Attentati, omicidi, rapimenti. Negli archivi decenni di segreti (corriere.it)

di Guido Olimpio

Da Lockerbie ai resti di Eli Cohen. E sono stati 
tanti gli estremisti passati da Damasco

Un lungo regno quello degli Assad, decenni di dittatura e di segreti.

Che potrebbero riemergere dagli archivi del regime, sempre che i soldati non siano riusciti a triturare o incenerire i file più compromettenti.

Domenica i ribelli hanno iniziato a liberare le centinaia di prigionieri detenuti in condizioni spaventose e chissà che adesso non cerchino documenti negli armadi delle intelligence. Al plurale.

Sì, perché i lealisti avevano creato diversi apparati di sicurezza, un modo per aumentare il controllo sugli oppositori ma anche perché volevano evitare che un unico «servizio» potesse diventare troppo potente. E dunque di «cose» da scoprire ve ne sono tante, molte legate a quanto avvenuto in Medio Oriente negli ultimi 50 anni.

Partiamo da lontano. I militari siriani hanno dato ospitalità ad alcuni gerarchi nazisti fuggiti dopo la fine del conflitto mondiale, una presenza incarnata da Alois Brunner, un ufficiale che offrirà la sua consulenza «in torture» e sarà preso di mira anche dal Mossad con un plico-bomba.

Su questa colonia è già uscito tanto ma potrebbero esserci nuovi dettagli. Sempre Israele cercherà di avere notizie su dove siano stati sepolti i resti di Eli Cohen, la spia del Mossad impiccata nel 1965 che riuscì ad infiltrarsi ai massimi livelli dello Stato siriano. Negli anni scorsi gli israeliani hanno ingaggiato dei ribelli nella speranza di trovare la tomba.

Nelle casseforti governative possono esserci dettagli sulla guerra libanese, sugli omicidi di personalità politiche — dai cristiani all’ex premier sunnita Hariri —, sugli attentati, sugli occidentali rapiti e mai tornati, su trame d’ogni genere.

Gli Assad hanno accolto fino alla metà degli anni ’90 il terrorista venezuelano Carlos che abitava insieme alla moglie e al suo braccio destro nella capitale. Poi lo manderanno via cercando di appiopparlo a Gheddafi e per l’assassino a pagamento mascherato sarà la fine. Infatti, i francesi, con l’aiuto della Cia, lo prenderanno in Sudan.

Si sono incamminati sulla via di Damasco gli estremisti giapponesi dell’Armata Rossa, gli armeni dell’Asala, il palestinese George Habbash e diversi capi di fazioni palestinesi. Alcuni sono stati usati per operazioni «sporche», altri ancora si sono messi a disposizione senza dichiararlo apertamente. E lungo questi sentieri sono arrivati militanti della lotta armata europei.

Gli 007 siriani — in particolare quelli dell’aviazione — sono stati chiamati in causa per legami con attacchi terroristici in Occidente, per i rapporti con frange radicali, per sabotaggi ad aerei e casi mai pienamente risolti. Come Lockerbie. Forse ci sono le prove della loro responsabilità o della loro innocenza.

Le storie coperte dalla polvere sono mescolate ad altre che si sono allungate fino ad epoche recenti. Il rapporto con l’Hezbollah libanese che qui aveva la sua base «esterna», le relazioni complesse con i pasdaran della Divisione Qods. Erano alleati ma, al tempo stesso, temevano piroette: dopo una serie di omicidi-mirati condotti dagli israeliani è nato forte il sospetto tra gli iraniani che i traditori fossero dei siriani.

E sarebbe interessante vedere se esistono dettagli sul patto con Mosca, le sponde con altri regimi, le amicizie con politici di Paesi ostili alla Siria. Tra i visitatori speciali anche Tulsi Gabbard, la parlamentare americana appena designata da Trump come responsabile dell’intelligence Usa e a rischio nomina proprio per questi viaggi.

