Foucault negli interstizi del potere (doppiozero.com)

di Michele Ricciotti

All’inizio di Les mots et les choses Foucault 
scriveva che, per la ragione classica, il folle 
è l’uomo delle “somiglianze selvagge”, colui che 
ravvisa analogie là dove la ragione imporrebbe 
di individuare nient’altro che differenze. 

Ai sistemi di “assoggettamento” dei folli, come è noto, Foucault aveva già dedicato un’importante opera nel 1961.

Nasceva lì un’attitudine critica peculiare del metodo foucaultiano, finalizzata non tanto a contestare questo o quel sistema di potere, quanto a scavare tra gli interstizi del potere in quanto tale.La questione della critica diventerà oggetto esplicito di riflessione nella celebre conferenza tenuta nel 1978 alla Société française de Philosophie, dalla cui lettura si ricava anzitutto che il titolo “indecente” che Foucault aveva inizialmente pensato di darle era “Che cos’è l’illuminismo?”, con un chiaro omaggio al testo di Kant attorno a cui, nel corso della conferenza, Foucault non cessa mai di orbitare.
Il titolo scelto per la pubblicazione francese postuma sarà invece Qu’est-ce que la critique? e proprio con il titolo Che cos’è la critica? viene ora pubblicato in una nuova edizione italiana (prima era stato pubblicato in Illuminismo e critica, a cura di P. Napoli, Donzelli, Roma 1997), arricchita dal testo del manoscritto foucaultiano, che completa il discorso effettivamente pronunciato dal filosofo francese, e da alcuni interventi tenuti da Foucault all’università di Berkeley in California, raccolti, nella seconda parte del volume, sotto il titolo “La cultura di sé” (M. Foucault, Che cos’è la critica?, a cura di A. Di Gesu e M. Polleri, introduzione e apparato critico di D. Lorenzini e A. I. Davidson, DeriveApprodi, Bologna 2024).
Esiste la critica d’arte, la critica letteraria e cinematografica. Ancora, ci sono critici musicali e critici gastronomici. Ma esiste la critica qua talis? Nel corso degli anni ’70 Foucault aveva già mostrato come la critica, rivolta ai dispositivi di potere, possa produrre un dislocamento rispetto a tali sistemi di assoggettamento.
Nella conferenza del 1978, però, egli sembra rivolgersi alla questione del potere non soltanto come dispositivo rivolto alla “governamentalizzazione”, ma come sistema di produzione di senso. In questa conferenza più che in altri testi foucaultiani la partita si gioca sul campo di quella che Enrico Redaelli, in un saggio del 2011, ha chiamato la “semiotica del potere” (E. Redaelli, L’incanto del dispositivo. Foucault dalla microfisica alla semiotica del potere, Ets, Pisa 2011).
Potremmo porre la questione con una domanda che ha a sua volta una lunga vicissitudine post-foucaultiana: che cos’è un dispositivo? È soltanto ciò che produce assoggettamento politico o è ogni movimento di desoggettivazione e risoggettivazione? In altri termini: è qualcosa che riguarda soltanto il funzionamento del potere comunemente inteso oppure investe il potere come meccanismo di produzione di senso?
E se è vero questo secondo corno della questione, la critica non dovrà rivolgersi anzitutto al linguaggio? E per sottoporre a critica il linguaggio, la critica deve essere fuori o dentro il linguaggio? Foucault risponde: «la critica è il movimento attraverso il quale il soggetto si dà il diritto di interrogare la verità sui suoi effetti di potere e il potere sui suoi discorsi di verità» (p. 37). Già, ma chi è il soggetto che si arroga tale diritto?
Non è forse anch’esso un “effetto di potere”?Non bisogna cadere nell’illusione secondo cui il potere si “applicherebbe” a dei soggetti già belli e formati: il potere produce assoggettamento in tanto e per quel tanto che produce soggettivazione. Esso crea soggetti e li crea sulla base di pratiche di archiviazione, di scrittura: non esiste l’oggetto “popolo” e poi la sua organizzazione politica, il popolo nasce nel momento in cui nasce una demo-grafia (Redaelli 2011, p. 135).
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Foucault ha sempre insistito sul fatto che il metodo critico-archeologico non è la risalita verso un’origine individuata come causa del prodursi di ordini discorsivi, e anche in Che cos’è la critica? lo ribadisce: «in tali analisi non si tratta di riportare a una causa un insieme di fenomeni derivati, ma di rendere intelleggibile una positività singolare in ciò che ha di singolare» (p. 54).

