Paziente pubblico diniego a vaccini, medico minacciato (ansa.it)

Insulti dai no vax, 'sono terrorizzato'

TRIESTE

“Dire che sono turbato è poco: mi sento lo strumento di un fatto che non ho innescato io e che viene strumentalizzato da qualcuno. Intanto, la mia famiglia è terrorizzata dopo tante minacce che ho ricevuto. Non rispondiamo al telefono, sono giunte molte telefonate strane, non rispondiamo quando squilla il campanello di casa. Tutto questo per una vicenda di cui non mi sono occupato e per un paziente di cui non conosco nemmeno il volto”.

E’ la situazione paradossale in cui è venuto a trovarsi il direttore della Cardiochirurgia di Trieste Enzo Mazzaro, per una banale svista burocratica, finito nel tritacarne dei social dopo che un paziente ha postato un documento dell’ospedale in cui si attesta che non sarà operato perché non vuole sottoporsi a vaccinazione.

Il paziente in questione – affetto da una cardiopatia valvolare cui negli anni si è aggiunta una patologia con immunodepressione grave – è in cura all’ospedale di Cattinara di Trieste dal 2021 e nel corso degli anni si è sempre rifiutato sia di sottoporsi a intervento chirurgico che di vaccinarsi. Non si tratta della vaccinazione da Covid ma di una serie di vaccini che per lui sono raccomandati.

Contattato l’ultima volta telefonicamente, il paziente, aveva ribadito le sue convinzioni e dunque pochi giorni dopo aveva ricevuto dall’ospedale la lettera-modulo in cui di solito si riporta il diniego all’operazione. In questo caso, però, per un errore procedurale era riportata soltanto la dicitura che il paziente non aveva voluto vaccinarsi e non anche l’indisponibilità a essere operato.

Lettera con il timbro del direttore del settore, Mazzaro, che il paziente ha postato sui social innescando una catena di invettive, insulti e minacce.

Come i razzisti hanno modificato la storia di un rifugiato siriano in Germania (open.online)

di David Puente

Ancora una volta, il sito xenofobo VoxNews altera la realtà e omette fatti importanti a scopo razziale

Anas Modamani era diventato famoso per un selfie insieme ad Angela Merkel. Giunto a Berlino nel 2015, all’età di 18 anni, era fuggito dalla Siria per evitare di svolgere il servizio militare sotto il regime di Assad.

Nonostante il giovane siriano si sia costruito una vita in Germania, lavorando oggi come giornalista e videomaker freelance, a seguito della caduta di Assad c’è chi lo “invita” a tornare in Siria. Le risposte di Anas a questa provocazione sono state alterate e diffuse per alimentare ulteriormente l’odio nei confronti dei migranti e, in particolare, dei rifugiati siriani in Europa.

Tra i propagandisti dell’estrema destra xenofoba troviamo, ancora una volta, il sito razzista e diffusore di false notizie VoxNews.

Analisi

L’articolo di VoxNews titola così: «Il rifugiato siriano del selfie con la Merkel non vuole tornare in Siria: “Qui ho soldi e donne”». Nel pezzo leggiamo:

Quasi dieci anni fa, il suo selfie ha simboleggiato la politica di sbravata accoglienza della Germania di Merkel, diventando virale in tutto il mondo. Oggi, Anas Modamani, protagonista di quell’immagine, ha un passaporto tedesco e non ha alcuna intenzione di tornare in Siria, nemmeno dopo la caduta di Bashar al-Assad. Che, del resto, era solo una scusa.

[…]

Modamani afferma di non voler tornare nel suo paese. “Ho un appartamento meraviglioso, una donna bellissima, ho tutto ciò di cui ho bisogno qui”, dichiara con soddisfazione. Ora vive con la sua fidanzata ucraina, arrivata in Germania dopo l’invasione russa del suo paese nel febbraio 2022.

L’articolo riporta le seguenti conclusioni:

E mentre gli ucraini combattono al fronte per difendere la loro nazione, le loro donne vanno all’estero, dove spesso finiscono nelle braccia dei musulmani, in una vergognosa distorsione del concetto di accoglienza. Questa è l’immigrazione oggi: un’opportunità per alcuni di sfuggire alla guerra solo per trovare un altro tipo di conflitto, culturale e morale, che sta distruggendo le nostre società. L’immigrazione non è più solo una questione di ospitalità; è diventata una piattaforma per l’abuso culturale e la distruzione dei valori tradizionali. È tempo di vedere la realtà per quella che è: un’emergenza che richiede una risposta dura e immediata, non un applauso per chi evade dal proprio dovere per vivere in comodità altrove.

Come è stata alterata la realtà

Da nessuna parte del testo è presente la citazione «Qui ho soldi e donne» riportata nel titolo. Al contrario, il contenuto del testo racconta di un giovanissimo siriano che si dichiara berlinese e che è fidanzato con una ragazza ucraina fuggita nel 2022 a seguito dell’invasione russa.