Negli ultimi anni diversi governi occidentali e arabi hanno riaperto il dialogo con Assad, diventato di nuovo «potabile». Canali riservati per avere informazioni su elementi sospetti, per rilanciare le relazioni, per cercare di allontanarlo da Teheran. Emirati, sauditi, giordani, egiziani si sono adoperati per ottenere un cambio — con le monarchie del petrolio disposte a offrire investimenti — ma il dittatore ha detto di no convinto che lo scudo russo-iraniano fosse il migliore.

E si è sbagliato, nonostante l’esercito di spie.

Il femminismo eroico di Gisèle Pelicot, e il feticismo della fragilità (linkiesta.it)

di

L’avvelenata

La ragazza col cognome

Un sano ringraziamento alla vittima di stupro plurimo che, con coraggio, ha affrontato la pena del processo pubblico, ed è riuscita a spiegare a tutte noi che a vergognarsi d’aver incontrato uno stronzo non devono essere le donne, ma è lo stronzo che deve vergognarsi d’essere stronzo

«Non ho mai rimpianto questa scelta». L’ha detto dopo la sentenza Gisèle Pelicot, che stamattina troverete sulle prime pagine di tutti i giornali come spesso accade alle vittime, ma ce la troverete con un colpo di coda della sceneggiatura: non come vittima, ma come colei la cui vicenda ha avuto un esito positivo – per quanto una vicenda di cronaca nera possa avere un esito positivo.

La signora Pelicot – sul nome poi ci torniamo – è riuscita a far condannare quello che era suo marito e le decine di uomini da lui reclutati sull’internet, un luogo che in confronto i manicomi criminali erano posti sicuri nei quali incontrare gente perbene; reclutati sull’internet per violentarla.

Non credo di dover riassumere la vicenda, ne avrete letto molte volte: per anni il marito ha, in un gruppo dall’eloquente nome di “Senza che lei lo sappia”, noleggiato gratuitamente stupratori. Che venissero a casa loro e avessero rapporti sessuali con la moglie ignara, da lui sedata a cena. Lei, rimbambita dai sonniferi che lui le somministrava abitualmente, era preoccupata di stare sviluppando una malattia neurodegenerativa.

È una vicenda sulla quale si potrebbero scrivere cinquanta romanzi diversi, quello più interessante sarebbe uno che esplorasse la questione della psiche, questo feticcio filosofico al quale ci appelliamo sempre tranne quando la sua esistenza è inspiegabile: se esiste l’inconscio, com’è possibile che né quello della signora Pelicot né quello dei figli abbia colto che genere d’uomo fosse il marito e padre? (Sul computer di Pelicot sono state trovate foto scattate di nascosto della figlia e della nuora, nude). Se esiste la psiche, non è possibile non esistessero segnali da cui capire che qualcosa non andava in questo criminale casalingo.

Molto si è parlato, durante il processo iniziato a settembre ad Avignone, della mostruosità di cinquanta uomini (i volenterosi stupratori erano di più, ma gli investigatori non sono riusciti a rintracciarli tutti) nessuno dei quali ha avvisato la polizia di cosa stesse succedendo in quella casa.

Sembra che tua moglie dorma davvero, ha testimoniato d’aver detto uno di questi tizi al marito, e lui le ha risposto che la imbottiva di sonniferi e la offriva nelle piazzole autostradali. Perché con quelle informazioni non è andato alla polizia, gli hanno chiesto. Non volevo perdere tempo in commissariato. (La fidanzata di questo tizio, un elettricista cinquantacinquenne, a domanda ha risposto «mi tratta come una principessa»).

Gli hanno dato otto anni (più del tempo che avrebbe perso in commissariato), ma a me pare che, se si crede nell’inconscio, non si possano che considerare gli estranei meno responsabili, più giustificati nel pensare che in una dinamica familiare o coniugale non ci si impicci (sì, lo so che voi siete speciali e il vostro difetto è il troppo altruismo e avreste salvato la signora giacché non vi girate dall’altra parte di fronte a un dubbio d’altrui sofferenza, no, macché).

