevano fatto discutere in patria per gli insulti razzisti contro un giocatore arabo-israeliano della loro squadra, Maharan Radi. In giro per Tel Aviv, nelle zone presidiate dai Fanatics, erano apparsi graffiti che recitavano «Non vogliamo arabi al Maccabi» e «Radi è morto».

Alcuni compagni di squadra dell’allora 32enne centrocampista originario di Sulam, un villaggio arabo 16 km a nord del confine settentrionale della Cisgiordania, provarono a discutere con gli ultras per organizzare un incontro pacificatore. Radi ha raccontato che il suo capitano Sheran Yeini tornò da lui qualche giorno dopo dicendogli che non c’era niente da fare: «Semplicemente odiano gli arabi».

SE GIOVEDÌ sera ad Amsterdam hanno fischiato il minuto di silenzio per le vittime dell’alluvione di Valencia (a causa del sostegno spagnolo alla Palestina), nel settembre 2015 espressero il proprio disappunto a un’iniziativa della Uefa per una donazione in favore dei rifugiati siriani.

L’associazione del calcio europeo aveva deciso che i club partecipanti alla Champions League, tra cui appunto il Maccabi, avrebbero versato alle vittime della guerra un euro per ogni biglietto venduto nella loro prima partita nella competizione. I Fanatics risposero esponendo uno striscione con la scritta «Refugees Not Welcome».

Per completare questo quadro tutt’altro che positivo, nell’estate del 2020 sono stati protagonisti, assieme agli ultras del Beitar, delle contromanifestazioni in favore di Netanyahu e delle aggressioni ai cortei che contestavano il governo.

Si sospetta che potrebbero esserci loro, e non la Familia, dietro al rogo appiccato nel marzo 2023 al centro sportivo dell’Hapoel Tel Aviv, rivale cittadino del Maccabi con una tifoseria di estrema sinistra. Il politico israeliano Ofer Cassif, rappresentante del partito di sinistra Hadash alla Knesset, ha descritto quanto avvenuto in Olanda con queste parole: «Lo spirito del fascismo israeliano è arrivato ad Amsterdam».

È una curiosa coincidenza che le violenze di giovedì siano avvenute durante una gara contro l’Ajax, generalmente considerato il club ebraico di Amsterdam. In realtà, come spiegato da David Winner nel suo Brilliant Orange, questo è più che altro un mito, dovuto soprattutto al fatto che in origine il tram che conduceva allo stadio attraversava il quartiere ebraico.

Spesso insultati in quanto ebrei dalle tifoserie avversarie antisemite (quella del Feyenoord in particolare), i fan dell’Ajax abbracciarono questa identità ebraica a prescindere dalle proprie origini.

QUELLI di giovedì non sono stati quindi scontri tra tifosi, dato che non risulta che i supporter dell’Ajax vi abbiano preso parte. Anzi, nei giorni precedenti gli ultras F-Side avevano detto che non avrebbero tollerato manifestazioni pro-Palestina nel loro stadio.

Maccabi Fanatics, una storia di ultraviolenza e odio razzista (I tifosi del Maccabi e dell’Ajax prima del match – Epa/Jeroen Jumelet)

Il sacrificio annunciato di Kyjiv continuerà a perseguitare l’Europa (linkiesta.it)

di

Le conseguenze del trumpismo

Come dice l’ex consigliere di Putin, il capo della Casa Bianca e quello del Cremlino si intendono «come capi di clan mafiosi rivali».

Ma la seconda vittima della vittoria di Trump, dopo l’Ucraina, rischia di essere proprio l’Europa, scrive Francesco Cundari nella newsletter “La Linea”. Arriva tutte le mattine dal lunedì al venerdì più o meno alle sette

A nemmeno due giorni dall’elezione di Donald Trump alla Casa Bianca – ma chi l’avrebbe mai detto – la notizia sulle prime pagine di tutti i giornali è la riapertura del dialogo con Vladimir Putin, ovviamente sulla pelle degli ucraini. Sulle ragioni profonde della loro intesa, per una volta, mi pare si possa dare credito alla versione russa, e in particolare a Sergej Markov, direttore dell’Istituto di Ricerche Politiche di Mosca ed ex consigliere di Putin, che a Repubblica la spiega così: «Da uomini forti, Trump e Putin si rispettano.

Si rispettano come i condottieri di eserciti in guerra o come capi di clan mafiosi rivali». Personalmente, propenderei più per il secondo paragone, ma non esagererei con la rivalità. Al massimo, un po’ di invidia (da parte di Trump, ovviamente).

