Foucault negli interstizi del potere (doppiozero.com)
All’inizio di Les mots et les choses Foucault scriveva che, per la ragione classica, il folle è l’uomo delle “somiglianze selvagge”, colui che ravvisa analogie là dove la ragione imporrebbe di individuare nient’altro che differenze.
Ai sistemi di “assoggettamento” dei folli, come è noto, Foucault aveva già dedicato un’importante opera nel 1961.
Foucault ha sempre insistito sul fatto che il metodo critico-archeologico non è la risalita verso un’origine individuata come causa del prodursi di ordini discorsivi, e anche in Che cos’è la critica? lo ribadisce: «in tali analisi non si tratta di riportare a una causa un insieme di fenomeni derivati, ma di rendere intelleggibile una positività singolare in ciò che ha di singolare» (p. 54).
Nella celebre prefazione all’edizione americana dell’Anti-Edipo di Deleuze e Guattari Foucault scriveva che i due autori esprimevano una così radicale critica dei sistemi di potere da tentare addirittura di «neutralizzare gli effetti di potere legati al loro discorso», lasciando per lo più incerto se tale tentativo fosse fatuo oppure meritevole di essere perseguito.
Nella conferenza di Berkeley pronunciata a un anno dalla morte e contenuta nella seconda parte di questa nuova edizione italiana di Che cos’è la critica?, Foucault torna sul tema, proponendo una distinzione tra l’ontologia formale, animata dalle classiche domande relative a “che cos’è la verità?” o “come si può raggiungere la verità?” e un’altra forma di ontologia, un’“ontologia storica” rivolta alla contemporaneità e che si pone domande più misurate come “qual è l’obiettivo della nostra attività filosofica nella misura in cui apparteniamo alla nostra attualità?” (p. 77).
Democrazia e ingerenza (dis)informata (corriere.it)
di Aldo Grasso
Padiglione Italia
Le continue ingerenze di Elon Musk in Europa (Roma, Berlino, Londra) ci inducono a riflettere sulla buona salute delle democrazie liberali.
Non ci sono solo dittature, autocrazie, teocrazie a osteggiarle; le nuove tecnologie in mano agli oligarchi della comunicazione hanno creato un nuovo scenario che sta ridefinendo l’identità stessa di democrazia.
Manipolazioni, disinformazione, troll, deepfake, falsi profili creati dell’AI più veri del vero ci accompagnano nell’ombra durante tutta la giornata, anche in quella delle votazioni. Il 2024 è stato il «super anno elettorale» perché due miliardi di persone sono state chiamate alle urne. Che si voti è un bene, ma con quale consapevolezza andiamo a votare?
Propaganda
Fake news, falsi profili e troll mettono in dubbio il voto consapevole
Da quando i social sono diventati una fonte primaria d’informazione, da quando gli algoritmi hanno un nome e cognome, nella formazione dell’opinione pubblica i fatti oggettivi sono meno influenti degli appelli all’emozione o delle convinzioni personali alimentate spesso da fake news; in questo contesto il concetto di verità diventa irrilevante. Le opinioni contano più della realtà.
La propaganda, la distorsione dei fatti a fini politici, è sempre esistita ma oggi ci troviamo di fronte a una sorta di salto di specie globale indotto dalla rivoluzione digitale: siamo tutti più fragili, malleabili e inconsapevoli.
Scarti umani – Busacca 06.01.25 (diario.world)
Scarti umani – Elena Basile 04.01.25 (diario.world)
L’ex ambasciatrice Elena Basile contro Cecilia Sala e Il Foglio: “Il suo giornale l’ha mandata allo sbaraglio in Iran senza protezioni. Lei e l’iraniano arrestato in Italia? Ugualmente criminali” (mowmag.com)
di Jacopo Tona
L’ex ambasciatrice Elena Basile interviene sulla vicenda di Cecilia Sala incarcerata in Iran e critica il giornale per cui la giornalista stava lavorando: “Mandata allo sbaraglio senza protezioni”.
(Cecilia Sala)
(Elena Basile)
Ma perché ora le femministe non gridano all’Iran “liberate Cecilia”? (ildubbio.news)
di Davide Varì
Le “sentinelle” del MeToo tacciono di fronte al “rapimento” di Cecilia Sala da parte di uno Stato islamico che teorizza, codifica e istituzionalizza la sottomissione delle donne a leggi morali decise da uomini
Dove sono le femministe?
Dove sono le sentinelle del MeToo, quelle pronte a incendiare l’agorà digitale con le loro campagne? Perché tacciono di fronte al “rapimento” di Cecilia Sala da parte di uno Stato islamico che teorizza, codifica e istituzionalizza la sottomissione delle donne a leggi morali decise da uomini?