È in questo gesto che l’indagine di Foucault si riannoda a quella di Kant. Foucault assume pienamente l’istanza della critica kantiana integrata dal progetto della sua Aufklärung, quello di «conoscere la conoscenza» (p. 40), e poco importa che in Kant l’autonomia della conoscenza e della volontà si manifesti in tutt’altro che nella disobbedienza ai sovrani.Il “disassoggettamento” prodotto dalla critica kantiana non è la contestazione di questa o quella forma politica, ma la presa di distanza dai dispositivi che producono verità.
Lo “stato di minorità” da cui l’illuminismo ha il compito di farci uscire è l’immersione in un reticolo di effetti di verità di cui si è perso di vista il contenuto storico. Se il potere si manifesta in effetti di verità, in creazioni di senso, allora il compito della critica è quello di “evenemenzializzare” (p. 49) tali verità, di disvelarne l’infondatezza restituendole alla contingenza che è loro propria.
Non c’è niente di più distante da Foucault della semplice contestazione del “sistema”, come se il potere fosse una sostanza immobile e la critica fosse rivolta a contenuti determinati che di tale sostanza sarebbero l’espressione.
Ritorna qui la domanda circa l’ulteriore dislocazione che una critica davvero radicale dovrebbe poter operare. Se il potere è un dispositivo di produzione di senso, cosa ci garantisce che la stessa critica non agisca come espressione del potere? Per portare la critica fino in fondo non è forse necessario “evenemenzializzare” la stessa critica? Non è lo stesso metodo critico-genealogico-archeologico produttore di senso, di determinati effetti di verità e quindi, in ultima analisi, una pratica di assoggettamento?
La critica produce sì una desoggettivazione dagli effetti di verità del dispositivo che è oggetto della critica, ma chi garantisce che tale desoggettivazione non corrisponda a una risoggettivazione, alla sottomissione ad un altro sistema di potere, con i suoi effetti di verità arbitrari e infondati tanto quanto i precedenti?
Foucault non pone mai la questione in maniera così diretta, ma la conferenza del ’78 è probabilmente il luogo in cui il suo invito a porla suona come quanto mai pressante. La riflessione foucaultiana sembra qui riagganciarsi ad alcune delle intuizioni dell’Archeologia del sapere – là dove ogni enunciato veniva considerato come un evento, come l’emersione spontanea da un reticolo di pratiche che ne costituivano le condizioni di possibilità – ma anche a ciò che scriveva l’anno prima di pronunciare la nostra conferenza.

Nella celebre prefazione all’edizione americana dell’Anti-Edipo di Deleuze e Guattari Foucault scriveva che i due autori esprimevano una così radicale critica dei sistemi di potere da tentare addirittura di «neutralizzare gli effetti di potere legati al loro discorso», lasciando per lo più incerto se tale tentativo fosse fatuo oppure meritevole di essere perseguito.

Nella conferenza di Berkeley pronunciata a un anno dalla morte e contenuta nella seconda parte di questa nuova edizione italiana di Che cos’è la critica?, Foucault torna sul tema, proponendo una distinzione tra l’ontologia formale, animata dalle classiche domande relative a “che cos’è la verità?” o “come si può raggiungere la verità?” e un’altra forma di ontologia, un’“ontologia storica” rivolta alla contemporaneità e che si pone domande più misurate come “qual è l’obiettivo della nostra attività filosofica nella misura in cui apparteniamo alla nostra attualità?” (p. 77).

Questa biforcazione all’interno dell’ontologia è, così come l’intero problema dell’Aufklärung e della critica, di nuovo un’eredità kantiana e sembra fare eco a quel celebre adagio della Critica della ragion pura in cui Kant invitava a rinunciare al nome “orgoglioso di ontologia” per fare posto a quello, più modesto, di “analitica dell’intelletto puro”. Un’ontologia storica è quella a cui Foucault mira; un’ontologia capace di contestare le sue stesse pretese ontologiche. In altri termini, una critica capace di dislocarsi anche rispetto a se stessa.

Democrazia e ingerenza (dis)informata (corriere.it)

di Aldo Grasso

Padiglione Italia

Le continue ingerenze di Elon Musk in Europa (Roma, Berlino, Londra) ci inducono a riflettere sulla buona salute delle democrazie liberali.

