Morto il «boia per caso» che spinse il pulsante per impiccare Eichmann «Non volevo farlo» (corriere.it)

di Francesco Battistini

Nagar, 86 anni, fece da guardia all’architetto 
della Shoah

Gli chiedevano: come vi capivate? «Con le mani. Linguaggio del corpo. Io non sapevo il tedesco. Allora facevamo così…». Gesticolava nell’aria: «Non avevamo altro modo. Alla fine, lui capiva me e io capivo lui». E come mai toccò proprio a te? «Perché non avevo sete di vendetta. Eichmann, io non sapevo nemmeno chi fosse…».

Shalom Nagar, l’uomo che nel 1962 eseguì la condanna a morte di Adolf Eichmann, è morto in Israele all’età di 86 anni. Giovane guardia carceraria, Nagar ebbe la vita sconvolta quando fu estratto a sorte come boia e dovette premere il pulsante per impiccare l’ideatore della «soluzione finale» di milioni d’ebrei. Il criminale nazista era stato catturato dal Mossad in Argentina, dove viveva sotto falso nome. A

l termine del processo di Gerusalemme, raccontato da Hannah Arendt ne La banalità del male, il procuratore generale Gideon Hausner aveva chiesto ai giudici il massimo della pena: «Quando mi trovo davanti a voi, non sono solo: con me ci sono sei milioni di accusatori».

La condanna a morte di Eichmann fu eseguita nel carcere di Ramla e le sue ceneri furono disperse in mare. Fu l’unica volta in cui una corte israeliana inflisse la pena capitale. Per mezzo secolo, Nagar fu obbligato al silenzio, «non l’ho mai rivelato nemmeno a mia moglie».

Finché il governo israeliano non tolse il segreto, e lui finalmente poté raccontare: «Un giorno il comandante venne da me e mi chiese: “Shalom, ti va di schiacciare il bottone?”. Credeva di farmi un grande onore. In fondo, nelle Scritture è questo il più grande dei comandamenti: “Cancella la memoria di Amalek”, di chi vuole sterminare gli ebrei… Però io dissi che non volevo. C’era qualcuno che se la sentiva. Io invece ero l’unico secondino che diceva di non volerlo schiacciare, quel bottone. Tirarono a sorte. E il comandante mi disse: “È un ordine. La sorte ha detto che tocca a te. Lo farai tu”…».

Prima dell’esecuzione, per sei mesi, Shalom aveva fatto la guardia al general manager dei lager nazisti. «A sorvegliarlo eravamo in ventidue — spiegava —. Io stavo nella sua cella, assaggiavo i cibi. La paura era che l’avvelenassero. Lui era il male, ma si sa com’erano quei tedeschi: si mostravano così puri, nelle loro azioni quotidiane… Eichmann leggeva tanto, mi diceva sempre gracias in spagnolo. Una volta gli capitò fra le mani Lolita di Nabokov, lo trovò disgustoso e me lo restituì scandalizzato. L’accompagnavo al bagno e lui stava attento a non farmi sentire la puzza, a lavarsi le mani. Gentilissimo. Non avessi saputo, l’avrei preso per un santo!».

Il giorno dell’esecuzione, Shalom lo rivisse tutta la vita: «Non avevo mai visto un uomo impiccato. Avevo 26 anni, che ne sapevo? Ero davanti a lui. Vidi la sua faccia bianca, gli occhi fuori. Grandi, fissi. Come se mi guardasse. Chiesi d’allontanarmi, ma il comandante mi disse di no: “Non è un gioco, tiralo su e levagli il cappio!”. Io tremavo. Quando lo portammo alla fornace che sta verso Tel Aviv, per bruciarlo e spargere le ceneri in mare, mi sentivo male. Mi fecero accompagnare a casa. Mia moglie mi vide, ero tutto sporco di sangue. “Ma dove sei stato?”, mi chiese. Le risposi: “Lo sentirai fra qualche ora al notiziario…”. E lei forse capì qualcosa».

Il boia del Boia, come lo chiamavano, ne uscì sconvolto.

«Ebbi un anno d’incubi. È da quel momento che sono diventato religioso. Prego, digiuno, studio. E ho cominciato a sentirmi un po’ meglio». In testa la kippah, i cernecchi sulle orecchie, Shalom era diventato macellaio kosher.

Quando andava in sinagoga, gli piaceva la storia biblica di Mordechai, il carnefice che alla fine diventa vittima: «Se un giorno m’avessero chiamato per uccidere un altro nazista, avrei risposto che ne avevo avuto abbastanza, grazie. Scordatevi di me. Questa cosa, io non la faccio più».