Un altro taglio romanzesco interessante è l’uomo delle caverne che pare vivere in ogni maschio, e in questo la figura più eloquente è quella del camionista che la signora Pelicot ha riconosciuto perché, fingendosi elettricista, era stato a casa loro di giorno: se un tizio ti chiede di stuprargli la moglie, vorrai vederla prima, c’è un limite anche al caval donato cui non si guarda in bocca.

Ogni volta che penso a lui mi viene in mente quell’amico che, un giorno che parlavamo del processo e io dicevo che insomma, gente che si fa reclutare sull’internet per stuprare una, in un forum intitolato all’insaputa della poveraccia di turno, tanto per lasciare più tracce possibili e farsi arrestare meglio, gente che si lascia pure filmare in corso di stupro: gente così, sveglissima non dev’essere – quell’amico che mi ha risposto una cosa tipo: e poi per scopare una vecchia.

Ne è seguita una conversazione tipo «certo, perché se invece era giovane e bella» «beh, ti dirò». E io lo so che a questo punto c’è una sleppa di giovani e inattrezzate lettrici (femminile sovresteso) che si raccapriccia perché io sono amica degli stupratori, ma è proprio quello il dettaglio interessante: che sono sicura come del fatto che ora sto scrivendo queste righe che quel mio amico non si approfitterebbe neanche della donna più bella del mondo addormentata e non consenziente.

E quindi il punto interessante è: perché gli uomini sentono la necessità di rappresentarsi così? Perché anche gli uomini civili e sani di mente pensano che il modo giusto, divertente, seduttivo in cui porsi sia quello del maniaco sessuale? Forse capirlo è più utile che urlare al patriarcato, ma mi sbaglierò senz’altro.

Dominique Pelicot è stato condannato a vent’anni di carcere: non abbiamo ancora finito di leggere l’indignazione per Turetta di chi confonde le aggravanti del codice penale italiano con la propria sensibilità – come sarebbe non è stato crudeleeee – ed ecco che ci toccheranno quelli che sono offesi dal mancato ergastolo a Pelicot. Ma l’ergastolo per stupro non è previsto, dal codice penale francese. Forse è ingiusto che non lo sia, fatto sta che nelle condizioni date gli hanno dato il massimo della pena.

Quel che mi interessa di questa storia, però, è un altro dettaglio. È – non ve ne sarete già dimenticati – la scelta che Gisèle Pelicot non ha mai rimpianto. Quella di rinunciare all’anonimato garantito alle vittime di reati di questo tipo, a comparire ogni giorno in tribunale con la sua faccia e il suo nome, per essere da esempio e perché, come da sua frase molto citata, «La vergogna cambi lato». Cioè: a vergognarsi dev’essere lo stupratore, non la stuprata.

La frase in realtà riguardava il cognome: Pelicot è quello del marito, e lei ha spiegato di volerlo tenere (nelle cronache non compare mai il suo cognome da nubile) perché Pelicot si chiamano i suoi figli, le sue nipoti, e non vuole che debbano vergognarsi d’avere il cognome d’uno stupratore, vuole che siano orgogliosi d’avere il cognome di Gisèle.

Mi pare che le ragazze che ripetono la frase sullo spostamento della vergogna, però, stiano implicando che finora ci si vergognava d’essere vittime d’un reato, il che voglio sperare non sia più vero da decenni. “La ragazza con la pistola” è del 1968 (Gisèle Pelicot aveva sedici anni), e già il concetto della fanciulla disonorata faceva ridere e raccontava una società arretrata che avevamo superato.