Tacciono. Forse non sanno cosa dire, forse il vocabolario non prevede voci per l’Iran, per la violenza patriarcale (stavolta sì) che si nasconde dietro le barbe degli ayatollah.
Cecilia Sala è stata presa. Non arrestata, ché arrestare è un verbo urbano, ordinato, quasi educato. Qui c’è un rapimento con tanto di timbro e carta intestata dello Stato islamico. “Violazione della legge della Repubblica islamica dell’Iran” – così recita il comunicato, una litania burocratica che pretende di sostituire la realtà con la sua caricatura.
Ma non è solo questo il punto. Il vero punto è il silenzio. Un silenzio che diventa assenza, un vuoto che nasconde l’ipocrisia con l’esibizione della retorica. Ed è anche pigrizia intellettuale di un movimento prigioniero di schemi manichei.
Dove sono le voci indignate? Quelle che gridano, spesso giustamente, per ogni ombra di maschilismo occidentale ma che si inceppano davanti a un regime che chiama “polizia morale” i suoi aguzzini? Dov’erano quando Mahsa Amini è stata uccisa perché il suo hijab non era abbastanza “ordinato”?
E il 7 ottobre, quando Hamas ha fatto della violenza sessuale un’arma politica? Dov’erano il 7 ottobre? Dove sono per Nasrin Sotoudeh, per le donne e gli uomini capaci di sfidare la brutalità di un regime che invoca Dio anche quando appende al cappio di una gru 800 persone l’anno, colpevoli di non essersi sottomesse?
Questo silenzio, questa amnesia non è casuale. È complice. Le donne schiacciate dagli ayatollah? Pazienza, il nemico è altrove. Cecilia Sala sequestrata? Si abbassa lo sguardo.
Ma il silenzio non è mai innocuo. Ogni volta che scegliamo di tacere rinunciamo a un pezzo della nostra libertà. E un giorno, inevitabilmente, qualcuno ci presenterà il conto. Un conto che nessuna retorica, nessun hashtag, potrà mai ripagare.
Scarti umani – Spuntoni 06.01.25 (diario.world)
Scarti umani – Feltri 06.01.25 (diario.world)
Il ritorno di Philomena Cunk, e l’arte di sfottere gli scemi del villaggio globale (linkiesta.it)
di Guia Soncini
L’avvelenata
Vengo dopo il PhD
In questo miserabile secolo, i peggio tonti son quelli che pensano di essere colti perché aprono Google e seguono sui social gli accademici. Il creatore di “Black Mirror” lo ha capito e ha rilanciato su Netflix un personaggio che fa domande imbecilli agli scienziati, facendoli rispondere seriamente
Se dio sa tutto quel che pensiamo, non rappresenta un incubo per il garante della privacy? E questo dio con un caratteraccio che vuole dettare lui le regole, non sarà un narcisista tossico? E, se non è provata né l’esistenza di dio né quella di suo fratello, chi ci dice che l’universo non l’abbia creato il fratello?
Mosè era l’influencer di maggior successo ai tempi dell’Antico Testamento? Com’è possibile che a Michelangelo non colasse la pittura negli occhi dipingendo un soffitto? È più difficile entrare nel regno dei cieli dopo la Brexit?
I sei giorni in cui sarebbe stato creato l’universo sembrano pochi solo perché non teniamo conto che dio non veniva continuamente interrotto dalle notifiche dell’iPhone? E come ha fatto dio a ridurre i comandamenti a solo dieci, quando i termini e le condizioni che devi accettare per usare l’iPhone sono molti di più?
Philomena Cunk è tornata, credo arrivi su Netflix domani per noialtri del continente, ma gli inglesi che son più fortunati hanno potuto finire l’anno con “Cunk on life”. È tornata, e io ho finalmente capito come è venuta l’idea a quel gran genio di Charlie Brooker, che oltre a Cunk si è inventato “Black Mirror”, il che temo ne faccia l’autore televisivo più rilevante di questo miserabile secolo, con gli altri concorrenti al titolo alcuni chilometri più indietro.
L’idea la capisco sentendo Cunk domandare a un accademico «Il mio amico Paul ha cercato di creare una nuova forma di vita inserendo il suo dna in un grappolo d’uva, ma a metà dell’esperimento il fruttivendolo l’ha picchiato: perché la scienza è così controversa?».
È ovvio che Charlie Brooker ha fatto un giro sull’internet e, osservando gli account dei professori, e si è reso conto dell’ovvietà che più fa disperare chiunque abbia una qualche specializzazione e un seguito social: i peggio scemi non son mica quelli che li accusano d’essere al soldo delle multinazionali, i peggio scemi son quelli che pensano la combinazione di avere Google e seguire sui social gli accademici li renda persone colte.