Il testo dell’articolo risulta molto simile a quello pubblicato da France24, che riprende un’intervista di AFP, mentre il contenuto originale è stato alterato per la propaganda xenofoba attuata dal sito e dal suo fondatore, membro del famigerato forum Stormfront. Come di consueto, VoxNews fornisce solo una parte della storia, censurando il resto. Ecco cosa leggiamo da France24:

Dopo aver finanziato i suoi studi in comunicazione con un lavoro part-time in un supermercato, Modamani lavora ora come videogiornalista freelance per l’emittente pubblica Deutsche Welle. Vive con la sua fidanzata ucraina, un’ingegnere meccanico arrivata in Germania pochi mesi prima che la Russia lanciasse la sua invasione su vasta scala del suo Paese nel febbraio 2022.

Inoltre:

Ha affermato di essere fuggito dalla Siria perché “non voleva svolgere il servizio militare” per il regime di Assad e che ora non vuole più tornarci perché lì ha “vissuto cose terribili”.

“Ho perso degli amici”, ha detto. “Membri della mia famiglia sono morti a causa del regime”.

Già vittima di false notizie

Non è la prima volta che Anas Modamani viene sfruttato dalla propaganda estremista e dai diffusori di notizie false. Infatti, il suo volto è stato utilizzato in diversi fotomontaggi per indicarlo come il responsabile di vari attentati a Parigi, Nizza e Berlino.

Conclusioni

Circola un articolo di propaganda xenofoba, pubblicato sul sito di disinformazione VoxNews, che altera e omette i fatti legati alla vita di un siriano giunto in Germania come rifugiato nel 2015, all’età di 18 anni, con il chiaro intento di metterlo in cattiva luce come pessimo esempio e elemento distruttivo culturale.

Zelensky si guardi bene dagli abbracci che i cattivi alleati ancora gli riservano (ilfoglio.it)

di Adriano Sofri

Piccola Posta

Donald Trump si prepara a tornare alla Casa Bianca senza alcuna responsabilità nella guerra scatenata da Putin e con qualche personale risentimento verso il presidente ucraino.

Il quale farebbe meglio a prestare attenzione a chi si mostra solidale alla sua causa nelle riunioni internazionali

Registrata nella futura memoria dell’infamia l’esultanza dei lungimiranti fan della vittoria di Putin – “l’avevamo detto, l’avevamo desiderato, agognato…” – ci si può interrogare sul mestiere del buon alleato. Non è il buon alleato quello che mostra di astenersi dal discutere la conduzione della guerra da parte di chi la combatte, sulla sua terra.

Tanto meno quando il risvolto di questo rispetto presentato come rigoroso e intransigente è un comportamento di fatto che limita drasticamente l’ambito di azione di chi combatte. All’inizio dell’invasione russa e della straordinaria resistenza ucraina – il momento della sconfitta di Putin e della vittoria di Zelensky e del popolo ucraino, che così dovevano continuare a chiamarsi – era pressoché inevitabile mettere in guardia gli ucraini dall’eventuale futuro tradimento degli alleati, quello che incombe oggi sul Rojava.

Era fresca, e imputata a Joe Biden, la vergognosa rotta della coalizione occidentale da Kabul, con le donne e gli uomini afghani abbandonati alla vendetta dei talebani, senza rivali se non i più fanatici dell’Isis-K. Non è successo, se non in parte.

E’ successo però che Donald Trump, immune da responsabilità nella guerra d’Ucraina, e anzi titolare di un certificato di amicizia e società in affari con Putin (e, al suo modo, con Pyongyang) si presenti al resistibile ritorno con le mani completamente libere, privo di qualsiasi debito con Zelensky, al contrario, con qualche personale risentimento.

Si spiega così la frase pronunciata in una secondaria intervista da Zelensky mercoledì, che ha preso i titoli di apertura in un occidente che non ne vedeva l’ora, e che ha strillato alla resa. Era piuttosto inevitabile, considerata la pervicacia con cui Zelensky andava ripetendo il suo piano per la vittoria e le sue condizioni sull’integrità territoriale del paese fin prima dell’invasione della Crimea.

Pervicacia che non aveva suscitato alcuna obiezione ufficiale dagli alleati: cattivi alleati, dunque. Nessuno, letteralmente nessuno, aveva quasi tre anni fa messo in conto una simile durata della guerra, che sta per toccare i tre anni, e che da quasi due anni ha cessato di alternare la vicenda di offensive e controffensive, per mutarsi in una macchina di distruzione e logoramento, sia pure a un costo di vite altissimo per la prepotenza e l’indifferenza russa.

La qualità di un leader, al di là di un momento imprevisto ed eroico, come i giorni successivi al 24 febbraio del 2022, sta nel saper misurare il cambiamento delle condizioni e nell’adattarvisi.