Com’è successo che bisogna ricominciare daccapo e spiegare alle donne che a vergognarsi d’aver incontrato uno stronzo non devono essere loro, semmai è lo stronzo che deve vergognarsi d’essere stronzo? È per il feticismo della fragilità che domina da qualche anno il mercato della dialettica tra i sessi?

È un sospetto che mi aveva già colta con le conversazioni attorno al revenge porn, cioè agli ex fidanzati che ti sputtanano diffondendo tue immagini intime: ma cosa c’è di sputtanante? Posto che, se diffondi mie immagini senza il mio consenso, è un reato ed è ovvio che il codice penale lo consideri tale, di cosa dovrei vergognarmi, io che sono nuda o giù di lì in quelle foto e in quei filmati? Di avere ex fidanzati la cui cafonaggine sconfina nella criminalità?

Gisèle Pelicot non dice una cosa che sarebbe tra le poche ad avere il diritto di dire, altro che Giambruno: che l’ha fatto per le altre. È per le altre, non per sé, che si è resa disponibile a un’altra cosa orrenda, dopo gli anni di stupri: la perpetua identificazione col proprio dramma, col proprio trauma, col proprio danno. Si è inflitta, da settembre e per sempre, finché vive e anche oltre, l’impossibilità di liberarsene. L’impossibilità di dimenticare ed essere dimenticata.

Quel trauma reiterato che è andare a processo e stare su tutti i giornali e venire riconosciuta ovunque per una cosa orrenda che ti è capitata – Annabella Sciorra raccontò di non aver denunciato Harvey Weinstein perché non voleva che, quando entrava in un ristorante, tutti pensassero: guarda, la stuprata – quel sacrificio lì la Pelicot l’ha fatto per le altre.

A lei bastava separarsi dal marito, per mettersi al sicuro. Ma ci sarebbero sempre stati in giro cinquanta e più tizi il cui hobby era la copula con donne sedate e ignare.

È quella lì, la scelta difficile che ha fatto, quella della quale dice di non essersi pentita, quella della quale andrebbe ringraziata.

Perché Meloni fa confusione sulla Cassazione e i Paesi sicuri (pagellapolitica.it)

di Vitalba Azzollini

Immigrazione
Secondo la presidente del Consiglio, la Corte «ha dato ragione al governo» sul trattenimento dei migranti. In realtà le cose non stanno proprio così

Il 22 dicembre, durante un vertice in Finlandia con alcuni leader europei, la presidente del Consiglio Giorgia Meloni ha commentato la recente sentenza della Cassazione che riguarda la lista dei Paesi considerati “sicuri” dal governo, da cui provengono i richiedenti asilo. «Mi pare che la Corte di Cassazione ha sostanzialmente dato ragione al governo italiano sul fatto che è diritto dei governi stabilire quale sia la lista dei Paesi sicuri», ha dichiarato Meloni.

La presidente del Consiglio ha aggiunto che, in base alla sentenza della Cassazione, «i giudici possono entrare nel merito del singolo caso in rapporto al Paese, ma non disapplicare in toto» la lista stilata dal governo.

La sentenza della Cassazione, pubblicata il 19 dicembre, si inserisce nel dibattito sul trattenimento dei migranti provenienti da Paesi sicuri in appositi centri, tra cui quelli costruiti in Italia dall’Albania (come vedremo, in realtà la sentenza riguarda un caso diverso). Tra ottobre e novembre, in due occasioni il Tribunale di Roma non ha convalidato il trattenimento dei migranti in questi centri, sulla base di una recente sentenza della Corte di giustizia dell’Unione europea.

Vari esponenti del governo e dei partiti che lo sostengono avevano criticato i giudici, dicendo che non possono sindacare il potere del governo di decidere quali sono i Paesi sicuri e, di conseguenza, quali migranti possono essere trattenuti nei centri in Albania.

