Attenti alle parole: a Gaza crimini gravi, non un genocidio (corriere.it)

di Liliana Segre

LA RIFLESSIONE

Le parole, a volte, diventano clave.

Negli ultimi mesi ho fatto appelli per il cessate il fuoco, ho condannato le violenze, ho espresso la più profonda partecipazione al dramma delle vittime innocenti palestinesi e israeliane, ho invocato un rispetto sacrale verso i bambini di ogni nazionalità, di ogni credo, di ogni religione, ho manifestato ripulsa verso lo spirito di vendetta.

Eppure, o ti adegui e ti unisci alla campagna che tende ad imporre l’uso del termine «genocidio» per descrivere l’operato di Israele nella guerra in corso nella Striscia di Gaza, o finisci subito nel mirino come «agente sionista».

Le cose in realtà sono più complesse e colpisce che alcuni tra i più infervorati nell’uso contundente della parola malata si trovino in ambienti solitamente dediti alla cura, talora maniacale, del politicamente corretto, del linguaggio sorvegliato che si fa carico di tutte le suscettibilità fin nelle nicchie più minute.

Nella drammatica situazione di Gaza non ricorre nessuno dei due caratteri tipici dei principali genocidi generalmente riconosciuti come tali — il Medz Yeghern degli armeni, l’Holodomor dei kulaki ucraini, la Shoah degli ebrei, il Porrajmos dei rom e sinti, la strage della borghesia cambogiana, lo sterminio dei tutsi in Ruanda — mentre sono piuttosto evidenti crimini di guerra e crimini contro l’umanità, commessi sia da Hamas e dalla Jihad, sia dall’esercito israeliano.

I caratteri tipici dei genocidi sono essenzialmente due, uno è la pianificazione della eliminazione, almeno nelle intenzioni completa, dell’etnia o del gruppo sociale oggetto della campagna genocidaria, l’altro è l’assenza di un rapporto funzionale con una guerra.

Anche i genocidi commessi durante le due guerre mondiali (armeni, ebrei, rom e sinti) non ebbero la guerra né come causa né come scopo, anzi furono eseguiti sottraendo uomini e mezzi allo sforzo bellico.

D’altronde, anche di fronte ad operazioni militari volte intenzionalmente a produrre vittime civili e che hanno causato morti innocenti nell’ordine di decine di migliaia (Dresda) o centinaia di migliaia in pochi giorni (Hiroshima e Nagasaki) o addirittura un milione (assedio di Leningrado), non si è mai parlato di genocidi.

L’abuso della parola genocidio dovrebbe essere evitato con estrema cura per più di una ragione.

In primo luogo, solo coprendosi occhi e orecchie si può evitare di percepire il compiacimento, la libidine con cui troppi sembrano cogliere un’opportunità per sbattere in faccia agli ebrei l’accusa di fare ad altri quello che è stato fatto a loro.

Un complesso di colpa collettivo prodotto dalla storia si scioglie in un rabbioso sfregio liberatorio verso lo Stato ebraico di Israele, non solo equiparandolo ai nazisti ma rinfocolando tutti i più vieti stereotipi sugli ebrei vendicativi, suprematisti, assetati del sangue dei bambini non ebrei. L’impennata delle manifestazioni di antisemitismo nel mondo, a livelli mai visti da decenni, dimostra l’effetto devastante delle tossine che sono tornate in circolo.

In secondo luogo, l’accusa strumentale del genocidio proietta sull’intero Stato di Israele e su tutto il popolo israeliano — non solo sul pessimo governo in carica — l’immagine del male assoluto. Una demonizzazione ingiusta, ma anche controproducente per le prospettive di pace e convivenza.

Ogni riduzione dell’altro a mostro, ogni cancellazione manichea delle sue ragioni — vale per i sostenitori acritici dei palestinesi, ma vale specularmente anche per i sostenitori acritici del governo israeliano — serve solo a perpetuare la guerra, a rinsaldare la trappola dell’odio e ad allontanare il giorno in cui potrà, dovrà sorgere uno Stato di Palestina accanto allo Stato di Israele.

In terzo luogo, la cultura antifascista e antitotalitaria ha avvertito da sempre le implicazioni velenose delle operazioni di negazionismo, riduzionismo, relativizzazione, distorsione o banalizzazione dei genocidi. Di lì passano inesorabilmente le rivalutazioni delle peggiori dittature e le campagne nostalgiche. Da lì parte il sistematico abbassamento degli anticorpi che sorreggono la coscienza democratica dei cittadini.

Inquieta che anche alcuni di coloro che meritoriamente si dedicano alla tutela e alla trasmissione della Memoria sembrino non capire che lasciar passare oggi l’abuso del termine genocidio significa produrre una crepa in un argine. E se crolla quell’argine, domani, potrà passare ben altro.