Sempre su Repubblica, giusto nella pagina accanto, Timothy Garton Ash scrive: «La prima vittima del secondo mandato di Donald Trump come presidente degli Stati Uniti sarà probabilmente l’Ucraina. Gli unici che possono evitare questo disastro siamo noi europei». Il guaio è che la seconda vittima della vittoria di Trump rischia di essere proprio l’Europa.

Emmanuel Macron ha reagito al risultato americano affermando che avrebbe lavorato con il cancelliere Olaf Scholz per un’Europa «più unita, più forte, più sovrana». Ma come ricorda Garton Ash la Francia ha ormai un governo debole e instabile, che «di fatto dipende per la sua sopravvivenza politica dalla populista Marine Le Pen, amica di Putin», mentre il governo Scholz è entrato in crisi poche ore dopo l’elezione di Trump, lasciando «il potere centrale europeo in un limbo pre e post elettorale (lungo potenzialmente mesi)».

Data la gravità della situazione, forse possiamo permetterci almeno il lusso della verità. Se nel 2014, davanti alla prima aggressione russa dell’Ucraina, la reazione degli Stati Uniti di Barack Obama e dell’Unione europea fosse stata più adeguata e consapevole, probabilmente non saremmo arrivati a questo punto.

Dove potremo scivolare se Trump darà seguito alle idee fatte circolare negli ultimi tempi – lasciare alla Russia i territori conquistati e garantirgli persino la “neutralità” dell’Ucraina, cioè la sua impossibilità di difendersi da nuove aggressioni – è davvero difficile prevederlo. Ma è facilissimo pronosticare che non sarà un futuro di pace e prosperità, né per gli ucraini, né per noi europei.

Simenon, la vertigine dell’infanzia (ilmanifesto.it)

di Gennaro Serio

Novecento francese 

Simenon, la vertigine dell’infanzia

La morte di uno zio è uno dei fattacci che turbano i ricordi del dottor Malempin, protagonista del romanzo scritto in Alsazia nel 1939

Nella sua vastità, può darsi che Georges Simenon offra anche una via di uscita dalla incontrollata proliferazione del racconto familiare cui si assiste nella narrativa di oggi, tra ripiegamento narcisistico e impossibilità più o meno celata di ritagliare una autonomia per il proprio sé rispetto agli amati (o odiati) genitori.

La soluzione proposta da Simenon a questo fenomeno contemporaneo sarebbe all’incirca la seguente: non raccontate della vostra famiglia, salvo che tra i suoi ranghi non vi sia almeno un morto ammazzato per mano di uno degli altri parenti.

La morte di uno zio è uno dei fattacci, e certo non il solo, che intervengono a turbare i ricordi d’infanzia di Malempin, protagonista eponimo dell’ultimo titolo dello scrittore belga riproposto da Adelphi nella «Biblioteca» (traduzione di Francesco Tatò, pp. 142, € 18,00) dopo essere già apparso nella lussuosa collana «La Nave Argo» (Pedigree e altri romanzi) e nel 1960 da Mondadori con il titolo Ricordi proibiti.

Nella voce del narratore in prima persona c’è un’impellenza febbrile, allucinata, che egli non sa spiegarsi e che fa scorrere il testo, quasi un racconto lungo, a velocità palpitante, incardinato a un monologo interiore che diventa narrazione e contiene al suo interno tutte le scene e i dialoghi del suo «romanzo di famiglia».

L’insolito impianto «statico» rende Malempin – la cui prima edizione Gallimard è del 1940 – un titolo eccentrico e prezioso, che chiude idealmente la ricca e felice produzione del Simenon anni trenta: il dottor Édouard Malempin siede accanto al figlio, un bambino fragile e malato, che sembra mostrare i segni di una difterite potenzialmente letale. Chiuso nella camera buia, nell’aria stantia di casa sua, il dottore sprofonda nelle reminiscenze, e riattraversa i momenti salienti della sua infanzia.

Il campionario sarebbe quello tradizionale: la «lingua Malempin», fatta di soprannomi misteriosi, allusioni impenetrabili; le zie acide, il padre anaffettivo, i non detti, i problemi di debiti, i tradimenti, i desideri incestuosi. Solo che poi arriva il fattaccio: uno zio morto (questioni di eredità?). E il povero Édouard è costretto a vivere sulla propria pelle l’antico adagio secondo il quale i bambini «sanno», e gli adulti si comportano ingenuamente come se non se ne accorgessero.

«Sono avviluppato dalle radici che sto dipanando e che vedo spingersi sempre più lontano, sempre più aggrovigliate», dice Malempin: i fatti gli sono ben chiari, ma non è quello che gli serve a impedirgli di comportarsi come un fantasma che vive senza coscienza, sospeso, lontano da tutto quel che gli accade intorno, inclusi moglie e figli («Gli unici anni di vita reale sono gli anni dell’infanzia», sentenzia).