(The 1962 file photo shows Adolf Eichmann standing in his glass cage, flanked by guards, in the Jerusalem courtroom where he was tried in 1962 for war crimes committed during World War II. The basics of Adolf Eichmann’s story are well documented: Commonly known as the “architect of the Holocaust” for his role in coordinating the Nazis’ policy of genocide, he fled Germany only to be captured in Argentina by the Mossad, taken to Israel for trial, and hanged. AP Photo)

Perché i romanzi italiani hanno paura del presente? (rivistastudio.com)

di Davide Coppo

Lo sa raccontare, invece, Gli straordinari di 
Edoardo Vitale: un romanzo che parla di lavoro, 
velleità e clima. 

È in una compagnia ristretta ma buona.

Durante il Festivaletteratura di Mantova, la rassegna più importante di questo tipo in Italia, la critica letteraria tedesca Anna Vollmer, che si occupa soprattutto di letteratura italiana per la Frankfurter Allgemeine Zeitung, ha detto una frase che faceva più o meno così: «Se un tedesco guardasse oggi all’Italia senza esserci mai stato, e usando come osservatorio soltanto i libri degli ultimi anni, penserebbe che l’Italia sia un Paese abitato da vecchie donne con fattezze di streghe che vivono tutte in province isolate dal mondo».

Invece, aggiungeva, «anche in Italia ci sono persone con dei telefoni!». In sala, il pubblico ha riso.

Che la letteratura, non solo in Italia, sia dominata dal memoir o dall’autofiction è un dato di fatto, e questo dominio ha prodotto anche risultati parecchio interessanti. Di questo dominio si discute, la categoria è stata analizzata criticamente, c’è un laboratorio attivo per ibridarla, innovarla, e quindi innovare il romanzo. C’è un altro dominio, più asfissiante, però, ed è quello a cui si riferiva Vollmer. È una malattia, più che una tirannia: la fobia del contemporaneo.

Si può parlare di scopo, per quanto riguarda la letteratura? Io penso di sì, e però se ne può parlare senza postulare uno scopo assoluto, salvifico. La letteratura, scrive Daniele Del Giudice in un saggio, deve «raccontare il mutamento». Nello stesso saggio, paragona le grandi opere del passato a dei naufragi, e la letteratura a un enorme mare.

Delle boe indicano i punti dei naufragi, in modo che navigando, decenni dopo, si possano ancora vedere: qui è naufragato Kafka, qui Conrad, qui Hemingway. Ogni naufragio, continua, è stato a causa di una collisione con i limiti del linguaggio: e i limiti, per colpa di questa collisione, si sono spostati un poco più in là.

Ogni naufragio «ha dimostrato che la letteratura poteva essere anche un’altra cosa» rispetto a prima. Ecco, dice ancora: «In fondo un compito che uno si può dare è proprio quello di mostrare in ogni epoca e secondo i propri mezzi che realtà e linguaggio possono essere incrociati anche in un altro modo, e compiendo quel modo fare il suo bel naufragio. Forse questo si può ancora fare: trovare un posto nuovo dove compiere un piccolo e personale naufragio».

Eccomi arrivato, finalmente, a citare il libro che mi ha portato a tutto questo preambolo: si chiama Gli straordinari, ed è l’esordio, per Mondadori, di Edoardo Vitale. È un romanzo di finzione narrato in prima persona, è breve e lineare, ma mi ha fatto pensare molto a come si può raccontare il presente con la letteratura di oggi: a come si può fare, noi scrittori e scrittrici, il nostro piccolo naufragio inedito.

La storia di Gli straordinari viene narrata dal punto di vista di Nico, un trenta-quarantenne direttore creativo di un’agenzia che si occupa, sostanzialmente, di vendere prodotti innovativi responsabili e green, o meglio greenwashed: sviluppare con i brand idee eco-sostenibili e così via. La co-protagonista è Elsa, la sua compagna da sempre («sua moglie», dice Nico anche se non è vero, perché “compagna” è un nome che fa schifo: concordo). Chi sono gli antagonisti, in tutto questo?

Apparentemente, nessuno in particolare. Ma in realtà sono molti: il core business stesso di pANGEA, i ritmi del lavoro senza limiti nella sfera privata, l’accettazione acritica di tutti i loro progetti, la falsa immagine di sé che Nico ed Elsa cercano di costruire attraverso gli oggetti che comprano, i vestiti che indossano, le cause che sposano, gli esercizi che praticano. Una certa classe creativa, o se non creativa anche solo aspirazionale, si specchierà parecchio nella mediocrità travestita da originalità di quei due.