«Sapeva che solo il quaranta per cento degli esseri umani ha uno scheletro?» «Dove ha preso questa cifra?». Ogni volta che Brooker manda in onda una nuova Philomena Cunk, qualche intervistatore gli domanda come convinca gli scienziati a rispondere seriamente a una che fa domande così imbecilli, e io mi domando in che secolo vivano questi intervistatori.
L’altro giorno un tizio che sui social si presenta col PhD nel nome ha rilanciato come seria presa di posizione sui medicinali per dimagrire la foto cui Elon Musk, vestito da Babbo Natale, aveva apposto la didascalia «Ozempic Santa». Non è tutta colpa sua, porello: è tutt’un complesso di cose che fa sì che nessuno riesca a rendersi conto che il troll in chief è appunto il troll in chief, e un giorno è a favore dell’Ozempic e un giorno è contro, e un giorno dice che lo prende e un giorno che bisogna smettere.
Se non lo facesse evidentemente per trollare, sarebbe anche una posizione sana di mente: solo in un secolo di curve da stadio si pensa che si debba avere un’idea inamovibile su farmaci che esistono da così poco tempo che nessuno ha certezze circa il rapporto tra costi e benefici.
Un giorno ti dicono che questa puntura oltre a farti dimagrire previene l’Alzheimer, il giorno dopo che ti farà sì dimagrire ma forse diventi cieco. C’è uno studio per tutto, qualunque cosa tu voglia dimostrare, è l’effetto dell’aver fatto laureare troppa gente: studi che dimostrano qualunque cosa e il contrario di quella cosa, e gente coi PhD nella bio social.
Comunque. Sotto all’account del tizio c’è gente che usa alate parole quali «una persona che al contrario suo ha fatto dello studio e della scienza la sua vita» (intende al contrario mio, rispondeva a me che osavo ridere, Franti che sono); gente che si percepisce diversissima da chi pensa che coi vaccini iniettino dei microchip, e questa gente con un po’ di fortuna arriverà a una serena vecchiaia senza mai accorgersi d’essere Philomena Cunk; c’è gente, anch’essa coi PhD nel nome, che ti redarguisce, se provi cortesemente a spiegarle che Musk va letto con un po’ di senso del tono, perché mica puoi conoscere il tono «da un testo. Senza un suono» (avrei una modesta proposta, ma non la formulo).
C’è gente che – se provi a spiegarle che è la prospettiva fotografica a slanciarlo, Musk non può aver perso dieci chili in tre giorni, non potrebbe averlo fatto con le app di somatic yoga che mi pubblicizza Instagram promettendomi miracoli analoghi e non può averlo fatto col Mounjaro che dice di prendere, Mounjaro che come tutte ’ste iniezioni ti fa mangiare un po’ meno ma insomma mica è una pozione magica – risponde così: «Non è come dici: quei farmaci sono “antagonisti del GLP-1”[,] agiscono stimolando la produzione d’insulina. Non “fanno mangiare un po’ meno”».
Pensa essere uno che non ha capito come funzioni il corpo umano ma crede di sapere come funzioni un medicinale. Pensa crederlo solo perché Google non ti ha detto che la ragione per cui dimagrisci è che se lo stomaco si svuota più lentamente mangi meno (non te l’ha detto entro le prime dieci righe, e all’undicesima sei stanco, come Philomena dopo che il suo dna ha tanto lavorato), ma ti ha insegnato la formuletta «antagonisti del GLP-1».
Pensa pensare che con l’insulina alta si sia automaticamente magri, e quindi che non esistano diabetici magri. Pensa essere Philomena Cunk, ma percepirsi informato anzi istruito anzi colto.
È un concorso in scemenza aggravato, perché il povero Brocco81 che commenta sotto PhD è lì per imparare: s’illude che, se dicesse delle castronerie enormi, PhD lo correggerebbe. Dopotutto, i Nobel intervistati da Philomena Cunk mica le lasciano dire che se non pieghi mai le ginocchia puoi vivere otto anni più a lungo.
Ma su Twitter (o come si chiama ora il parco giochi del troll in chief) PhD mica sta lavorando; al massimo, dopo aver fatto il suo spiritosissimo post, si riaffaccia per contarsi i cuoricini: mica è in uno studio televisivo a registrare una trasmissione di genio, è gratis in un parco giochi per scemi, lascia che si scannino tra di loro nei commenti, tanto anche se non sanno come funziona l’Ozempic il mondo va avanti uguale.
Non si può principiare il culturale sui social, lo sanno tutti, anche quelli che si dicono divulgatori e sostengono di essere lì solo per quello. Sono lì perché, avendo una presenza visibile lì, fattureranno un po’ di più altrove, ma nessuno che abbia un mestiere s’illude che i social siano diversi da quella domanda che Cunk fa a un accademico: «“Delitto e castigo” affronta la libertà individuale, il ruolo dell’autorità, le complessità della morale: quante stelline gli darebbe da una a dieci?».
