Le nuove regole di Meta consentono di accusare le persone gay di essere malate mentali (open.online)

di Antonio Di Noto

La fine del programma di fact checking negli Usa 
non è l'unica novità introdotta ieri dal gigante 
dei social media
Meta non oscurerà i commenti di chi accusa le persone gay e quelle trans di avere malattie mentali.
 La fine del programma di fact checking, al momento solo negli Stati Uniti, non è l’unica novità introdotta dal gigante dei social nelle scorse ore. Secondo le comunicazioni diramate ieri, Instagram, Facebook e Threads «si sbarazzeranno» di limitazioni su argomenti come «immigrazione, identità di genere e questioni di genere», che secondo la compagnia sono «spesso parte del dibattito politico».
«Non è giusto che le cose possano essere dette in Tv o in Parlamento, ma non sulle nostre piattaforme», scrive Meta in un articolo sul proprio blog a firma del capo degli affari internazionali, Joel Kaplan. Quest’ultimo è un convinto repubblicano, che Zuckerberg ha insediato nel ruolo quest’anno, rimpiazzando il britannico Nick Clegg.
Meta: «Permettiamo accuse di malattia mentale basate sul genere»
Il nuovo corso annunciato ieri da Mark Zuckerberg in un chiaro e ulteriore avvicinamento a Donald Trump – che nel 2017 era protagonista della prima notizia falsa corretta dai fact checker, riguardante una presunta fuga di notizie dal suo smartphone – è già evidente nelle politiche comunitarie.
Vi si legge chiaramente: «Permettiamo accuse di malattia mentale o anormalità basate sul genere o sull’orientamento sessuale, dati i discorsi politici e religiosi sul transgenderismo, l’omosessualità e l’uso comune e non serio di parole come “strano”». In altre parole, sembra che Meta ora consenta di accusare le persone gay e trans di avere malattie mentali esclusivamente sulla base del loro orientamento sessuale.

Le limitazioni di genere nelle professioni

Le nuove linee guida del gigante dei social media consentono anche «contenuti che invocano limitazioni basate sul genere di (chi può accedere a, ndr) lavori nell’ambito militare, nelle forze dell’ordine e nell’insegnamento».

Allo stesso tempo, Meta permette anche di riferirsi a determinati spazi e ambiti professionali come esclusivamente dedicati a un solo sesso o genere: «A volte le persone usano un linguaggio esclusivo per il sesso o il genere quando discutono dell’accesso a spazi spesso limitati dal sesso o dal genere. Ad esempio ai bagni, a scuole specifiche, a ruoli specifici nell’esercito, nelle forze dell’ordine o nell’insegnamento, e a gruppi sanitari o di supporto», si legge nelle linee guida.

I fact checker di Meta in Europa

Infine, è stata rimossa la frase con cui le linee guida sull’hate speech si aprivano dal 2018, la quale avvertiva che la violenza online può dare vita a violenza offline. Le novità arrivano dopo il video rilasciato ieri in cui Mark Zuckerberg ha annunciato la fine del programma di fact checking negli Usa. Il fondatore e Ceo di Meta ha parlato esplicitamente di «bias politici dei fact checker» e di «censura istituzionalizzata dall’Unione Europea».

L’alternativa adottata oltreoceano è la stessa che da tempo è utilizzata su X di Elon Musk: le note con cui gli utenti possono segnalare pubblicamente un contenuto che secondo loro è falso è fuorviante.

Al momento, il programma di fact checking di cui fa parte anche Open proseguirà invece in Europa. Infatti, se volesse terminarlo, secondo quanto disposto dal Digital Services Act, il regolamento dell’Ue sui servizi digitali, prima di sbarazzarsi dei fact checker, il gigante dei social dovrebbe assicurarsi che l’alternativa è altrettanto efficace a impedire la diffusione di informazioni false e fuorvianti.

zuckerberg gay malattia mentale

Da Kyiv a Odessa, è nero il cielo sopra l’Ucraina e il suo presidente (ilfoglio.it)

di Adriano Sofri

Piccola posta

La guerra fra sondaggi e cannoni. Domenica Volodymyr Zelensky aveva insistito soprattutto sulle falle nelle sanzioni

In una guerra che si immagina regolare, con due eserciti che si fronteggiano, il ricorso di una parte a espedienti affini alla guerra di guerriglia, soprattutto l’audacia, la sorpresa, l’astuzia, è insieme un’ammissione di debolezza e una rivendicazione di fierezza. Così è per l’offensiva ucraina nel Kursk, indubbiamente audace, e sorprendente solo per aver contato ancora sull’ottusità burocratica dell’esercito russo, incapace di pensare al raddoppio della sorpresa di agosto.