Vitale non ha voluto scrivere il Grande Romanzo sul lavoro degli anni Venti, e in realtà il senso stesso di Grande Romanzo oggi si è forse perduto, frammentato in tanti piccoli romanzi, ma Gli straordinari è un libro che non potrebbe esistere in un’altra epoca: perché il tipo di ambiente lavorativo e di discorso lavorativo a cui la trama è agganciata è propria di questa precisa epoca, l’epoca del marketing e, diciamo, anche delle puttanate che ci raccontiamo per sembrare persone più virtuose. Vitale è bravo a raccontare l’ipotrofia dell’amore quando è schiacciato nella routine della performance lavorativa, dei social network, delle cose che si fanno solo per poter dire di averle fatte.

È interessante anche l’utilizzo dell’elemento climatico: gli incendi che circondano Roma e intossicano l’aria e da emergenza diventano presto abitudine, e forse proprio quando si realizza quanto questo elemento potrebbe essere un protagonista a sé stante verrebbe da chiedere, al romanzo, uno sforzo in più, un respiro più ampio. Insomma, ti verrebbe voglia di dirgli: potevi provare a esserlo, però, un Grande Romanzo del marketing senza scrupoli e delle città caldissime.

Si capisce bene, quindi, cosa riesce a fare questo libro: descrivere con la fiction e con l’invenzione qualcosa in cui specchiarci, e vedere delle ombre distorte di questa realtà. Mi sembra che invece spesso, oggi, i romanzi letterari vogliano fare l’operazione opposta, e cioè rinunciare di proposito a fare il loro personale naufragio, evitare il presente come si evita il malocchio, rifugiarsi in qualcosa di antico, forse più comodo, forse con un valore intrinseco che, però, non ci dice niente di più nel mondo in cui poi ci troviamo a vivere (ne scriveva nel 2017 anche Cristiano de Majo, qui).

E quindi ecco le donne stregonesche di cui parlava Vollmer, ecco le storie di povertà e isolamento usate come quadri di maniera, ecco una lunga coda (anche naturale, per carità: con un limite) di emulazioni di Elena Ferrante, ecco gli anni pre-moderni, il mondo pre-globale, senza la minaccia dei computer, di internet, della metropolizzazione, degli smartphone, del liberismo.

Non significa che non ci siano romanzi che lo fanno, e lo fanno egregiamente: se dovessi raccogliere qui un piccolo canone di cose uscite di recente, ci metterei Le perfezioni di Vincenzo Latronico (Bompiani), in dozzina allo Strega 2022, una storia di due nomadi digitali che lancia diverse eco ne Gli straordinari, oppure Estate caldissima di Gabriella Dal Lago (66thand2nd), ancora relazioni, ambizioni, precariato e clima; ma anche Il profilo dell’altra di Irene Graziosi (E/O), storia di social network, influencer e percezione di sé. Ci metterei anche Polveri sottili di Gianluca Nativo, più tondelliano e quindi romantico ma saldo nel presente, o Il capo di Francesco Pacifico, in cui si mischiano sesso, possesso, capitale e lavoro.

Miden di Veronica Raimo (Mondadori), una storia di molestie sessuali in una società utopica insopportabilmente perfetta, e dimostrazione che non si deve usare solo uno sfondo contemporaneo per raccontare il contemporaneo è anche Missitalia di Claudia Durastanti (La Nave di Teseo), romanzo, direi, sul mito del progresso: qui la Basilicata, terminato il petrolio da estrarre, diventa base di lancio per la colonizzazione della Luna. E poi ancora, dimenticherò molti e molte, e cito per concludere diversi romanzi di autori come Siti, Piperno, Giordano, Missiroli.

Non posso qui rispondere al perché la letteratura italiana di oggi spesso rinunci a raccontare i cambiamenti del presente, anche se qualche teoria la potrei azzardare, al netto del sempre valido “è il mercato che chiede altro”. C’entra, soprattutto in Italia, un immaginario culturale che tradizionalmente diffida del presente, trovandolo poco elegante.

C’è una questione di hardware, azzarderei: la falsa illusione che il libro, oggetto immutabile, di carta, tecnologia così obsoleta, debba raccontare la stessa obsolescenza. È certamente una questione di coraggio: imitare è più facile che inventare.

Rimango però al saggio già citato di Del Giudice: qui, ancora, scrive che la lingua della narrativa italiana (e del giornalismo, aggiungerei) è storicamente più figlia della tradizione della poesia che del romanzo borghese, e questa ambizione, a essere sempre più poesia che romanzo, a essere sempre qualcosa di più nobile del povero mondo tangibile, penso si rifletta anche oggi: e allora i romanzi che continuano a nascere ambiscono a essere romanzi fuori dal tempo, lontani dal contemporaneo, romanzi di grandi e potenti sentimenti, romanzi di traumi e dolori, anziché romanzi di cose, romanzi di lavoro, romanzi di tecnologie, romanzi anche non impegnati, anche frivoli, romanzi di influencer, di microchip, di ragazzi della strada, di lavori del cazzo.

