di Aldo Torchiaro
«Abbiamo un governo politico, con una maggioranza che è quella che ha vinto le elezioni, con un ministro dell’economia politico, cosa che non capitava da tanto tempo, e con un orizzonte di legislatura pieno.
Abbiamo un patto di stabilità riformato con un orizzonte temporale che il governo ha scelto di sette anni, da qui al 2031.
Ci saremmo aspettati una legge di bilancio con una visione, con una idea del Paese chiara. Invece quello che noi vediamo è un tirare avanti la lattina».
Una manovra modesta, che perde qualche occasione?
«Per la terza volta di seguito, perché questa è ormai la terza manovra Meloni, si perde la possibilità di descrivere qual è il Paese che si vuole. E infatti se vediamo qual è l’impatto della manovra, per il 2025, è di 2 decimi di punto. Il Pil programmatico rispetto al Pil tendenziale è superiore di tre punti percentuali. Davvero poca roba».
La montagna partorisce un topolino.
«Si fa il minimo indispensabile senza una visione. E questo lo si capisce perché la madre di tutte le riforme dovrebbe essere la spending review. Che non vuol dire soltanto tagliare ma rivedere i conti pubblici. Di questo non c’è traccia e infatti si torna ai cosiddetti tagli lineari, che sono l’opposto della politica economica. Cosa dovrebbe fare un ministro politico? Selezionare, operare delle scelte. Non c’è niente di più politico di tagliare, quello è il potere e la responsabilità di chi è stato eletto. Se si ricorre ai tagli lineari, che sono tutti uguali, si abbandona l’idea di fare politica economica, di selezionare, e si butta semplicemente la lattina più in là, rimandando le decisioni all’anno prossimo. Un’occasione persa».
Ci sono però anche alcuni aspetti positivi, dei bagliori qua e là che fanno ben sperare…
«Sì, ne elencherei due. Si comincia a eliminare, mettendo dei tetti, il bonus 110%. Bene, ma perché non lo eliminiamo del tutto, se abbiamo capito che è stata una delle misure più scellerate di sempre? E poi si trovano le coperture al cuneo fiscale, ricordiamoci che la manovra Draghi e prima e la seconda manovra del governo Meloni erano tutte finanziate in disavanzo, cioè con risorse che non ci sono. Stavolta finalmente si trovano. E ancora: si mettono dei tetti ai famosi sconti fiscali, alle deduzioni e detrazioni. Gran parte di queste voci sono addirittura regressive, anche qui bene ma non benissimo. La direzione è giusta ma la strada ancora lunga. Bisognava intervenire con le forbici».
Cosa frena Meloni, arrivata al terzo anno di esercizio?
«Bisognerebbe avere il coraggio di cambiare racconto. Il paradigma “più spendo, più cresco” va cancellato, anzi capovolto. Non è vero, altrimenti noi con 1100 miliardi di spesa pubblica non saremmo di nuovo dietro alla media europea. Bisogna dare a chi ha bisogno e ridurre la spesa per ridurre le tasse in modo strutturale».
Abbiamo visto acclamare Milei come fosse il Messia, poi nello stesso momento il centrodestra licenzia una manovra di tutt’altro segno…
«Sì, anche per finanziare l’Ires, con 400 milioni, si prendono soldi dalle banche. Il messaggio è sempre: “Per avere meno tasse, metto nuove tasse”. È solo tagliando la spesa che si può tornare a crescere. Operando decisioni politiche: tagliare da un lato, investire in un altro. A proposito, servono infrastrutture, a cominciare dagli asili nido. Serve la volontà politica di attuare le riforme.