Secondo Meloni, ora la Cassazione avrebbe «dato ragione al governo», ma questa lettura è fuorviante per vari motivi. Nessun giudice, infatti, ha messo in dubbio che spettasse al governo definire la lista dei Paesi sicuri. La direttiva europea del 2013 (chiamata “direttiva Procedure”) stabilisce che gli Stati membri dell’Ue «possono mantenere in vigore o introdurre» una norma per «designare a livello nazionale Paesi di origine sicuri ai fini dell’esame delle domande di protezione internazionale». Questo punto non è stato l’oggetto della controversia davanti ai giudici.

In più, nessuna autorità giudiziaria ha mai sostenuto che i giudici dei tribunali potessero disapplicare erga omnes, ossia in modo generale, il decreto con la lista dei Paesi sicuri. Questa cosa, infatti, non è mai avvenuta: i giudici si sono limitati esclusivamente alla sua disapplicazione in merito a singoli casi concreti di richiedenti asilo, sottoposti al loro vaglio.

Questo è avvenuto anche perché ai tribunali, in base al nostro ordinamento, è precluso andare al di là della specifica controversia su cui sono chiamati a esprimersi. Solo la Corte Costituzionale può invalidare erga omnes una norma.

In estrema sintesi, la Cassazione ha stabilito che il «potere di accertamento» dei giudici su una richiesta d’asilo «non può essere limitato dalla circostanza che uno Stato sia incluso nell’elenco di Paesi da considerare sicuri sulla base di informazioni vagliate unicamente» dal governo.

Al governo spetta valutare quali Paesi possano definirsi sicuri, ma ai giudici compete vagliare la legittimità di tale valutazione, ed eventualmente disapplicare il relativo decreto nel caso sia sottoposto al loro esame.

Procediamo con ordine per capire che cosa ha stabilito più nel dettaglio la sentenza della Cassazione.

L’oggetto della sentenza

Prima di tutto, occorre chiarire perché è intervenuta la Corte di Cassazione e quali sono le posizioni assunte dalle parti coinvolte nella sua sentenza.

La Cassazione è stata chiamata in causa lo scorso luglio dal Tribunale di Roma, a proposito del caso di un richiedente asilo proveniente dalla Tunisia. La commissione territoriale aveva respinto la richiesta di asilo fatta dal migrante perché quest’ultimo proveniva da un Paese considerato sicuro e, a detta della commissione territoriale, non aveva indicato «fondati motivi» per dimostrare che in realtà il suo Paese d’origine non fosse sicuro.

Una precisazione: all’epoca la lista dei 22 Paesi sicuri, tra cui c’era la Tunisia, era contenuta in un decreto del Ministero degli Esteri del 7 maggio 2024. A ottobre, il governo ha poi spostato con un decreto-legge la lista in una norma di rango primario (ora è contenuta in un decreto legislativo del 2008), riducendo a 19 il numero di Paesi sicuri, tra cui rientra ancora la Tunisia.

Nonostante questo spostamento, il principio stabilito dalla Cassazione nella sua sentenza vale per la nuova lista. Ricordiamo che per l’esame della richiesta d’asilo dei migranti provenienti dai Paesi sicuri si attiva la cosiddetta “procedura accelerata di frontiera”, che come suggerisce il nome ha tempi di esame più veloci rispetto alla procedura d’esame ordinaria.

Torniamo al caso del richiedente asilo tunisino, che ha fatto ricorso al Tribunale di Roma contro la risposta negativa della commissione territoriale, contestando che la Tunisia sia un Paese sicuro. A sua volta, il Tribunale di Roma ha chiesto alla Corte di Cassazione se il giudice ordinario, nell’esprimersi sulla richiesta d’asilo, è «vincolato» alla lista dei Paesi sicuri definita dal governo, che così resta insindacabile, o se deve valutare comunque le effettive condizioni di sicurezza dei Paesi inclusi nella lista. Tra poco vediamo che cosa ha stabilito la Cassazione: prima riassumiamo le posizioni delle parti in causa.