(L’immagine è un dettaglio della copertina del libro, realizzata da Guim Tió)

Samah Jabr, psichiatra a Gaza (doppiozero.com)

di Maria Nadotti

«Il mondo colonizzato è un mondo scisso in due. 
Lo spartiacque, il confine è indicato dalle 
caserme e dai commissariati di polizia. […] 

Nelle regioni coloniali il gendarme e il soldato, con la loro presenza immediata, i loro interventi diretti e frequenti, mantengono il contatto col colonizzato e gli consigliano, a colpi di sfollagente o di napalm, di non muoversi. Come si vede, l’intermediario del potere usa un linguaggio di pura violenza. L’intermediario non allevia l’oppressione, non cela il predominio. Li espone, li manifesta con la buona coscienza delle forze dell’ordine. L’intermediario porta la violenza nelle case e nei cervelli del colonizzato.

La zona abitata dai colonizzati non è complementare della zona abitata dai coloni. Queste due zone si contrappongono, ma non al servizio di un’unità superiore. Rette da una logica puramente aristotelica, obbediscono al principio di esclusione reciproca: non c’è conciliazione possibile, uno dei due termini è di troppo. […]

Questo mondo a scomparti, questo mondo spaccato in due è abitato da specie diverse

Frantz Fanon, I dannati della terra

k(Un bambino di Gaza: “Quando volano i nostri aquiloni, il cielo fa meno paura”.)

Maria Nadotti: Dal 2016 lei è a capo dell’Unità di salute mentale presso il Ministero della salute palestinese. A lei e ai suoi colleghi sono affidate la Cisgiordania e Gerusalemme Est e, almeno sulla carta, Gaza. Come si cura o si tenta di lenire la sofferenza psichica in un contesto coloniale esploso come quello dei Territori occupati di Palestina? Quali sono le difficoltà maggiori e gli ostacoli più insidiosi nello svolgimento della sua funzione?

Samah Jabr: Innanzitutto siamo pochissimi, mentre la gravità della situazione richiederebbe forze di cui non disponiamo. La mia giornata inizia prestissimo: fino alle tre del pomeriggio svolgo un lavoro di pianificazione presso il Ministero, mentre nel pomeriggio mi occupo dei miei pazienti, che spesso non è facile raggiungere.

A Gaza, dal marzo del 2023, non sono più riuscita a entrare. Ciò significa che devo affidarmi alle consultazioni e alla formazione a distanza, sperare nella tenuta di internet e augurarmi che la fornitura di energia elettrica non venga interrotta. Difficile del resto muoversi anche in Cisgiordania, per non parlare di quanto sia complicato uscire dal paese. Benché io goda dello status relativamente privilegiato dei palestinesi che risiedono a Gerusalemme e la mia professione mi consenta una certa mobilità, il sistemico furto di tempo e di energie vigente nel paese non risparmia nessuno.

Per andare all’estero sono autorizzata a servirmi dell’aeroporto di Tel Aviv, ma ogni volta devo certificare lo scopo ‘scientifico’ del mio viaggio. Ad esempio, per raggiungervi in Italia dove è appena uscito un mio nuovo libro, ho dovuto sfruttare un convegno psichiatrico che si è svolto ad Atene. Non mi avrebbero autorizzata a uscire dal paese per presentare una raccolta d scritti intitolata Il tempo del genocidio. Rendere testimonianza di un anno in Palestina.

MN: E sul piano della clinica?

SJ: Va fatta una premessa. In un contesto politico e sociale come quello in cui i palestinesi vivono da oltre un secolo e che ha avuto precise tappe storiche che si sono impresse nella memoria collettiva trasmettendosi da una generazione all’altra, la sofferenza psichica si esprime attraverso sintomi ferocemente individuali, ma non può essere trattata come un problema della singola persona. È l’atmosfera traumatogena in cui viviamo a produrre il disagio psichico ed è dunque in rapporto a questa situazione che dobbiamo elaborare interventi, pratiche, modalità di ascolto che ci permettano di riparare almeno un po’ la lacerazione cui soprattutto bambine, bambini e donne vengono esposti quotidianamente in forma sempre più brutale.

MN: Quali sono le tappe storiche che sono andate a incidersi più in profondità nella memoria intergenerazionale dei palestinesi?