Che abbia rosicchiato qualche chilometro o sia stata fermata, come pretendono le fonti russe, cambia poco: cercava un risultato simbolico, per il morale delle truppe, per quello dei civili ucraini, e per il resto del mondo e i suoi notabili. Vi si svolgono comunque combattimenti accaniti e sanguinosi, e costano carissimi anche alle truppe nordcoreane. La Russia ha appena mandato al comando nel Kursk un suo “sperimentato” generale, Yunus-Bek Yevkurov.

Sul fronte del Donbas, quello della guerra regolare, dunque dell’urto di una massa di artiglierie, veicoli e uomini mandati avanti senza risparmio, cannoni da carne e carne da cannoni, c’è solo la consegna di resistere e ritardare lo sfondamento almeno fino al giorno in cui la responsabilità cadrà addosso al satrapo americano.

Ieri i giornali ucraini informavano dell’ultimo sondaggio ufficiale, col consenso a Zelensky sceso al 52 per cento, 7 punti in meno che a ottobre.

Domenica Zelensky, in un colloquio di tre ore con un podcaster americano, aveva insistito soprattutto sulle falle nelle sanzioni, documentate dalla percentuale di dispositivi di fabbricazione occidentale nei congegni impiegati dai russi in Ucraina.

Lunedì il comandante ucraino delle forze di terra aveva parlato delle difficoltà della Brigata meccanizzata “Anna di Kyiv”, schierata sul fronte di Pokrovsk. Attrezzata e addestrata in Francia, con una forza prevista di 5.800 uomini, di cui meno di 2 mila avevano effettivamente svolto la propria preparazione in Francia, avrebbe registrato la diserzione – l’“assenza non autorizzata” – di 1.700 militari, prima di aver sparato un solo colpo.

“Molte decine” di soldati avrebbero disertato già nel corso del periodo di addestramento in Francia. Il generale ha attribuito le diserzioni alla “paura” e alla mancanza di esperienza di combattimento, e ha riconosciuto che ci sono cause reali, nel reclutamento, nell’addestramento “e in parte anche nelle funzioni di comando”.

Si capisce che le diserzioni sul fronte moltiplichino l’evasione o le resistenze alla mobilitazione nelle retrovie, e gli episodi di violenza dei reclutatori e di ribellione dei reclutandi e dei concittadini.

Ho l’impressione sempre più sconcertante che questa condizione interna, da tempo evidente e del tutto prevedibile a distanza di quasi tre anni, venga deliberatamente o, peggio, stupidamente ignorata nei pensieri e nelle dichiarazioni degli alleati politici dell’Ucraina, in Europa e fuori.

A Odessa, c’è stato un notevole cambiamento nella incresciosa questione della “ridenominazione” delle strade. Il governatore militare, Oleh Kiper, che un mese fa era stato ospite del sindaco di Venezia, ha dichiarato di aver agito, con la decisione sulla cancellazione di oltre cento toponimi storici sostituiti da nomi largamente improvvisati e a volte azzardati, in osservanza a una legge che nel frattempo non è più in vigore.

“Se ho commesso un errore in qualche parte, sono pronto ad ammetterlo, ma a quel tempo la mia posizione era chiaramente definita dalla legge e dovevo agire in conformità con essa”. Mutata la legislazione, ha aggiunto, le comunità locali possono “prendere autonomamente decisioni sulla ridenominazione”.

Sembrerebbe del tutto ragionevole che nella condizione attuale, in cui Odessa – come tante altre città ucraine – è priva di almeno metà della sua gente, mobilitata o espatriata, ogni decisione sulla memoria della città venisse rinviata all’indomani della fine della guerra. 