Non ci sono solo dittature, autocrazie, teocrazie a osteggiarle; le nuove tecnologie in mano agli oligarchi della comunicazione hanno creato un nuovo scenario che sta ridefinendo l’identità stessa di democrazia.

Manipolazioni, disinformazione, troll, deepfake, falsi profili creati dell’AI più veri del vero ci accompagnano nell’ombra durante tutta la giornata, anche in quella delle votazioni. Il 2024 è stato il «super anno elettorale» perché due miliardi di persone sono state chiamate alle urne. Che si voti è un bene, ma con quale consapevolezza andiamo a votare?

Propaganda

Fake news, falsi profili e troll mettono in dubbio il voto consapevole

Da quando i social sono diventati una fonte primaria d’informazione, da quando gli algoritmi hanno un nome e cognome, nella formazione dell’opinione pubblica i fatti oggettivi sono meno influenti degli appelli all’emozione o delle convinzioni personali alimentate spesso da fake news; in questo contesto il concetto di verità diventa irrilevante. Le opinioni contano più della realtà.

La propaganda, la distorsione dei fatti a fini politici, è sempre esistita ma oggi ci troviamo di fronte a una sorta di salto di specie globale indotto dalla rivoluzione digitale: siamo tutti più fragili, malleabili e inconsapevoli.

Scarti umani – Elena Basile 04.01.25 (diario.world)

L’ex ambasciatrice ⁠Elena Basile contro Cecilia Sala e Il Foglio: “Il suo giornale l’ha mandata allo sbaraglio in Iran senza protezioni. Lei e l’iraniano arrestato in Italia? Ugualmente criminali” (mowmag.com)

di Jacopo Tona

L’ex ambasciatrice Elena Basile interviene sulla 
vicenda di Cecilia Sala incarcerata in Iran e 
critica il giornale per cui la giornalista 
stava lavorando: “Mandata allo sbaraglio 
senza protezioni”. 
E poi attacca l’Occidente: “Perché i media parlano delle prigioni iraniane ma mai di quelle americane?”
Elena Basile, diplomatica italiana, ex ambasciatrice in Svezia e Belgio, nota anche per le sue pubblicazioni e i suoi interventi su temi politici e sociali, ha dato la sua versione sul caso di Cecilia Sala con un commento pubblicato dal Fatto Quotidiano.
La Basile, nell’articolo in questione, affronta con toni duri e appassionati il tema della manipolazione mediatica e degli interessi geopolitici occidentali. La giornalista incarcerata in Iran viene presentata come vittima indiretta di un gioco di potere più ampio, in cui la sua figura diventa strumentale per rafforzare una narrativa di parte.
Basile scrive: “Una giovane giornalista, Cecilia Sala, mandata allo sbaraglio e non protetta sufficientemente dal suo giornale, è stata arrestata dall’Iran come pedina di scambio per un altro arresto, ugualmente criminale, nei confronti di un imprenditore che vendeva tecnologia a Teheran”.
L’ex ambasciatrice evidenzia come il caso di Sala sia emblematico della strumentalizzazione delle singole vicende umane all’interno di strategie geopolitiche. Secondo Basile, infatti, la giovane giornalista è stata utilizzata come pedina in uno scambio tra potenze, senza che vi fosse una reale attenzione alla sua protezione o alla sua situazione personale.

Cecilia Sala(Cecilia Sala)

Ciò che conta, per Basile, è come il caso di Cecilia Sala possa essere raccontato e sfruttato mediaticamente per avvalorare certe posizioni politiche. È in questo contesto che viene messa in luce l’ipocrisia dei media occidentali, pronti a denunciare con vigore le violazioni dei diritti umani in Iran, ma silenziosi di fronte ad altrettante violazioni da parte degli alleati degli Stati Uniti: “I pasdaràn, recita Washington, grazie alla tecnologia dell’imprenditore avrebbero ucciso soldati statunitensi.
Ci sarebbe da ridere. I manager di Leonardo e delle tante imprese occidentali che vendono armi nei teatri di guerra di quante morti sono allora responsabili?”. Basile denuncia con fermezza quella che definisce una sorta di “classe di servizio” dell’Occidente, accusata di coprire le responsabilità dell’espansionismo atlantico e di giustificare le atrocità con una narrazione parziale e manipolata.
Secondo l’autrice, i media e la diplomazia europea applicano “doppi standard”, condannando le carceri iraniane ma tacendo sulle esecuzioni e sulle condizioni delle prigioni statunitensi. Questo doppio binario comunicativo, per Basile, rappresenta uno dei pilastri della propaganda che mantiene intatta l’egemonia dell’“impero atlantico”.