SJ: All’origine di tutto c’è la Dichiarazione Balfour del 1917. In una lettera indirizzata a Lord Rothschild, rappresentante della comunità ebraica inglese e referente del movimento sionista, l’allora ministro degli esteri del Regno Unito Arthur Balfour affermò che il governo del Regno Unito guardava con favore alla creazione di un “focolare nazionale per il popolo ebraico” in Palestina, che all’epoca faceva ancora parte dell’Impero ottomano. Da allora l’espropriazione territoriale che culminerà nella Nakba del 1948 con l’esodo forzato di oltre settecentomila arabi palestinesi non si è più interrotta. Gaza, a seguito della “guerra dei sei giorni” del 1967, si è trasformata in un enorme campo profughi. Migliaia di palestinesi vi sono approdati dopo essersi visti portare via per la seconda volta casa, terra, beni, memorie e identità. Su su fino alla situazione attuale: a Gaza è in corso da oltre un anno qualcosa che non è appropriato definire una guerra e in Cisgiordania e a Gerusalemme Est le colonie di insediamento israeliane stanno crescendo a ritmi tumultuosi e con esse la violenza esercitata sulla popolazione palestinese.

MN: Quindi un accumulo di esperienze traumatiche, uno stratificarsi della precarietà, una provvisorietà fattasi permanente.

SJ: Precisamente. Anche un incidente automobilistico è un trauma, ma a produrlo è un evento preciso, istantaneo, riconoscibile. Il trauma inscritto nell’esperienza dei palestinesi è reiterato, costante, subdolo. Si accumula, dunque può trasmettersi come un’‘eredità’. Se non lo si riporta alla sua genesi storico-politica, se non lo si affronta come trauma di un’intera società, non se ne viene a capo. Non si possono curare con i farmaci o con la psicoterapia individuale il lutto di una madre che si è vista uccidere un figlio o i disturbi dell’alimentazione o dell’attenzione di bambini esposti all’umiliazione e alla svirilizzazione continua della figura paterna. Se non si trova modo di arrivare alla causa e al cuore di quella sofferenza, di permetterle di esprimersi offrendole il tempo e l’amorosità dell’ascolto e della comprensione, si rischia solo di iperpatologizzarla. In una situazione come la nostra, chi soffre non va messo nella posizione del ‘paziente’, ma affiancato nella ricostituzione di un tessuto sociale che si è smagliato e che rischia di non ricomporsi mai più. Ed è un lavoro eminentemente politico.

MN: Se in Palestina non esiste il disturbo post-traumatico perché il trauma è continuo, in base alla sua esperienza come possono essere trattati i traumi in corso?

SJ: Il trauma palestinese è coloniale, deliberato, ripetitivo, cumulativo e transgenerazionale. Come ci hanno insegnato Frantz Fanon, Nelson Mandela, Ignacio Martín-Baró a essere patogeno è il dispositivo politico dell’occupazione e dell’apartheid. È l’esposizione incessante alla violenza, alla vessazione, all’umiliazione a deformare la psiche degli individui, costretti ad adattarsi al peggio per sopravvivere. Il progetto coloniale è, in sostanza, la riduzione dell’individuo all’impotenza. E cosa c’è di meglio che traumatizzare le persone per ridurle all’impotenza? Si tratta di una strategia. A essa possiamo reagire solo dotandoci – tanto noi terapeuti e formatori quanto le persone che si affidano alle nostre cure – di strumenti di consapevolezza in grado di sostenerci. Quello che la società palestinese subisce da oltre un secolo è un trauma intenzionale e capillare, diretto e indiretto. Ecco perché tutte e tutti possono contribuire a fermarlo. Da noi i professionisti della salute mentale non possono fare un buon lavoro clinico se non sanno creare politiche pubbliche capaci di dare risposta a situazioni di crisi.

MN: Può dirci come è cambiato il vostro modo di operare nel corso dell’ultimo anno?

SJ: A Gaza, prima dell’attacco militare su larga scala in corso dall’ottobre del 2023, avevamo sette centri psichiatrici autorizzati – solo sette per 2,4 milioni di persone – e un numero maggiore di psicologi clinici. Avevano un ospedale psichiatrico in grado di accogliere quarantacinque pazienti e sei ospedali comunitari per la salute mentale. Il modo in cui lavoriamo in Palestina è più focalizzato sulla psicologia di comunità, dove cerchiamo di non fare troppo affidamento sulle strutture psichiatriche, ma incoraggiamo un programma di integrazione della salute mentale con le cure primarie. Ad esempio, incoraggiamo un programma scolastico di salute mentale in modo da ridurre al minimo la necessità di recarsi in una clinica psichiatrica specializzata. Poiché ci sono pochi professionisti specializzati in salute mentale, facciamo molto affidamento su altre figure, medici, infermieri, insegnanti, consulenti e talvolta leader religiosi, che possono svolgere un ruolo importante nella prevenzione dei problemi di suicidio e di abuso di sostanze. Questo era il sistema prima dell’attacco. Nel giro del primo mese cinque centri psichiatrici su sette sono stati distrutti e l’unico ospedale psichiatrico, che si prendeva cura di quindicimila pazienti psichiatrici gravi, è stato completamente danneggiato. Le persone che dipendevano da questa struttura, da questo centro governativo, sono rimaste senza farmaci e senza assistenza.

