di Francesca Spasiano
La formula femminista si può combinare con la presunzione d’innocenza?
Nessuno è disposto ad affrontare il cortocircuito: e così la Fiera del libro di Roma l’ha buttato via
Nessuna risposta, solo una domanda: si può combinare lo slogan “sorella io ti credo” con la presunzione d’innocenza? La questione è complicata, e allora la buttiamo via. Come ha fatto la Fiera del libro di Roma, che alla fine si è conclusa rimettendola dentro il cassetto.
Il fatto è noto: Chiara Valerio, curatrice editoriale dell’evento, ha difeso la scelta di invitare Leonardo Caffo, sotto processo per maltrattamenti sull’ex compagna, ricorrendo al garantismo. Dunque alla Costituzione. Salvo poi fare un passo indietro e scusarsi a nome della Fiera. Una pezza che è sembrata peggiore del buco, oltre il quale il week end di cultura è comunque filato liscio. Tutto perdonato, quindi?
Se lo chiede Simonetta Sciandivasci sulla Stampa, mettendo in fila i cortocircuiti in cui la sinistra si incaglia. Tra cui quello che lì è appena accennato, e qui considerato centrale: «Che agli indagati per violenza di genere sia garantita la presunzione di innocenza nella misura in cui alle loro accusatrici è garantito di venire credute».
Qualcosa di simile al “garantismo per la vittima” di cui ha parlato Zerocalcare, e di cui non troviamo traccia nei manuali. Perché la formula “sorella io ti credo” nasce dentro la cultura femminista, nel punto esatto in cui i tribunali falliscono, mettendo sotto accusa le donne che denunciano.
Uno slogan lanciato nei paesi latinoamericani che si è tradotto nel Me Too, con “Believe (all) women”: un inno alla solidarietà femminile che cerca uno spazio di azione politica fuori dal processo, il quale riconosce le responsabilità individuali e necessariamente tralascia quelle istituzionali e sociali. Il messaggio è chiaro, o dovrebbe esserlo: vogliamo credere alle donne, alle quali nessuno crede, per sopperire al ruolo che il sistema giudiziario lascia vacante nella tutela delle vittime.
Che sono sempre state vittime due volte.
Ma dove c’è una vittima, c’è anche un indagato o un imputato. Un “colpevole”, che però non è presunto tale: è innocente fino a prova contraria. Dentro un’aula di tribunale, come su un palco letterario, dove si è liberi di agire senza cedere al “sospetto”.
Lo Stato di diritto funziona così: ci piace ancora, quando ci sembra complicato?