Se è arrivato il tempo del «governo dei cattivi» – o dei peggiori che dir si voglia – (la «cachistocrazia», termine recentemente recuperato dal premio Nobel per l’economia Paul Krugman nell’editoriale in cui, paradossalmente, annunciava il suo addio al «migliore» dei quotidiani, il New York Times),
dobbiamo apertamente riconoscere che «i migliori», ammesso che esistano, hanno fallito il loro compito; e che occorre ripartire da questo (non inevitabile) fallimento per capire cosa sta succedendo.
È ben possibile, anzi, quasi normale che vi siano, nel marasma dei problemi di un Paese, soluzioni migliorabili, soprattutto con il senno di poi, che però ben difficilmente coglie appieno le circostanze effettive in cui bisogna decidere.
Che però esistano dei «migliori» ai quali, in democrazia, viene impedito di operare per raggiungere obiettivi comuni condivisibili, è invece molto più discutibile: vorrebbe dire che anche in politica «la moneta cattiva scaccia quella buona» , secondo la cosiddetta legge di Gresham, elaborata dal banchiere inglese Thomas Gresham nel XVI secolo, quando le monete erano ancora metalliche e gli operatori economici avevano la convenienza a pagare con monete deteriorate, e perciò di minor valore rispetto a quanto scritto in facciata, e ad accettare soltanto monete nuove, di valore pari a quello facciale; un modo evidentemente truffaldino per arricchirsi, riservato ai potenti.
Traslata in politica, la «legge» implicherebbe che, in termini di voti, sia più facile «arricchirsi» con cattiva piuttosto che con buona politica.
È necessariamente così? E se sì, lasciare il campo libero ai peggiori, come sembra voler fare Krugman, è scelta appropriata?
Alla prima domanda si può rispondere con un no, sia pure non stentoreo. Anzitutto, la distinzione tra «migliori» e «peggiori» è astratta, spesso fuorviante, radicalizza le divisioni politiche, sociali, geografiche. Un po’ come la discussione sul merito che, dissociato dalle condizioni di partenza e dalle opportunità, è una categoria sì misurabile ma anche ingannevole.
Forse essere un economista, sicuramente di prim’ordine, ha fuorviato Krugman: la «scienza economica», infatti, è, infatti, intrisa di razionalità, di comportamenti ottimizzanti, di indicatori di performance, di graduatorie di eccellenza e, per contro, di patenti di inadeguatezza.
Ma è anche la disciplina che tiene troppo poco conto, in queste classifiche, della diversità delle condizioni di partenza, che è invece la prospettiva di chi – com’è il caso dei governi democratici – si occupa, o dovrebbe occuparsi, di «bene comune» e includervi anche l’opposizione.
Rinunciare alla prospettiva del bene comune per rappresentare soltanto il proprio elettorato attuale e potenziale equivale a tradire il patrimonio di libertà, solidarietà e minore diseguaglianza custodito nelle costituzioni liberaldemocratiche e la cui piena realizzazione è oggi a rischio proprio per il prevalere degli avidi, dei corruttori, dei sopraffattori nella distribuzione delle risorse, anche quando questa prevalenza si raggiunge attraverso un voto democratico.
Spesso, i cittadini si sono sentiti – e si sentono – ignorati dalle élites e si affidano a «maghi» e super-ricchi – come recentemente negli Stati Uniti – con la speranza di partecipare anch’essi al «banchetto dei pochi», a cui il grande successo economico attribuisce una sorta di «super-potere» paradossalmente non inviso ai più.
Forse, anche complice la tecnologia, si è perso quel raro e difficile equilibrio tra le libertà del mercato e le regole per limitare prepotenza, abusi, corruzione e indifferenza verso i perdenti, gli emarginati o anche semplicemente «gli altri», le generazioni future che non votano e quelli che non fanno parte della «nazione», termine più artificioso che effettivo.
Una decadenza che si realizza quando prevalgono le facili illusioni, quando la ricerca del «nostro» benessere non riconosce quella altrui, come avviene con populismo, sovranismo, nazionalismo.
Eppure, coniugare le libertà del mercato con l’attenzione collettiva (non soltanto quella affidata alla bontà del singolo donatore) verso tutte le situazioni di disagio, povertà, emarginazione è stato non tanto il sogno, quanto il progetto – in parte non disprezzabile realizzato – dei padri e delle madri costituenti, dopo le devastazioni delle due guerre mondiali del secolo scorso.
Se abbiamo perso di vista quel progetto, come Krugman sostiene, abbandonare il campo e lasciarlo agli «incattiviti di successo», economico e politico, è però la risposta sbagliata; così come è sbagliata la risposta di chi si limita a criticare le scelte dei peggiori, non di rado con toni e stili egualmente inaccettabili e dosi di populismo non dissimili.
In realtà, c’è un criterio che meglio di altri può aiutare a distinguere la buo]na politica (il «buon governo») da quella meno buona.
È il criterio della lungimiranza delle scelte; il criterio di chi non agisce soltanto o prevalentemente per il successo immediato proprio o del proprio partito ma è in grado di soppesare le conseguenze delle scelte distinguendo tra breve e lungo periodo. Ed è capace di dire che buoni raccolti nel medio periodo si raggiungono, peraltro senza certezza, soltanto rinunciando oggi a consumare una parte del raccolto.
È un criterio che vale per governi, singoli politici, leader, esperti, manager, insegnanti, medici, chiamati, ciascuno nel loro campo, al coraggio della verità, al riconoscimento della complessità dei problemi, alla rinuncia alla tentazione di offrire miraggi in luogo di soluzioni, al coinvolgimento e al lavoro di squadra.
Il «buon governo» è quello di chi dà il buono, non il cattivo esempio, nella definizione degli obiettivi, nella destinazione delle risorse, nel reperimento di quelle necessarie per ovviare alle ingiustizie che inevitabilmente il mercato crea.
È impossibile condividere questi buoni propositi con i cittadini o almeno con la maggioranza di essi? Credo di no, ma occorre «divulgare» il bene comune, facendolo diventare un raggiungibile obiettivo condiviso, che ci fa stare meglio della ricerca spasmodica del proprio tornaconto personale.
(lapresse)