L’influencer Zerocalcare, e la fine del ruolo degli intellettuali (linkiesta.it)

di

L’avvelenata

Più libri più fatture

Il fumettista romano rinuncia ai dibattiti alla fiera editoriale guidata da Chiara Valerio a causa dell’invito a un autore accusato di violenza domestica, ma non rinuncia ai firmacopie. Del resto, come si dice nel film “Conclave”, si serve l’ideale ma non si può sempre essere ideali

«Serviamo un ideale: non possiamo sempre essere ideali». Lo dice non so più che cardinale a un certo punto di “Conclave”, il film che esce tra un paio di settimane e che per un bel po’ temo vi toccherà vedere utilizzato come allegoria del potere politico negli articoli di chiunque.

Il cardinale ha appena esortato due suoi compari a non andare alla ricerca del Papa ideale da eleggere, ricordando che tra i predecessori ci sono stati quelli che erano nella gioventù hitleriana, quelli accusati di colludere coi comunisti e i fascisti, quelli che hanno occultato informazioni su scandali pedofili.

È impossibile, a quel punto, non venire illuminati dalla consapevolezza della differenza tra la tenuta su strada di Santa Romana Chiesa e quella della famiglia queer: non ci sono mai stati pontefici preoccupati di quel fragile feticcio che è la reputazione on line, e non è un vantaggio da poco.

Certo, aiuta pensarsi in prospettiva di secoli e non di cuoricini, impostazione che oggi non mi pare riesca ad avere nessuno. Tra cinquant’anni io sarò morta, ma i viventi si ricorderanno di Giulia Cecchettin? Immagino di no, non c’è niente che la faccia spiccare rispetto alle altre sfortunate che avevano avuto una relazione con uno psicopatico. Però il giornalismo di quest’anno ha deciso di fare di Giulia Cecchettin un simbolo: credo che abbia avuto, nel 2024, più titoli di quanti il giornalismo del 2001 riservò alle Torri gemelle.

Persino quando il padre dice «Sono cosciente del fatto che il diritto alla difesa è una cosa sacra. Però io sono il papà… Il mio punto di vista […] è diverso da tutti gli altri in questo mondo», Repubblica non ne desume che neppure nel paese che ha inventato la pasta al dente, l’estate, e i parenti delle vittime, neppure qui si dovrebbero dare pagine al padre della morta indignato con l’avvocato dell’assassino che osa difenderlo. Ve l’ha detto persino lui, che non ha senso pretendere che il suo parere sia sensato.

E invece a Giulia Cecchettin hanno dedicato questa benedetta fiera dell’editoria indipendente di cui non importa niente a nessuno ma della quale ci tocca parlare da giorni a causa della prevista presentazione d’un libro scritto da un non puro ora epurato, e delle dissociazioni d’un po’ tutti, per quella forma specialissima di mitomania dell’intellettuale romano che, se c’è polemica, teme di perdere un treno e quindi si affretta a fare il suo bravo comunicato contrito sul suo andare o sul suo non andare.

Al cui proposito (di intellettuali romani), devo ammettere una cosa per la quale mi prenderò insulti dagli amici suoi e dagli amici miei, ma a me Zerocalcare fa simpatia. Mi fa simpatia per ciò che i detrattori catalogano come paraculaggine, giacché io non ho ambizioni da padre spirituale e non me ne importa nulla delle ragioni per cui le persone fanno le cose.

Quali che siano le sue ragioni, le ragioni del suo seriale dissociarsi – dalla fiera di Torino perché c’erano i fascisti, da quella di Lucca perché c’erano gli israeliani, da questa perché c’è uno sotto processo per aver menato la moglie: neanche il vescovo nigeriano che in “Conclave” dice di sentire lo Spirito Santo che lo chiama a fare il Papa prende sul serio il suo ruolo quanto Zerocalcare – quali che siano, Zerocalcare le esprime sempre in un modo dubitativo.

Che sarà una posa (o come direste in analfabetese: postura), sarà un vezzo, sarà una benedettissima ipocrisia, ma è comunque un bel vedere: uno che non è pieno di illuministiche certezze ma anzi ripete spesso che lui mica lo sa, se sta facendo la cosa giusta.

Certo, ha pensieri più vicini a quelli brevi della famiglia queer che a quelli lunghi del Concilio Vaticano. Tempo fa mi hanno raccontato una cosa che non so neppure se sia vera, probabilmente no essendo la fonte non delle più attendibili. Mi hanno raccontato che gli avevano truffato dei soldi, come a chiunque appartenga al mondo dello spettacolo in questo derelitto paese fondato – oltre che sulla cottura al dente e sui parenti delle vittime – sulla vocazione artistica incompatibile col saper fare i conti.