Elena Basile(Elena Basile)

Lvicenda di Cecilia Sala, dunque, diventa un tassello di un discorso più ampio sulla “mistificazione della realtà operata dai media occidentali”. Basile accusa apertamente la stampa di aver smarrito la propria funzione originaria di controllo del potere, piegandosi invece agli interessi delle élite politiche ed economiche.
La narrazione intorno all’arresto di Sala, secondo Basile, non è guidata da un’autentica preoccupazione per i diritti umani, ma è funzionale a rafforzare un preciso schema interpretativo che dipinge alcuni governi come “terroristi” e altri come “difensori della libertà”. Nel suo ragionamento, l’autrice allarga poi il discorso, collegando la vicenda personale della giornalista italiana ai più ampi scenari di guerra e destabilizzazione politica in Medio Oriente e in Europa orientale.
La critica si estende all’ipocrisia delle leadership europee e al loro allineamento con le strategie statunitensi, specialmente in Ucraina e nel Caucaso. “L’Europa può finanziare insieme agli Stati Uniti rivoluzioni colorate e negare il risultato di elezioni la cui regolarità è stata riconosciuta dall’Osce”. Questa frase sottolinea come, secondo Basile, l’Occidente agisca senza scrupoli quando si tratta di preservare i propri interessi strategici.
L’appello finale di Basile è accorato: invita a “rompere il silenzio” su ciò che sta accadendo a Gaza, in Ucraina e in altri teatri di guerra.
Denuncia l’apatia delle classi dirigenti e la complicità degli intellettuali, accusati di non avere il coraggio di sfidare la narrativa dominante. E mentre i giornalisti come Cecilia Sala diventano simboli involontari di queste dinamiche, la vera responsabilità, per Basile, ricade su chi avrebbe dovuto proteggerli e invece li ha abbandonati a un destino già scritto.
La diplomatica conclude con un appello: “In nome delle vittime applichiamoci alla verità, senza false indulgenze, perché questo è il tempo della denuncia e della giustizia”.

Ma perché ora le femministe non gridano all’Iran “liberate Cecilia”? (ildubbio.news)

di Davide Varì

Le “sentinelle” del MeToo tacciono di fronte al 
“rapimento” di Cecilia Sala da parte di uno Stato 
islamico che teorizza, codifica e istituzionalizza 
la sottomissione delle donne a leggi morali decise 
da uomini

Dove sono le femministe?

Dove sono le sentinelle del MeToo, quelle pronte a incendiare l’agorà digitale con le loro campagne? Perché tacciono di fronte al “rapimento” di Cecilia Sala da parte di uno Stato islamico che teorizza, codifica e istituzionalizza la sottomissione delle donne a leggi morali decise da uomini?

Tacciono. Forse non sanno cosa dire, forse il vocabolario non prevede voci per l’Iran, per la violenza patriarcale (stavolta sì) che si nasconde dietro le barbe degli ayatollah.

Cecilia Sala è stata presa. Non arrestata, ché arrestare è un verbo urbano, ordinato, quasi educato. Qui c’è un rapimento con tanto di timbro e carta intestata dello Stato islamico. “Violazione della legge della Repubblica islamica dell’Iran” – così recita il comunicato, una litania burocratica che pretende di sostituire la realtà con la sua caricatura.

Ma non è solo questo il punto. Il vero punto è il silenzio. Un silenzio che diventa assenza, un vuoto che nasconde l’ipocrisia con l’esibizione della retorica. Ed è anche pigrizia intellettuale di un movimento prigioniero di schemi manichei.

Dove sono le voci indignate? Quelle che gridano, spesso giustamente, per ogni ombra di maschilismo occidentale ma che si inceppano davanti a un regime che chiama “polizia morale” i suoi aguzzini? Dov’erano quando Mahsa Amini è stata uccisa perché il suo hijab non era abbastanza “ordinato”?