MN: Che cosa può fare, in una situazione simile, il curante?

SJ: Tenere ben saldo il senso della responsabilità morale. Il ruolo di psichiatra e psicoterapeuta ti mette in una relazione molto intima con le persone che si rivolgono a te, diventi testimone della loro storia e, attraverso l’ascolto, le aiuti a darle un senso. Qualche esempio. Una madre di Gerusalemme si rivolge a me chiedendomi dei farmaci per il figlio dodicenne che, a detta degli insegnanti, soffre di un grave disturbo dell’attenzione e crea problemi in classe. Parlando con il ragazzino, dandogli il tempo della mia attenzione, scopro che alla scuola che frequenta è stato imposto il curriculum scolastico israeliano pena la perdita dei finanziamenti pubblici. Lui quell’imposizione non l’ha accettata, ma la madre non gli ha permesso di cambiare scuola. Non vuole che il figlio debba affrontare il sistema dei check point per raggiungere un istituto in Cisgiordania. E così lui ha adottato la strategia della disattenzione per dire non il suo disagio psichico, ma la sua rivolta. La mia ‘terapia’ è consistita nell’orientarlo verso il buon uso della sua ribellione: sfruttare la situazione per studiare bene il curriculum scolastico israeliano, mettendolo a confronto con quello adottato in Cisgiordania. Interrogare, capire, spiegare. Il contrario del subire in silenzio. Diventare attivi. Farsi agenti della propria storia. Il sumud palestinese, un misto di tenacia, resistenza non passiva, iniziativa, è proprio questo.

O ancora: in Cisgiordania negli ultimi mesi c’è stata una crescita esponenziale dei disturbi dell’alimentazione tra i giovanissimi. I bambini perdono vistosamente peso e rifiutano di mangiare. In Occidente lo si interpreterebbe e tratterebbe come un problema legato all’immagine di sé. Da noi, se ci si dà il tempo di ascoltare, si scopre tutt’altro. La sofferenza e l’acting out del digiuno nascono da ciò che sanno, sentono e vedono di ciò che accade a Gaza. Una mia piccola paziente non mangia, ma accumula cibo in scatola e bottiglie d’acqua in vista di quello che potrebbe succedere anche in Cisgiordania. Un altro non riesce a ingoiare il cibo, perché ha saputo che gli abitanti di Gaza ridotti alla fame sono stati costretti a mescolare foraggio per animali alla farina per il pane. Non possiamo fare molto per togliere quelle immagini dai loro occhi e dalla loro coscienza, ma insieme a loro, con delicatezza e attenzione, possiamo provare a ridurre la morsa del trauma. Spesso basta un gioco, una piccola attività, un minuscolo non prescritto fare per rimettere in moto la speranza, che è il principio fondamentale della vita.

Un’altra piccola storia: un adolescente di Gaza, sfollato insieme alla famiglia e costretto a vivere in una tenda, è soggetto a enuresi notturna. Ogni mattina la madre stende ad asciugare la sua biancheria intima, esponendolo alla bullizzazione dei suoi coetanei. Quel ludibrio è il suo personale genocidio. Basterebbe, da parte della famiglia, una maggiore sensibilità, un piccolo gesto in grado di proteggere il pudore del figlio.

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MN: Oltre che terapeuta lei è autrice di svariati libri e di molti articoli giornalistici. In Italia sono disponibili, pubblicate dalla casa editrice Sensibili alle foglie, tre piccole antologie dei suoi scritti: Dietro i fronti (2019), Sumud (2021) e Il tempo del genocidio (2024). Nell’ultimo, lei parla di “trauma vicario”, vale a dire di quel trauma che non si ferma alla persona che lo subisce direttamente, ma raggiunge anche chi ne legge o assiste alle sue conseguenze attraverso le immagini diffuse dai media, mainstream o social che siano.

SJ: Questa sua domanda mi permette di insistere sugli effetti terapeutici della solidarietà internazionale per i palestinesi. Come psichiatra, io credo nel potere curativo della solidarietà. I suoi benefici sono reciproci: arricchiscono e sanano sia chi dà sia chi riceve. La passività, l’apatia e l’indifferenza, la semplice incapacità o indisponibilità a prendere atto di una tragedia che, pur non colpendoci in prima persona, altera lo scenario in cui tutte e tutti viviamo, sono una malattia dello spirito.Solidarizzando con i palestinesi, ci si impegna in un processo di guarigione collettiva dal senso di colpa e dall’impotenza legate proprio al trauma vicario, inteso come esposizione indiretta a un evento traumatico che colpisce altri. Basti pensare al lutto immenso, all’incredibile senso di disfatta, che stanno vivendo le persone, le associazioni e le istituzioni che hanno creduto nei diritti umani e per essi si sono battuti e continuano a battersi. In Palestina rischia di morire una visione del mondo.