Una strana malattia dell’anima che il dottore non riesce a diagnosticare a se stesso, nonostante la puntuale anamnesi – raccolta per iscritto in un quaderno –, e che mostra i primi sintomi quando, ormai già in cammino verso il distacco psichico da tutto quel dolore, quella confusione, e quella mancanza di empatia che aleggia sopra la sua testa, Édouard si aggira nei campi attorno alla fattoria in cui è cresciuto, e trova un ammasso di cenci che potrebbe essere il cadavere di suo zio: sul momento si agita, corre lontano, ma poi tornerà a giocare proprio lì attorno, via via più indifferente.

Il suo congelamento emotivo inquieta, via via più profondamente, il lettore, che se conosce il suo cliente, sa già che non può aspettarsi un lieto scioglimento: Malempin è condannato (a un segreto esilio da se stesso, e dal mondo).

Per i dettagli d’ambiente e dei volti, e per la descrizione di scene appena accennate, Simenon esercita qui il suo magistero con una misura specifica, una leggerezza del tocco che rende tutto ancora, agli occhi del narratore e quindi del lettore, velato – in quel modo in cui solo i ricordi di infanzia sono velati –, eppure terribilmente eloquente.

«Sono trent’anni che cammino in punta di piedi – ammette Malempin –, (…) perché ho capito che tutto è fragile». Quello che aveva la parvenza del romanzo familiare dunque altro non è che una nuova variazione sul tema dell’homme nu, «l’uomo nudo», osservato cioè sotto una lente che lo spoglia dei paramenti sociali e psicologici: ossessione alla quale Simenon non smise di dedicarsi per tutta la sua vita di scrittore.

The Cure. Guarda i due concerti per la BBC per il lancio di “Songs Of A Lost World” (sentireascoltare.com)

di

Due set molto diversi che riflettono l'anima pop 
e quella più “dark” della band

In occasione del lancio mondiale di Songs Of A Lost World, i Cure hanno suonato due concerti per la BBC, registrati il 30 ottobre, trasmessi il giorno successivo ed entrambi diffusi integralmente su Youtube. In una modalità che ricorda molto da vicino i live storici Show e Paris, si tratta di due set molto diversi, che riflettono le due diverse anime della band, quella pop e quella più “dark”.

Il concerto registrato per la BBC Radio 2 è a colori e offre una carrellata di greatest hits, dalle immancabili Just Like Heaven e In Between Days, passando per The Walk e Lovesong fino a Pictures Of You e High; in apertura e chiusura scaletta, come su disco, i due monoliti Alone e Endsong, oltre al singolo A Fragile Thing.

Altre canzoni del nuovo album (I Can Never Say GoodbyeAll I Ever AmAnd Nothing Is Forever) sono presenti nel secondo concerto per BBC 6 Music, filmato rigorosamente in bianco e nero e significativamente incentrato su Disintegration, di cui vengono suonati ben quattro brani (PlainsongLast DancePrayers For Rain e Disintegration), oltre a pietre miliari come A Forest e At Night e chicche come Burn (dalla soundtrack de Il Corvo originale, 1994).

Accanto a Robert Smith, la formazione attuale dei Cure prevede Simon Gallup (basso), Roger O’Donnell (tastiere), Jason Cooper (batteria), Reeves Gabrels (chitarra; subentrato a Porl/Pearl Thompson e già alla corte di David Bowie per tutti gli anni ‘90), Perry Bamonte (chitarra, tastiere); com’è da aspettarsi, esecuzioni ineccepibili, emozionanti e sentite per una band in grandissima forma e con un sound immortale.

In aggiunta a questi due concerti, questa sera i Cure suoneranno in diretta su Youtube dal Troxy di Londra Songs Of A Lost World nella sua interezza. Su SA l’approfondimento sull’album è di Tommaso Iannini.

Tracklist
  • 1Alone
  • 2And Nothing Is Forever
  • 3A Fragile Thing
  • 4Warsong
  • 5Drone:NoDrone
  • 6I Can Never Say Goodbye
  • 7All I Ever Am
  • 8Endsong

Se il cattivo esempio fa vincere (corriere.it)

di Beppe Severgnini
Oggi siamo arrivati alla kakistocrazia, il 
governo dei peggiori, orgogliosi di esserlo. 
O, se non altro, felici di sembrarlo

La vittoria di Donald Trump è netta e istruttiva. Ma sostenere che rappresenti un passo avanti per la democrazia sembra azzardato. Il profumo dei vincitori è irresistibile, per tanti italiani.