E il 7 ottobre, quando Hamas ha fatto della violenza sessuale un’arma politica? Dov’erano il 7 ottobre? Dove sono per Nasrin Sotoudeh, per le donne e gli uomini capaci di sfidare la brutalità di un regime che invoca Dio anche quando appende al cappio di una gru 800 persone l’anno, colpevoli di non essersi sottomesse?

Questo silenzio, questa amnesia non è casuale. È complice. Le donne schiacciate dagli ayatollah? Pazienza, il nemico è altrove. Cecilia Sala sequestrata? Si abbassa lo sguardo.

Ma il silenzio non è mai innocuo. Ogni volta che scegliamo di tacere rinunciamo a un pezzo della nostra libertà. E un giorno, inevitabilmente, qualcuno ci presenterà il conto. Un conto che nessuna retorica, nessun hashtag, potrà mai ripagare.

Cecilia Sala arrestata in Iran

Il ritorno di Philomena Cunk, e l’arte di sfottere gli scemi del villaggio globale (linkiesta.it)

di

L’avvelenata

Vengo dopo il PhD

In questo miserabile secolo, i peggio tonti son quelli che pensano di essere colti perché aprono Google e seguono sui social gli accademici. Il creatore di “Black Mirror” lo ha capito e ha rilanciato su Netflix un personaggio che fa domande imbecilli agli scienziati, facendoli rispondere seriamente

Se dio sa tutto quel che pensiamo, non rappresenta un incubo per il garante della privacy? E questo dio con un caratteraccio che vuole dettare lui le regole, non sarà un narcisista tossico? E, se non è provata né l’esistenza di dio né quella di suo fratello, chi ci dice che l’universo non l’abbia creato il fratello?

Mosè era l’influencer di maggior successo ai tempi dell’Antico Testamento? Com’è possibile che a Michelangelo non colasse la pittura negli occhi dipingendo un soffitto? È più difficile entrare nel regno dei cieli dopo la Brexit?

I sei giorni in cui sarebbe stato creato l’universo sembrano pochi solo perché non teniamo conto che dio non veniva continuamente interrotto dalle notifiche dell’iPhone? E come ha fatto dio a ridurre i comandamenti a solo dieci, quando i termini e le condizioni che devi accettare per usare l’iPhone sono molti di più?

Philomena Cunk è tornata, credo arrivi su Netflix domani per noialtri del continente, ma gli inglesi che son più fortunati hanno potuto finire l’anno con “Cunk on life”. È tornata, e io ho finalmente capito come è venuta l’idea a quel gran genio di Charlie Brooker, che oltre a Cunk si è inventato “Black Mirror”, il che temo ne faccia l’autore televisivo più rilevante di questo miserabile secolo, con gli altri concorrenti al titolo alcuni chilometri più indietro.

L’idea la capisco sentendo Cunk domandare a un accademico «Il mio amico Paul ha cercato di creare una nuova forma di vita inserendo il suo dna in un grappolo d’uva, ma a metà dell’esperimento il fruttivendolo l’ha picchiato: perché la scienza è così controversa?».

È ovvio che Charlie Brooker ha fatto un giro sull’internet e, osservando gli account dei professori, e si è reso conto dell’ovvietà che più fa disperare chiunque abbia una qualche specializzazione e un seguito social: i peggio scemi non son mica quelli che li accusano d’essere al soldo delle multinazionali, i peggio scemi son quelli che pensano la combinazione di avere Google e seguire sui social gli accademici li renda persone colte.

«Sapeva che solo il quaranta per cento degli esseri umani ha uno scheletro?» «Dove ha preso questa cifra?». Ogni volta che Brooker manda in onda una nuova Philomena Cunk, qualche intervistatore gli domanda come convinca gli scienziati a rispondere seriamente a una che fa domande così imbecilli, e io mi domando in che secolo vivano questi intervistatori.

L’altro giorno un tizio che sui social si presenta col PhD nel nome ha rilanciato come seria presa di posizione sui medicinali per dimagrire la foto cui Elon Musk, vestito da Babbo Natale, aveva apposto la didascalia «Ozempic Santa». Non è tutta colpa sua, porello: è tutt’un complesso di cose che fa sì che nessuno riesca a rendersi conto che il troll in chief è appunto il troll in chief, e un giorno è a favore dell’Ozempic e un giorno è contro, e un giorno dice che lo prende e un giorno che bisogna smettere.

