di Guia Soncini
L’avvelenata
La ragazza col cognome
Un sano ringraziamento alla vittima di stupro plurimo che, con coraggio, ha affrontato la pena del processo pubblico, ed è riuscita a spiegare a tutte noi che a vergognarsi d’aver incontrato uno stronzo non devono essere le donne, ma è lo stronzo che deve vergognarsi d’essere stronzo
«Non ho mai rimpianto questa scelta». L’ha detto dopo la sentenza Gisèle Pelicot, che stamattina troverete sulle prime pagine di tutti i giornali come spesso accade alle vittime, ma ce la troverete con un colpo di coda della sceneggiatura: non come vittima, ma come colei la cui vicenda ha avuto un esito positivo – per quanto una vicenda di cronaca nera possa avere un esito positivo.
La signora Pelicot – sul nome poi ci torniamo – è riuscita a far condannare quello che era suo marito e le decine di uomini da lui reclutati sull’internet, un luogo che in confronto i manicomi criminali erano posti sicuri nei quali incontrare gente perbene; reclutati sull’internet per violentarla.
Non credo di dover riassumere la vicenda, ne avrete letto molte volte: per anni il marito ha, in un gruppo dall’eloquente nome di “Senza che lei lo sappia”, noleggiato gratuitamente stupratori. Che venissero a casa loro e avessero rapporti sessuali con la moglie ignara, da lui sedata a cena. Lei, rimbambita dai sonniferi che lui le somministrava abitualmente, era preoccupata di stare sviluppando una malattia neurodegenerativa.
È una vicenda sulla quale si potrebbero scrivere cinquanta romanzi diversi, quello più interessante sarebbe uno che esplorasse la questione della psiche, questo feticcio filosofico al quale ci appelliamo sempre tranne quando la sua esistenza è inspiegabile: se esiste l’inconscio, com’è possibile che né quello della signora Pelicot né quello dei figli abbia colto che genere d’uomo fosse il marito e padre? (Sul computer di Pelicot sono state trovate foto scattate di nascosto della figlia e della nuora, nude). Se esiste la psiche, non è possibile non esistessero segnali da cui capire che qualcosa non andava in questo criminale casalingo.
Molto si è parlato, durante il processo iniziato a settembre ad Avignone, della mostruosità di cinquanta uomini (i volenterosi stupratori erano di più, ma gli investigatori non sono riusciti a rintracciarli tutti) nessuno dei quali ha avvisato la polizia di cosa stesse succedendo in quella casa.
Sembra che tua moglie dorma davvero, ha testimoniato d’aver detto uno di questi tizi al marito, e lui le ha risposto che la imbottiva di sonniferi e la offriva nelle piazzole autostradali. Perché con quelle informazioni non è andato alla polizia, gli hanno chiesto. Non volevo perdere tempo in commissariato. (La fidanzata di questo tizio, un elettricista cinquantacinquenne, a domanda ha risposto «mi tratta come una principessa»).
Gli hanno dato otto anni (più del tempo che avrebbe perso in commissariato), ma a me pare che, se si crede nell’inconscio, non si possano che considerare gli estranei meno responsabili, più giustificati nel pensare che in una dinamica familiare o coniugale non ci si impicci (sì, lo so che voi siete speciali e il vostro difetto è il troppo altruismo e avreste salvato la signora giacché non vi girate dall’altra parte di fronte a un dubbio d’altrui sofferenza, no, macché).
Un altro taglio romanzesco interessante è l’uomo delle caverne che pare vivere in ogni maschio, e in questo la figura più eloquente è quella del camionista che la signora Pelicot ha riconosciuto perché, fingendosi elettricista, era stato a casa loro di giorno: se un tizio ti chiede di stuprargli la moglie, vorrai vederla prima, c’è un limite anche al caval donato cui non si guarda in bocca.
Ogni volta che penso a lui mi viene in mente quell’amico che, un giorno che parlavamo del processo e io dicevo che insomma, gente che si fa reclutare sull’internet per stuprare una, in un forum intitolato all’insaputa della poveraccia di turno, tanto per lasciare più tracce possibili e farsi arrestare meglio, gente che si lascia pure filmare in corso di stupro: gente così, sveglissima non dev’essere – quell’amico che mi ha risposto una cosa tipo: e poi per scopare una vecchia.