L’ansia di applaudire non aiuta a capire cosa sta accadendo: l’importanza dell’affidabilità e della coerenza, per un leader politico, è passata in secondo piano. Quello che dice conta più di ciò che fa. Mostrarsi virtuoso rischia addirittura d’essere controproducente: potrebbe allontanare gli elettori, che si sentirebbero sminuiti.

I giornali americani hanno elencato puntigliosamente le falsità con cui il presidente-rieletto ha farcito discorsi e comizi. La bufala degli immigrati haitiani che mangiano gli animali domestici era la più grottesca, non certo la più grave. Non ha fatto alcuna differenza, anzi: sembra aver favorito il candidato repubblicano.

Il suo vice J.D. Vance ha spiegato al New York Times, con calma olimpica, che forzare la verità è talvolta necessario per superare l’ostilità dei grandi media. Colpevoli, evidentemente, di verificare le notizie.

«Non sono migliore di voi. Sono peggiore. Perciò votatemi!» sembra la nuova formula magica della democrazia americana. E dall’America, si sa, noi importiamo molte cose. Sfogare gli istinti e sfoggiare i difetti è diventato un modo per rassicurare quegli elettori — e sono tanti — che detestano le critiche. Chi regala approvazione incondizionata è popolare; chi avanza proposte è noioso; chi solleva obiezioni, insopportabile.

Non occorre essere uno storico per saperlo, basta qualche ricordo scolastico: il popolo, nella Grecia di Platone e Demostene o nella Roma repubblicana, chiedeva leader ammirevoli. Questa pretesa — questa illusione? — è durata per secoli, in luoghi e contesti diversissimi. Il popolo, dai suoi leader, voleva onestà, sincerità, sobrietà. Raramente la otteneva, ma almeno la chiedeva.
Neppure i dittatori sfuggivano alla regola. 

Benito Mussolini non ostentava i suoi eccessi: fingeva di essere sobrio e virtuoso, gli italiani fingevano di crederci. Solo autocrati e tiranni, oggi, continuano la farsa. Il nordcoreano Kim Jong-un, qualche settimana fa, è andato su tutte le furie quando su Pyongyang sono piovuti volantini che mostravano i lussi suoi e della famiglia a una nazione poverissima. Donald Trump li avrebbe utilizzati come manifesti elettorali: guardate quanto sono sfacciato, applauditemi! E non c’è dubbio, i suoi elettori avrebbe applaudito.

Aristocrazia significa, com’è noto, governo dei migliori. Oggi siamo alla kakistocrazia, il governo dei peggiori, orgogliosi di esserlo; o, almeno, felici di sembrarlo. Il copyright di questo discutibile stilnovo appartiene a Boris Johnson e allo stesso Trump: entrambi, nel 2016, hanno vinto sventolando con orgoglio i propri capricci e le proprie debolezze. Le critiche degli avversari? Ignorate, irrise. Finché i due non hanno dovuto governare. Allora inglesi e americani hanno capito, ma era tardi.

Nell’introduzione di Narrare l’Italia, Luigi Zoja, uno psicoanalista che conosce l’antropologia e la storia, ha scritto: «La crescita dei figli non è guidata dalle regole che i genitori impartiscono, ma dagli esempi che offrono. Anche i governanti — padri e madri del popolo — potranno predicare quelle che considerano necessarie virtù nazionali, ma le diffonderanno solo se saranno i primi a praticarle».

L’autore dovrà ammettere che c’è una novità. I leader vincenti hanno smesso di «predicare le necessarie virtù della nazione», preferiscono applaudirne i difetti. Si fa meno fatica, e rende di più.

Le parole «Dài il buon esempio!» sono la colonna sonora di molte, lontane infanzie italiane. E ciò che si chiedeva a un primogenito o a un capoclasse si pretendeva da un primo cittadino o dal capo del governo. Se tradivano la fiducia — e accadeva con una certa frequenza — ci rimettevano il posto e la reputazione. Oggi essere etichettato come «un buon esempio» non è solo anacronistico: è rischioso.

Chi crede di essere questo/questa? Come si permette di indicarci una strada, di suggerirci un comportamento? Sappiamo sbagliare da soli, grazie.

Un cattivo esempio è rassicurante, per molti elettori: vale un’assoluzione preventiva. Se è la nuova strada scelta dalla democrazia, prepariamoci al peggio. Diventerà impossibile liberarsi di un leader scelto in questo modo e per questi motivi.

Cosa volete da me?, risponderà dopo aver deluso e fallito. Vi avevo detto chi ero, e mi avete votato con entusiasmo. Ora zitti e buoni: non lamentatevi.