Se non lo facesse evidentemente per trollare, sarebbe anche una posizione sana di mente: solo in un secolo di curve da stadio si pensa che si debba avere un’idea inamovibile su farmaci che esistono da così poco tempo che nessuno ha certezze circa il rapporto tra costi e benefici.

Un giorno ti dicono che questa puntura oltre a farti dimagrire previene l’Alzheimer, il giorno dopo che ti farà sì dimagrire ma forse diventi cieco. C’è uno studio per tutto, qualunque cosa tu voglia dimostrare, è l’effetto dell’aver fatto laureare troppa gente: studi che dimostrano qualunque cosa e il contrario di quella cosa, e gente coi PhD nella bio social.

Comunque. Sotto all’account del tizio c’è gente che usa alate parole quali «una persona che al contrario suo ha fatto dello studio e della scienza la sua vita» (intende al contrario mio, rispondeva a me che osavo ridere, Franti che sono); gente che si percepisce diversissima da chi pensa che coi vaccini iniettino dei microchip, e questa gente con un po’ di fortuna arriverà a una serena vecchiaia senza mai accorgersi d’essere Philomena Cunk; c’è gente, anch’essa coi PhD nel nome, che ti redarguisce, se provi cortesemente a spiegarle che Musk va letto con un po’ di senso del tono, perché mica puoi conoscere il tono «da un testo. Senza un suono» (avrei una modesta proposta, ma non la formulo).

C’è gente che – se provi a spiegarle che è la prospettiva fotografica a slanciarlo, Musk non può aver perso dieci chili in tre giorni, non potrebbe averlo fatto con le app di somatic yoga che mi pubblicizza Instagram promettendomi miracoli analoghi e non può averlo fatto col Mounjaro che dice di prendere, Mounjaro che come tutte ’ste iniezioni ti fa mangiare un po’ meno ma insomma mica è una pozione magica – risponde così: «Non è come dici: quei farmaci sono “antagonisti del GLP-1”[,] agiscono stimolando la produzione d’insulina. Non “fanno mangiare un po’ meno”».

Pensa essere uno che non ha capito come funzioni il corpo umano ma crede di sapere come funzioni un medicinale. Pensa crederlo solo perché Google non ti ha detto che la ragione per cui dimagrisci è che se lo stomaco si svuota più lentamente mangi meno (non te l’ha detto entro le prime dieci righe, e all’undicesima sei stanco, come Philomena dopo che il suo dna ha tanto lavorato), ma ti ha insegnato la formuletta «antagonisti del GLP-1».

Pensa pensare che con l’insulina alta si sia automaticamente magri, e quindi che non esistano diabetici magri. Pensa essere Philomena Cunk, ma percepirsi informato anzi istruito anzi colto.

È un concorso in scemenza aggravato, perché il povero Brocco81 che commenta sotto PhD è lì per imparare: s’illude che, se dicesse delle castronerie enormi, PhD lo correggerebbe. Dopotutto, i Nobel intervistati da Philomena Cunk mica le lasciano dire che se non pieghi mai le ginocchia puoi vivere otto anni più a lungo.

Ma su Twitter (o come si chiama ora il parco giochi del troll in chief) PhD mica sta lavorando; al massimo, dopo aver fatto il suo spiritosissimo post, si riaffaccia per contarsi i cuoricini: mica è in uno studio televisivo a registrare una trasmissione di genio, è gratis in un parco giochi per scemi, lascia che si scannino tra di loro nei commenti, tanto anche se non sanno come funziona l’Ozempic il mondo va avanti uguale.

Non si può principiare il culturale sui social, lo sanno tutti, anche quelli che si dicono divulgatori e sostengono di essere lì solo per quello. Sono lì perché, avendo una presenza visibile lì, fattureranno un po’ di più altrove, ma nessuno che abbia un mestiere s’illude che i social siano diversi da quella domanda che Cunk fa a un accademico: «“Delitto e castigo” affronta la libertà individuale, il ruolo dell’autorità, le complessità della morale: quante stelline gli darebbe da una a dieci?».

Se, sotto al tweet su Musk e l’Ozempic, sotto ai commenti inattrezzati, PhD tornasse a spiegargli perché i farmaci per dimagrire fanno dimagrire, ad adempiere al ruolo di dodicesima riga di Google, l’effetto sarebbe quello della canzoncina dei Muppets con cui Brooker fantastica che Netflix voglia convincere i ragazzini a non buttarsi dal cornicione.