Se, sotto al tweet su Musk e l’Ozempic, sotto ai commenti inattrezzati, PhD tornasse a spiegargli perché i farmaci per dimagrire fanno dimagrire, ad adempiere al ruolo di dodicesima riga di Google, l’effetto sarebbe quello della canzoncina dei Muppets con cui Brooker fantastica che Netflix voglia convincere i ragazzini a non buttarsi dal cornicione.
L’ultima illusione che rimane a quelli che commentano i post di chi s’è incomodato a laurearsi convinti di sembrare intelligenti per adiacenza è quella di non essere Philomena Cunk nella scena in cui trasecola per “Il trionfo della morte” di Bruegel, ma come avrà fatto a dipingere prima che gli scheletri portassero via anche lui, e una professoressa di storia dell’arte le spiega pazientemente che è una scena di fantasia, e lei sospira: mi terrorizza quanto stia diventando sofisticata la disinformazione.
L’altro giorno Roberto Burioni ha annunciato nella sua pagina Facebook il rischio di cancellazione del previsto dibattito televisivo tra lui e un suo detrattore, dibattito il format del quale prevedeva che il telespettatore potesse «esprimere con il televoto la sua preferenza e decretare chi ha ragione tra i due, una procedura validata da studi consolidati svolti all’università di Gerusalemme sotto la direzione del prof. P. Pilatus».
Il povero Burioni pensava che il nome di Pilato fosse un’indicazione di tono sufficiente, ma mai sottovalutare gli adepti della scienza convinti che il tono delle parole scritte sia scientificamente impossibile da capire, ed ecco che arrivano i commenti della curva burionica di tifoseria.
«Tipicamente post fatto proprio per far cancellare l’incontro in diretta, io andrei avanti», «È la volta che riaccendo la tv», «Professore chi scrive è un medico ma perché dobbiamo sempre abbassarci a spiegare ciò che secondo me è indiscutibilmente e scientificamente vero?».
È tutto un complesso di cose, che da diciassette anni di social ci costringe ogni giorno a constatare che quelli che tifano per noi son persino più scemi di quelli che tifano per l’avversario. «La maggior parte della gente non è infelice come Van Gogh: è infelice come sé stessa», nelle immortali parole della mia filosofa di riferimento.
«Nietzsche ha detto che dio è morto, e ora è morto anche lui: chi è il prossimo? Ha fatto il nome dell’assassino?»: Philomena Cunk, invece di commentare le bacheche degli accademici, li va a intervistare, e a quelli tocca restare seri mentre lei domanda se dio si sia suicidato.
Il più formidabile editoriale mai scritto a proposito di social e divulgazione è Philomena che chiede a un professore «Le sto facendo perdere tempo?», e quello risponde «Sì» (i professori vanno da Brooker come le persone sane di mente vanno su Twitter: pur di non lavorare).
«La maggioranza degli uomini conduce vite di silenziosa disperazione», diceva quel tizio due secoli fa, quando la disperazione non s’era ancora fatta rumorosissima; «Il centosedici per cento dei nostri spettatori ha perso ogni speranza», fa dire Brooker a una dirigente di Streamberry, la Netflix fittizia con cui si concede il lusso di prendere per il culo la vera Netflix in prodotti pagati dalla vera Netflix.
È Charlie Brooker l’ultima politique des auteurs rimasta? Io, che non aspetto mai niente, aspetto solo “Black Mirror”, che nel 2025 finalmente avrà una nuova stagione: Brooker mi pare l’ultimo cui dare fiducia, l’ultimo che pensa alle idee invece che al consenso, alle idee invece che ai cuoricini, alle idee invece che a posizionarsi dalla parte dei buoni. Il dettaglio interessante è che lo fa per un pubblico che è sempre più imbecille, e quindi sta attento a fargli notare il meno possibile che è un po’ meno imbecille di loro, altrimenti si mettono sulla difensiva.
Non arriva a segnalare il PhD in bio, Brooker, pur di sembrare uno di loro; in compenso li convince che Philomena Cunk non sia mica una di loro che dicono cose imbecilli ma che li fanno autopercepire intelligenti, cose come «credo nella scienza», macché. Li convince che somigli a quegli altri, quelli che usano parole come «sierati» e «giornaloni», quelli che sono esplicitamente scemi invece che implicitamente.
È un trucco che conosce chiunque sappia fare la commedia, da Paolo Villaggio in su e in giù: mai far pensare che stai ridendo di loro, sempre del vicino di posto. Nelle immortali parole di Philomena Cunk: siamo sicuri che, se facciamo sentire un podcast a un cadavere, non ne assorba niente?