Ragionevole quanto l’impossibilità di tenere le elezioni presidenziali, che Putin prende a pretesto per proclamare, dal suo pulpito plebiscitario, l’“illegittimità” di Zelensky, e trarne il corollario che con lui non sarà mai possibile negoziare.

La denuncia delle Ong: 31 donne impiccate in Iran lo scorso anno (avvenire.it)

Il regime

Si tratta di una cifra record da quando, nel 2008, l’Ihr ha cominciato a monitorare l’applicazione della pena capitale a Teheran

Sono almeno 31 le detenute nelle carceri iraniane impiccate nel 2024. A denunciarlo è l’organizzazione non governativa Iran Human Rights (Ihr), con sede a Oslo. Si tratta di una cifra record da quando, nel 2008, l’Ong ha cominciato a monitorare l’applicazione della pena capitale in Iran.

“L’esecuzione di donne in Iran rivela il carattere brutale e disumano della pena di morte, e dimostra fino a che punto la discriminazione e la disuguaglianza fra i sessi siano radicate nel sistema giudiziario”, ha dichiarato il direttore dell’Ihr, Mahmoud Amiry-Moghaddam. Tra il 2010 e il 2024 sono state 241 le donne uccise, di cui 114 per omicidio, una buona parte nel famigerato carcere di Evin a Teheran.

Dietro le condanne per omicidio si nascondono spesso “violenze famigliari e abusi sessuali”, ha spiegato Ihr citando il caso di Zahra Esmaili, costretta a un sposare un vicino, funzionario del ministero dell’Intelligence, che l’aveva violentata e messa incinta. Nel 2007, Esmaili aveva ucciso il marito violento con di lei e i suoi figli. La famiglia di lui aveva preteso la condanna a morte, nel 2011, e la madre aveva ottenuto di eseguire personalmente la pena.

Stessa sorte è toccata a Reyhaneh Jabbari, 26 anni, impiccata lo scorso ottobre con l’accusa di avere ucciso un ax agente dei servizi che aveva tentato di violentarla nel 2007, quando aveva solo 19 anni.

Lei aveva negato di avere assassinato il suo aggressore; il suo calvario giudiziario era stato raccontato nel documentario “Sette inverni a Teheran” presentato nel 2023 al festival del cinema di Berlino, ma il clamore mediatico non è bastato a salvarle la vita.

Uno degli ingressi del penitenziario di Evin alle porte di Teheran (Uno degli ingressi del penitenziario di Evin alle porte di Teheran – Ansa)

Rai2 e Bbc: a confronto due modelli di giornalismo da Mosca (msn.com)

di Aldo Grasso

In rete circola un impietoso confronto fra due 
servizi tv da Mosca: l’uno è di Liana Mistretta 
del Tg2 e l’altro di Steve Rosenberg della Bbc. 

Nel primo si dà conto del discorso di fine anno di Putin con toni e immagini agiografiche.

«“Tutto andrà bene, tutto andrà avanti”, afferma Putin fiducioso», dice Mistretta. Si parla dei primi venticinque anni di potere di Putin che, a proposito della guerra contro l’Ucraina, non fa nessun riferimento alla pace ma omaggia i militari al fronte: «veri eroi che garantiscono pace e sicurezza al Paese».

Nel secondo, vengono intervistate persone per strada nelle cui risposte si colgono timori, incertezze e un gran desiderio che la guerra finisca. Commenta Rosenberg: «Mentre la Russia entra nel nuovo anno, la mia impressione generale è questa: quando ero uno studente a Mosca nel 1989-1990, ricordo che c’erano molte persone allora che credevano di avere il potere di cambiare le loro vite, di cambiare il loro Paese in meglio.

Adesso tutto questo è finito. Che sia per paura o per fatalismo o perché ci sono ancora molte persone che credono nella narrazione degli eventi fatta dai media di stato, molti russi vogliono lasciare all’uomo al comando le decisioni sul loro futuro».

Il Tg2 sembra tornato ai tempi delle corrispondenze da Mosca di Marc Innaro, quando si sosteneva la tesi putiniana dell’allargamento a Est della Nato come causa scatenante dell’invasione in Ucraina.