Ne è seguita una conversazione tipo «certo, perché se invece era giovane e bella» «beh, ti dirò». E io lo so che a questo punto c’è una sleppa di giovani e inattrezzate lettrici (femminile sovresteso) che si raccapriccia perché io sono amica degli stupratori, ma è proprio quello il dettaglio interessante: che sono sicura come del fatto che ora sto scrivendo queste righe che quel mio amico non si approfitterebbe neanche della donna più bella del mondo addormentata e non consenziente.
E quindi il punto interessante è: perché gli uomini sentono la necessità di rappresentarsi così? Perché anche gli uomini civili e sani di mente pensano che il modo giusto, divertente, seduttivo in cui porsi sia quello del maniaco sessuale? Forse capirlo è più utile che urlare al patriarcato, ma mi sbaglierò senz’altro.
Dominique Pelicot è stato condannato a vent’anni di carcere: non abbiamo ancora finito di leggere l’indignazione per Turetta di chi confonde le aggravanti del codice penale italiano con la propria sensibilità – come sarebbe non è stato crudeleeee – ed ecco che ci toccheranno quelli che sono offesi dal mancato ergastolo a Pelicot. Ma l’ergastolo per stupro non è previsto, dal codice penale francese. Forse è ingiusto che non lo sia, fatto sta che nelle condizioni date gli hanno dato il massimo della pena.
Quel che mi interessa di questa storia, però, è un altro dettaglio. È – non ve ne sarete già dimenticati – la scelta che Gisèle Pelicot non ha mai rimpianto. Quella di rinunciare all’anonimato garantito alle vittime di reati di questo tipo, a comparire ogni giorno in tribunale con la sua faccia e il suo nome, per essere da esempio e perché, come da sua frase molto citata, «La vergogna cambi lato». Cioè: a vergognarsi dev’essere lo stupratore, non la stuprata.
La frase in realtà riguardava il cognome: Pelicot è quello del marito, e lei ha spiegato di volerlo tenere (nelle cronache non compare mai il suo cognome da nubile) perché Pelicot si chiamano i suoi figli, le sue nipoti, e non vuole che debbano vergognarsi d’avere il cognome d’uno stupratore, vuole che siano orgogliosi d’avere il cognome di Gisèle.
Mi pare che le ragazze che ripetono la frase sullo spostamento della vergogna, però, stiano implicando che finora ci si vergognava d’essere vittime d’un reato, il che voglio sperare non sia più vero da decenni. “La ragazza con la pistola” è del 1968 (Gisèle Pelicot aveva sedici anni), e già il concetto della fanciulla disonorata faceva ridere e raccontava una società arretrata che avevamo superato.
Com’è successo che bisogna ricominciare daccapo e spiegare alle donne che a vergognarsi d’aver incontrato uno stronzo non devono essere loro, semmai è lo stronzo che deve vergognarsi d’essere stronzo? È per il feticismo della fragilità che domina da qualche anno il mercato della dialettica tra i sessi?
È un sospetto che mi aveva già colta con le conversazioni attorno al revenge porn, cioè agli ex fidanzati che ti sputtanano diffondendo tue immagini intime: ma cosa c’è di sputtanante? Posto che, se diffondi mie immagini senza il mio consenso, è un reato ed è ovvio che il codice penale lo consideri tale, di cosa dovrei vergognarmi, io che sono nuda o giù di lì in quelle foto e in quei filmati? Di avere ex fidanzati la cui cafonaggine sconfina nella criminalità?
Gisèle Pelicot non dice una cosa che sarebbe tra le poche ad avere il diritto di dire, altro che Giambruno: che l’ha fatto per le altre. È per le altre, non per sé, che si è resa disponibile a un’altra cosa orrenda, dopo gli anni di stupri: la perpetua identificazione col proprio dramma, col proprio trauma, col proprio danno. Si è inflitta, da settembre e per sempre, finché vive e anche oltre, l’impossibilità di liberarsene. L’impossibilità di dimenticare ed essere dimenticata.
Quel trauma reiterato che è andare a processo e stare su tutti i giornali e venire riconosciuta ovunque per una cosa orrenda che ti è capitata – Annabella Sciorra raccontò di non aver denunciato Harvey Weinstein perché non voleva che, quando entrava in un ristorante, tutti pensassero: guarda, la stuprata – quel sacrificio lì la Pelicot l’ha fatto per le altre.
A lei bastava separarsi dal marito, per mettersi al sicuro. Ma ci sarebbero sempre stati in giro cinquanta e più tizi il cui hobby era la copula con donne sedate e ignare.
È quella lì, la scelta difficile che ha fatto, quella della quale dice di non essersi pentita, quella della quale andrebbe ringraziata.