Ma il dettaglio interessante, il dettaglio che se questa storia fosse vera lo distinguerebbe dalle Mara Venier e dai Diego Abatantuono e da un po’ chiunque altro, il dettaglio sarebbe stato che lui non voleva denunciare, perché poi chissà cos’avrebbe detto l’internet.

Puoi fare la storia della chiesa ma anche solo della letteratura ma anche solo della Costa Smeralda se ti preoccupi di cosa dice l’internet? No. Però puoi fare l’influencer (che è più conveniente che fare Van Gogh o Tomasi di Lampedusa e morire povero con la beffa che nei secoli successivi tutti ti daranno del genio).

Quindi Zerocalcare, che quattr’anni fa L’espresso mise in copertina come “L’ultimo intellettuale”, annuncia che lui a “Più libri più liberi” non ci va, «Ho deciso di annullare l’incontro previsto sull’editoria con la stessa Chiara Valerio (oggettivamente impossibile da tenere […] perché mi pare impossibile glissare su questo tema e parlare d’editoria come se niente fosse)».

Trenta e qualcosa anni fa, andai a una festa dell’Unità a Bologna per sentire, annunciava la locandina, Stefano Bonaga che parlava di Woody Allen e Soon Yi. Appena Siusy Blady gli diede la parola, Bonaga le disse che non aveva alcuna intenzione di parlare delle corna di Mia Farrow, non ne sapeva niente, non gliene importava niente, aveva accettato l’invito solo per avere la scusa di parlare dei problemi dell’Atc (l’azienda di autobus locale).

Può farlo un oscuro professore di provincia e non può farlo Zerocalcare, ultimo intellettuale? Non può salire sul palco e dire a Chiara Valerio «chi se la incula l’editoria, adesso parliamo di quale delirio d’onnipotenza t’ha spinta a invitare uno sotto processo per aver menato la moglie pensando che non ne nascesse un casino nella tua conventicola di giusti e puri»?

Non può perché, dice lui, «mi pare grottesco pensare che un maschio tenga un incontro in cui spiega a una donna come avrebbe dovuto comportarsi in termini di femminismo». A parte che non so bene cosa c’entri il femminismo: gli uomini che menano le donne attengono al codice penale, mica al femminismo; e questa polemica attiene alla comunicazione, alla psichiatria, alle dinamiche di potere, a tutto tranne che al femminismo.

Ma, a parte questo: a cosa servono gli intellettuali se non a parlare di cose di cui è fastidioso parlare? Se per te il dibattito pubblico è mettersi cuoricini tra amici e dire «fascista» ai non amici, non sei l’ultimo intellettuale: sei l’ultima influencer.

C’è però un rigo ancora più illuminante, nella lunga lettera di Zerocalcare ai Corinzi, ed è il rigo che ieri ha indotto Repubblica a fare il giusto titolo “Più libri più liberi, Zerocalcare ci sarà”. Dice in due righe finali, buttate lì in levare e che hanno per soggetto il suo editore, che i dibattiti sono annullati ma «rimarrà attivo lo stand e i firmacopie degli autori – me compreso».

Traduco per chi non avesse consuetudine col linguaggio editoriale. I firmacopie sono quelle file in cui vi mettete per farvi fare l’autografo dall’autore, la foto con l’autore, nel caso dei fumetti anche il disegnino dell’autore. Sono tutto ciò che permette di fatturare coi libri in un’epoca in cui di leggere non gliene frega più niente a nessuno, ma siete tutti disposti a sobbarcarvi un prezzo (quello di copertina) e una fila (quella del firmacopie) per dire «Ho la foto con tizio».

Quel che c’è scritto in quelle due righe è: a dibattere non ci vado, però vado a vendere libri a gente che mai se li comprerebbe per il libro in sé ma se li compra se ci sono io a scarabocchiarglieli. Che va benissimo, non sono certo moralista come l’arcivescovo dell’Afghanistan che chiede indignato al decano «Vuoi che voti per un uomo ambizioso?», né tenera come il Marcantonio che negava l’ambizione di Giulio Cesare. L’ambizione di far fatturare la casa editrice è lodevole, come lo sono in generale le ambizioni.

Dico solo che, se il dibattito in quella fiera no «in segno di discontinuità», ma vendere in quella stessa fiera sì, sei l’ultimo influencer. Una Chiara Ferragni che ha i fumetti al posto degli ombretti. Sia detto con simpatia per entrambe le figure: quella della influencer non più in auge, e quella dell’ultimo influencer che invece ancora sì.

Dico solo che, alla fine di “Conclave”, ci ritroviamo con un Papa che deve fare l’isterectomia. Dopo miss Italia nera il Papa nero, dopo la pugile coi testicoli il Papa con l’utero. Dico solo che, mentre tutti sghignazzano sulla fine della famiglia queer i cui componenti sono intenti a divorarsi tra di loro, io non sono venuta qui a seppellirla – non foss’altro perché mi sembra prematuro.