L’ultima illusione che rimane a quelli che commentano i post di chi s’è incomodato a laurearsi convinti di sembrare intelligenti per adiacenza è quella di non essere Philomena Cunk nella scena in cui trasecola per “Il trionfo della morte” di Bruegel, ma come avrà fatto a dipingere prima che gli scheletri portassero via anche lui, e una professoressa di storia dell’arte le spiega pazientemente che è una scena di fantasia, e lei sospira: mi terrorizza quanto stia diventando sofisticata la disinformazione.

L’altro giorno Roberto Burioni ha annunciato nella sua pagina Facebook il rischio di cancellazione del previsto dibattito televisivo tra lui e un suo detrattore, dibattito il format del quale prevedeva che il telespettatore potesse «esprimere con il televoto la sua preferenza e decretare chi ha ragione tra i due, una procedura validata da studi consolidati svolti all’università di Gerusalemme sotto la direzione del prof. P. Pilatus».

Il povero Burioni pensava che il nome di Pilato fosse un’indicazione di tono sufficiente, ma mai sottovalutare gli adepti della scienza convinti che il tono delle parole scritte sia scientificamente impossibile da capire, ed ecco che arrivano i commenti della curva burionica di tifoseria.

«Tipicamente post fatto proprio per far cancellare l’incontro in diretta, io andrei avanti», «È la volta che riaccendo la tv», «Professore chi scrive è un medico ma perché dobbiamo sempre abbassarci a spiegare ciò che secondo me è indiscutibilmente e scientificamente vero?».

È tutto un complesso di cose, che da diciassette anni di social ci costringe ogni giorno a constatare che quelli che tifano per noi son persino più scemi di quelli che tifano per l’avversario. «La maggior parte della gente non è infelice come Van Gogh: è infelice come sé stessa», nelle immortali parole della mia filosofa di riferimento.

«Nietzsche ha detto che dio è morto, e ora è morto anche lui: chi è il prossimo? Ha fatto il nome dell’assassino?»: Philomena Cunk, invece di commentare le bacheche degli accademici, li va a intervistare, e a quelli tocca restare seri mentre lei domanda se dio si sia suicidato.

Il più formidabile editoriale mai scritto a proposito di social e divulgazione è Philomena che chiede a un professore «Le sto facendo perdere tempo?», e quello risponde «Sì» (i professori vanno da Brooker come le persone sane di mente vanno su Twitter: pur di non lavorare).

«La maggioranza degli uomini conduce vite di silenziosa disperazione», diceva quel tizio due secoli fa, quando la disperazione non s’era ancora fatta rumorosissima; «Il centosedici per cento dei nostri spettatori ha perso ogni speranza», fa dire Brooker a una dirigente di Streamberry, la Netflix fittizia con cui si concede il lusso di prendere per il culo la vera Netflix in prodotti pagati dalla vera Netflix.

È Charlie Brooker l’ultima politique des auteurs rimasta? Io, che non aspetto mai niente, aspetto solo “Black Mirror”, che nel 2025 finalmente avrà una nuova stagione: Brooker mi pare l’ultimo cui dare fiducia, l’ultimo che pensa alle idee invece che al consenso, alle idee invece che ai cuoricini, alle idee invece che a posizionarsi dalla parte dei buoni. Il dettaglio interessante è che lo fa per un pubblico che è sempre più imbecille, e quindi sta attento a fargli notare il meno possibile che è un po’ meno imbecille di loro, altrimenti si mettono sulla difensiva.

Non arriva a segnalare il PhD in bio, Brooker, pur di sembrare uno di loro; in compenso li convince che Philomena Cunk non sia mica una di loro che dicono cose imbecilli ma che li fanno autopercepire intelligenti, cose come «credo nella scienza», macché. Li convince che somigli a quegli altri, quelli che usano parole come «sierati» e «giornaloni», quelli che sono esplicitamente scemi invece che implicitamente.

È un trucco che conosce chiunque sappia fare la commedia, da Paolo Villaggio in su e in giù: mai far pensare che stai ridendo di loro, sempre del vicino di posto. Nelle immortali parole di Philomena Cunk: siamo sicuri che, se facciamo sentire un podcast a un cadavere, non ne assorba niente?