Le posizioni delle parti

Il procedimento su cui doveva esprimersi il Tribunale di Roma riguardava da un lato il richiedente asilo tunisino che aveva fatto ricorso, dall’altro lato il Ministero dell’Interno. Quest’ultimo è stato rappresentato in udienza dall’Avvocatura generale dello Stato, che rappresenta e difende gli interessi legali dello Stato in tribunale e fornisce consulenza giuridica alle istituzioni pubbliche.

Secondo l’Avvocatura generale dello Stato, il giudice ha il potere e dovere di valutare se un Paese incluso nella lista dei Paesi sicuri «possa ritenersi effettivamente tale» alla luce delle norme europee e nazionali, «sulla base di informazioni sui Paesi di origine aggiornate al momento della decisione, anche in ragione del dovere di cooperazione istruttoria».

Secondo il Ministero dell’Interno, il giudice «non può sostituire la propria valutazione» a quella del governo, anche «in ragione del carattere tecnico-discrezionale della designazione di Paese di origine sicuro». Questo deve valere «a meno che emergano elementi tali da rendere manifestamente irragionevole la designazione perché contraria ai principi contenuti nella normativa» europea. Invece, in riferimento al caso specifico, il giudice «può accertare ragioni di carattere individuale che depongano per una situazione di insicurezza che riguarda il singolo richiedente».

Queste due posizioni sono molto meno distanti di quanto le dichiarazioni dei politici viste prima lasciano intendere. E forse è anche questo il motivo per cui entrambe le parti rispettivamente reputano che la sentenza abbia segnato un punto a loro favore.

Il fatto è che alcuni passaggi della sentenza possono essere usati strumentalmente a sostegno delle diverse opinioni politiche: perché se è vero che la determinazione dei Paesi sicuri spetta al governo, è altrettanto vero che i giudici possono sindacare la valutazione fatta da quest’ultimo e disapplicare il relativo decreto nel caso in cui sia sottoposto al loro vaglio.

L’atto politico

Nella sua sentenza, la Cassazione ha stabilito che il decreto con la lista dei Paesi sicuri «non è un atto politico», ossia «un atto fuori dal diritto e dalla giurisdizione». In altre parole, il decreto non è un atto insindacabile e non può essere sottratto alla valutazione dei giudici.

Secondo la Cassazione, l’inserimento di un Paese nella lista dei Paesi sicuri ha un «carattere giuridico» perché «è guidato da requisiti e da criteri dettati dal legislatore europeo e recepiti dalla normativa nazionale». La Corte ha sottolineato che «tali elementi devono essere considerati sulla base delle informazioni fornite dalla Commissione nazionale per il diritto di asilo», che fa parte del Ministero dell’Interno, e «da altre fonti qualificate».

Tra queste fonti rientrano gli Stati membri dell’Ue, l’Agenzia dell’Unione europea per l’asilo (EASO), l’Alto commissariato delle Nazioni Unite per i rifugiati (UNHCR), il Consiglio d’Europa e «altre organizzazioni internazionali competenti».

Dunque, il provvedimento del governo che definisce l’elenco dei Paesi sicuri, non essendo un atto politico, può essere sottoposto al vaglio dei giudici.

Il potere dei giudici

La Cassazione ha affrontato poi un’altra questione: se i giudici possono sottoporre ad «accertamento, riscontro e verifica» il rispetto del legislatore dei requisiti e dei criteri stabiliti dalle norme europee e nazionali, oppure se ci sia un «potere valutativo riservato insindacabilmente» al governo. Al riguardo, la Cassazione ha stabilito che la valutazione del governo sulla sicurezza di un Paese non è «un dato assolutamente insindacabile».

Secondo la Cassazione, il giudice non può sostituirsi al ministro degli Esteri (o al governo) e non può annullare «con effetti erga omnes» il decreto con l’elenco dei Paesi sicuri. Del resto, il nostro ordinamento prevede che il giudice non possa «andare al di là di quanto rileva ai fini del pieno e completo esame del singolo caso in quella data controversia». Come abbiamo anticipato in precedenza, tale questione non era stata messa in dubbio da un’autorità giudiziaria.