MN: Che fare dunque, come direbbe Godard, ici et ailleurs?SJ: Guardare, ascoltare, rispettare la complessità, non stancarsi di raccontare, essere umili, affidarsi alla sapienza di chi soffre, non aspettare le grandi soluzioni. Nella mia esperienza clinica ho verificato che per una madre che si è vista uccidere un figlio la vicinanza di altre madri che hanno attraversato lo stesso dolore è assai più efficace di qualsiasi mio intervento. Lo stupore pietrificato della depressione e del lutto può sciogliersi solo nell’abbraccio di un ‘noi’ amoroso e accogliente. Ricamare insieme, per esempio, è un gesto che libera la parola e induce all’ascolto reciproco, alla condivisione. Io non sono molto ispirata dalla teoria, preferisco l’empatia, una capacità che si può espandere solo attraverso l’esperienza.

MN: C’è, oggi, in Palestina una sofferenza specificamente femminile?SJ: Sì, un forte senso di colpa, che nasce dall’incapacità di proteggere la vita dei propri figli. C’è una peculiare forma di depressione che colpisce in particolare le donne incinte o le puerpere: perché dare la vita a un figlio se non è dato vederli crescere o vedere riconosciuta la loro e nostra umanità?

Inoltre, in una società patriarcale quale è quella palestinese, l’implacabile demascolinizzazione degli uomini – incarcerati, disoccupati, umiliati, degradati nella loro immagine fisica – le espone a una duplice violenza e a un vissuto estremamente complesso di parentalità. La ricaduta sui figli bambini, spesso costretti ad assumere il ruolo genitoriale, è pesantissima.

MN: Lei è una figura pubblica estremamente esposta. Le capita di avere paura?

SJ: Da psichiatra e psicoterapeuta so che il prezzo del silenzio è troppo alto. Mi viene chiesto spesso: «Non temi di andare in prigione per il fatto che parli e scrivi?». Oppure: «Ma il fatto stesso che tu sia qui e possa parlare, non è la prova che Israele è una vera democrazia?».Parlo, perché non posso fare altrimenti. Non posso fingere di non sapere. Nel mio lavoro ho visto pazienti ipocondriaci che si comportavano come se fossero malati per paura di ammalarsi. Nella mia vita quotidiana incontro persone che vivono come poveri per paura della povertà. Ho visto persone che non sono in grado di comunicare nelle loro relazioni per paura dell’abbandono. Non voglio perdere le mie opportunità, come hanno fatto queste persone, e vivere rinchiusa nella mia mente, per paura di essere gettata dietro le vere sbarre di una prigione. Non nego che ho questa paura, ma preferisco affrontarla ed esprimermi, costi quel che costi.

Penso a Sofocle e alla sua Antigone:

Ismene: Se le cose stanno così, misera, ugualmente vano è che io faccia una cosa o il suo contrario.

Antigone: Vedi un po’ tu se vuoi con me portare il peso e con me agire.

Responsabile dell’Unità di salute mentale presso il Ministero della salute palestinese e professoressa associata di Psichiatria e Scienze Comportamentali presso la George Washington University di Washington DC, Samah Jabr si occupa di formazione e supervisione con un’attenzione particolare alla Terapia Cognitivo Comportamentale (CBT). Contribuisce alla mhGAP (Mental Health Gap Action Programme guideline dell’Organizzazione mondiale della sanità) che offre indicazioni, raccomandazioni e aggiornamenti per il trattamento di disturbi mentali, neurologici e abuso di sostanze e al Protocollo di Istanbul per la documentazione della tortura.

(Copertina – Samah Jabr – Foto Carla Bottazzi)

Un Travaglio di novità rossobrune (areadraghi)

di Marino Pasini

Ho ascoltato Marco Travaglio fare da portavoce del 
nuovo Movimento dei Cinque Stelle non di sinistra, 
non di destra, non proprio progressista, ma 
"progressista indipendente".

Travaglio non si capacita perché “voi”, cioè noi non vogliamo capire cosa è il “nuovo” partito di Grillo che vuol cambiare la società.