Machiavelli lo disse meglio di chiunque, unendo poesia e profezia alla lucidità strategica, nel famoso capitolo XXV del Principe, messo di fronte alla capricciosa mutevolezza della Fortuna: “Credo ancora, che sia felice quel principe, il modo del cui procedere si riscontra con la qualità de’ tempi, e similmente sia infelice quello, dal cui procedere si discordano i tempi… Che se si mutasse natura con li tempi e con le cose, non si muterebbe fortuna”.

Volodymyr Zelensky non ha mutato natura, né si può troppo incolparnelo, dal momento che l’aveva fatto traumaticamente due volte, passando dai panni dell’attore presidenziale a quelli del presidente vero, e da questi a quelli del capo di un paese aggredito e in guerra.

Gli alleati non hanno saputo, loro, al riparo com’erano dal sangue versato, contribuire alla duttilità sua, e della sua coorte troppo stretta di fedeli. E prima di tutto raccomandare di tener fermo il vanto glorioso della prima resistenza che aveva umiliato la marcia trionfale dell’Armata Rossa, e della controffensiva che l’aveva ricacciata lontano da Kharkhiv e di là dal Dnipro di Kherson. “Se la Russia non vince, perde, se l’Ucraina non perde, vince”.

Un peccato di gola aveva fatto invertire quel risultato raggiunto, e regalato lo slogan, e il nome della vittoria, a Putin. Il quale ha oggi, in Ucraina, il coltello dalla parte del manico. Ha incassato una bastonata micidiale in Siria, e finge di parlarne con disinvoltura – “non ho ancora incontrato Bashar…”, il suo ospite dorato e increscioso – mentre già contratta con Algeri e Tobruk il trasferimento delle basi mediterranee, esalta la riuscita economica, e annota serenamente le falle nei servizi che hanno fatto esplodere in monopattino il suo generale di parata.

Carezza l’Italia, invita Trump al più presto, si dichiara maestro di compromessi, da insegnare a Zelensky, salvo ricordarsi che Zelensky è un governante illegittimo e fino a che non sia rieletto, o un altro per lui, non ci saranno negoziati né compromessi – mai, cioè. Un mai trattabile, del resto.

Penso – e l’ho scritto tante volte qui, da un anno e mezzo – che Zelensky avrebbe potuto e dovuto dire alla sua gente, quelli che stanno al fronte, quelli che stanno nelle case senza luce e senza caldo, quelli che scappano o si nascondono, la frase che ha fatto intitolare i giornali di ieri, che sono disinvoltamente caduti dalle nuvole.

E che avrebbe potuto (e dovuto) completare la spiegazione inconfutabile sull’impossibilità di tenere regolari elezioni nel paese in guerra, con gli uomini nelle trincee e i milioni di cittadini sfollati e rifugiati all’estero, con l’annuncio della propria uscita di scena all’indomani di una conclusione, provvisoria che fosse, del confronto armato.

Non tanto per togliere un’arma di propaganda a Putin, che ne abusa, ma per riguadagnare una fiducia della sua gente, liberata dal dubbio che difenda sé e una cerchia di suoi piuttosto che il suo paese, o anche solo insieme al paese.

Zelensky dovrebbe, credo, guardarsi quanto meglio sa dagli abbracci che ancora le riunioni internazionali gli concedono, e non farsene risarcire rispetto alla difficoltà che l’Ucraina vive, nella prima linea come nelle retrovie. Non è facile. Gli alleati non lo aiutano: non sono buoni alleati.

E così i solidali con l’Ucraina e il suo valore, che in tanti vili vorrebbero consumato e diffamato. Solidali generosi, a rischio di somigliare ai medici ipocritamente pietosi, che fanno la ferita…

Musso per gli amici (corriere.it)

di Massimo Gramellini

Il caffè

Cominciamo col dire che nulla è più stucchevole del sostenere che in Italia ci sia ancora voglia di fascismo: come se, al di là di qualche sparuta e patetica frangia di nostalgici, esistessero davvero degli italiani che sentono la mancanza di una dittatura defunta da ottant’anni, al punto da sfruttare ogni occasione per inneggiare al fondatore di quel movimento reazionario ormai consegnato al giudizio della storia.

E continuiamo con il considerare che il calciatore Romano Floriani Mussolini, «Musso» per gli amici, bisnipote del fondatore suddetto nonché promettente esterno (destro, ma è un particolare malizioso) della Juve Stabia, ha tutto il diritto di farsi chiamare sulla sua maglietta F. Mussolini invece di Floriani M., in palese e meritorio ossequio alla riforma che ha equiparato il cognome delle madri a quello dei padri.

Tutto ciò detto e considerato, rimane un mistero il motivo per cui l’altro giorno, quando «Musso» ha segnato il suo primo gol in serie B e lo speaker ne ha scandito il nome di battesimo, centinaia di tifosi sugli spalti — non proprio una sparuta e patetica frangia di nostalgici — hanno gridato più volte il cognome materno, accompagnandolo con un movimento ritmico e sussultorio del braccio verso l’alto, che più che il tentativo di afferrare una mosca indisciplinata, ai soliti prevenuti è parso evocare il saluto r., se non addirittura il s. romano.