La Cassazione ha specificato però che il giudice ha il potere e dovere di esercitare il “sindacato di legittimità” sull’inserimento di un Paese nella lista dei Paesi considerati sicuri. Da un lato, il giudice deve valutare l’eventuale contrasto con le norme europee o italiane in relazione alla «situazione di ordine generale» in un Paese, che riguarda «intere categorie di cittadini o zone di quel dato Paese».

Dall’altro lato, il giudice deve verificare se la qualificazione del Paese come sicuro non corrisponda più «alla situazione reale», anche tenuto conto di informazioni che risultano, per esempio, dalle «univoche ed evidenti fonti di informazione affidabili ed aggiornate sul Paese di origine del richiedente», ai sensi della direttiva “Procedure”, come sostenuto dall’Avvocatura generale dello Stato.

Il sindacato di legittimità può portare il giudice a disapplicare il decreto sui Paesi sicuri, nello specifico caso trattato di un richiedente asilo, se c’è un «manifesto discostamento dalla disciplina europea» o se le situazioni di contesto sono cambiate. In queste ipotesi, siccome la “sicurezza” del Paese di provenienza determina l’applicazione della procedura accelerata di frontiera, la disapplicazione del decreto ha come conseguenza «il ripristino della procedura ordinaria» per il richiedente asilo e la sospensione dell’esecutività del diniego di asilo adottato dalla commissione territoriale.

Secondo la Cassazione, vale un discorso diverso per il caso di un richiedente asilo che, a sostegno della sua domanda di protezione, abbia addotto «gravi motivi per ritenere» che il suo Paese di provenienza «non è sicuro per la [sua] situazione particolare», ossia per le «circostanze specifiche» in cui egli si trova.

In quest’ultima ipotesi, ha scritto la Cassazione, «ciò che rileva non è tanto la valutazione, generale e costante, di sicurezza del Paese» fatta dal governo – evenienza che porta alla disapplicazione del decreto nel caso specifico, come detto – «quanto, piuttosto, la situazione di fatto della sicurezza nei confronti del singolo richiedente in ragione della sua peculiare situazione».

Dunque, in questa ipotesi il giudice non disapplica il decreto del governo – come nel caso esposto in precedenza, in cui ci siano motivi generalizzati per ritenere il Paese non sicuro – ma procede ad accertare la sicurezza della condizione soggettiva del richiedente nel Paese da cui proviene. Anche in questo caso il giudice può sospendere l’efficacia esecutiva del provvedimento di diniego di protezione.

In conclusione

Ricapitolando: il giudice valuta la sicurezza di un Paese non solo quando il richiedente asilo adduca gravi motivi relativi a una sua situazione particolare. Il giudice «non si sostituisce all’autorità governativa sconfinando nel fondo di una valutazione discrezionale a questa riservata, ma ha il potere e dovere di esercitare il sindacato di legittimità del decreto» con l’elenco dei Paesi di origine sicuri, dove «esso chiaramente contrasti con la normativa europea e nazionale vigente in materia, anche tenendo conto di informazioni sui Paesi di origine aggiornate al momento della decisione, secondo i principi in tema di cooperazione istruttoria». In caso di contrasto con le norme citate, il giudice può «disapplicare», limitatamente a questa parte, il decreto stesso.

Invece, se il richiedente asilo ha «adeguatamente dedotto l’insicurezza nelle circostanze specifiche» in cui si troverebbe nel suo Paese d’origine, «non si pone un problema di disapplicazione del decreto ministeriale». In questo caso, il giudice deve accertare se queste circostanze sussistono, che diventano così rilevanti per valutare l’esistenza di «gravi motivi» personali che vanno considerati in sede di concessione della protezione al richiedente asilo.