Noi non vogliamo capire che i Cinque Stelle “non sono un’appendice di sinistra del Pd”. V’interessa solo sapere del campo largo, dice l’ex appassionato di Bossi, di Ingroia, ora esperto in geopolitica d’ Israele, Palestina, pure di Ucraina, Russia, di come venirne fuori dal conflitto cioè dando a Putin ciò che vuole Putin, e piantarla li’ di far gazzara che se non ci fosse la Nato tutto sarebbe tranquillo.

E quel “genio politico” di Beppe Grillo se si ricordasse di esser stato un genio non darebbe fuori da matto come in questi giorni. Anche i geni si dimenticano le loro straordinarie qualità, a volte, direttore.

E il nuovo approdo rossobruno del partito di Conte (ambientalista a parole ma con simpatia per Donald Trump) vuol cambiare la società, e come Berlusconi non glielo lasciano fare il grande cambiamento per colpa dei poteri forti; che ne dice il giornalista tanto amato dai grillini ex o non ex del partito? L’alleanza in Europa con il BSW (Bundes Sahra Wagenknecht – Ragione e Giustizia), il partito personale di Sahra Wagenknecht, filoPutin, la leader fuoriuscita dalla Linke, sinistra radicale tedesca?

Voi, cioè noi non capiamo scrolla la testa Marco Travaglio così paziente con la nostra ignoranza, non volete capire la novità portata dalla Wagenknecht. Il partito di Sahra Wagenknecht è la vera fresca novità politica europea, dice Travaglio.

Mi viene un dubbio, che l’essere indipendente per Travaglio che è italiano come lo siamo tutti nel Belpaese, sia diventare il pifferaio di qualcosa di “straordinariamente nuovo”, che nuovo non è. Dopo Bossi e Ingroia, ora il rossobrunismo che ha ombre truci e che fa venire i brividi, per Travaglio è la novità….

Marco Travaglio cantò le lodi di Angela Merkel che ebbe il coraggio, disse lui in diretta TV, di far entrare centinaia di migliaia di siriani, iracheni in Germania. Poi, la Merkel cercò di chiudere le porte, ma ormai era tardi, e l’elettorato tedesco si è rivoltato contro.

Ora, il direttore del Fatto Q. ha cambiato idea: canta le lodi di una signora nuova, tale Wagenknecht che vuole mettere la saracinesca, chiudere con il catenaccio ai migranti.

Le cose cambiano, e si cantano altre canzoni, dalla Gruber.

Le frasi choc di Vittorio Feltri a La Zanzara: «I musulmani sono razze inferiori, agli extracomunitari sparerei in bocca» (open.online)

di Massimo Ferraro

Le parole del consigliere regionale di Fratelli 
d'Italia nel programma radiofonico di 
Giuseppe Cruciani sui fatti di Corvetto e la 
morte del 19enne Ramy Elgaml

Nel programma radiofonico degli eccessi, interviene uno dei commentatori che sempre più fa dell’eccesso la sua firma.

La Zanzara Vittorio Feltri interviene a briglie sciolte sulla morte di Ramy Elgaml, il 19 enne morto in un incidente stradale durante un inseguimento dei carabinieri nel quartiere milanese di Corvetto.

Un episodio che ha provocato accese manifestazioni e proteste nei giorni successivi, che hanno messo a dura prova sia le forze dell’ordine sia gli abitanti del quartiere. In un momento in cui servirebbe stemperare i toni, il giornalista e consigliere regionale lombardo di Fratelli d’Italia ha preferito invece buttare altra benzina.

«Non frequento le periferie, non mi piacciono. Sono caotiche, brutte e soprattutto piene di extracomunitari che non sopporto. Basta guardarli, vedi quello che combinano qui a Milano. come fai ad amarli? Gli sparerei in bocca. Non mi vergogno affatto di considerare i musulmani delle razze inferiori», ha detto lapidario Feltri, «mi sono offerto di pagare l’avvocato al carabiniere che è stato indagato. La vittima era giovane? e uno decide di fare il delinquente, che abbia 19 anni o 27 è uguale».

Il Pd contro il consigliere regionale Feltri

Immancabile la risposta della politica, in virtù della carica pubblica che ricopre Feltri. «Vittorio Feltri ancora una volta ci insegna che, toccato il fondo della vergogna, si può sempre scavare.

Dopo le frasi inqualificabili, che non dimentichiamo, sui ciclisti, ora ci tocca leggere frasi terribili e violente contro la comunità musulmana», ha commentato il segretario metropolitano del Pd Milano Alessandro Capelli, «ci aspettiamo le immediate scuse e, una volta per tutte, le dimissioni di Feltri. E ci aspettiamo che tutti i dirigenti del centrodestra condannino le parole di Feltri. Milano è una città aperta al mondo e pacifica e, come non tollera l’antisemitismo, non tollera l’islamofobia e l’istigazione alla violenza».