Eppure quando Mosca aveva ordinato l’arresto della bravissima Stefania Battistiniaccusata di essere entrata illegalmente nella regione di Kursk, Viale Mazzini aveva reagito con durezza: «La richiesta di arresto avanzata dalle autorità russe per gli inviati Rai Stefania Battistini e Simone Traini, “colpevoli” di aver svolto con grande professionalità il proprio lavoro… è la dimostrazione di quanto la democrazia e la libera informazione siano valori tanto preziosi quanto irrinunciabili. Il Servizio Pubblico continuerà a compiere con scrupolo, orgoglio e rispetto della verità, in tutti i campi, il proprio dovere di informare i cittadini».

Se da Mosca la Rai ha tutte queste reticenze, non sarebbe meglio chiudere la sede?

Sette dei momenti più scandalosi dei 35 anni di Le Pen al Parlamento europeo (euronews.com)

di Leticia Batista Cabanas & Romane Armangau

Ripercorriamo i momenti più controversi della 
carriera politica e della permanenza di Le Pen 
al Parlamento europeo

Jean-Marie Le Pen è morto questo martedì all’età di 96 anni.

Leader del Front national (Fn), poi ribattezzato Rassemblement national (Rn) quando la figlia Marine ne prese il posto, è stato deputato al Parlamento europeo per 35 anni. Durante questo periodo, ha lasciato un segno indelebile in Parlamento. Dagli insulti alla negazione dell’Olocausto sino ai problemi legali, ecco i momenti più controversi del defunto eurodeputato.

1) “Le camere a gas erano solo un dettaglio della Seconda guerra mondiale”

Da sempre provocatore, Le Pen ha affrontato il tema dell’Olocausto in un’edizione del 1987 del programma Le Grand Jury di RTL. “Non dico che le camere a gas non siano esistite. Ma penso che non siano altro che un dettaglio nella storia della Seconda Guerra Mondiale” ha affermato.

L’indignazione è riemersa al Parlamento europeo nel 2009, dove ha mantenuto la sua posizione: “Resto fermo nella mia posizione e ribadisco che le camere a gas sono solo un dettaglio nella storia della Seconda Guerra Mondiale” ha sbuffato un irritato Le Pen, alzando gli occhi quando la folla di eurodeputati lo ha fischiato sonoramente.

Un’idea che ha ripetuto nel corso dei decenni. Nonostante abbia espresso rammarico nel 1995, ha raddoppiato nel 1997, dicendo: “In un libro di mille pagine sulla Seconda Guerra Mondiale, i campi di concentramento occupano due pagine e le camere a gas 15 righe. Questo è ciò che chiamiamo dettaglio”.

2) Tutti tranne Le Pen

Le Pen era così controverso tra i suoi colleghi del Parlamento europeo che hanno cambiato le regole per impedirgli di presiedere le sessioni.

Fino al 2009, era tradizione che l’eurodeputato più anziano presiedesse la prima sessione plenaria del Parlamento in attesa dell’elezione del nuovo presidente.

Per evitare questo scenario, gli eurodeputati di centrodestra e di sinistra hanno spinto per modificare il regolamento interno del Parlamento. Ora, il presidente in carica presiede la prima sessione e, se non viene rieletto, subentra il vicepresidente più anziano o l’eurodeputato con il mandato più lungo.

3) “Qui sembra di essere tra i bolscevichi!”

Settembre 2011. Durante un dibattito sugli attentati norvegesi avvenuti due mesi prima, Le Pen ha collegato l’integrazione delle popolazioni immigrate al massacro compiuto da un estremista di estrema destra. Il deputato francese dei Verdi Daniel Cohn-Bendit si è offeso, dichiarando: “È intollerabile che il Parlamento europeo ospiti un membro che fa commenti così razzisti e ripugnanti”.

In risposta, un infuriato Le Pen ha replicato: “Sono stato attaccato dal pedofilo Cohn-Bendit (…). Ho il diritto di ricordare alla gente che è qui per aver dato rifugio a un terrorista della Fazione dell’Armata Rossa! Ho il diritto di difendere il mio onore!”. Sua figlia Marine Le Pen è stata vista ridere.

Quando l’allora presidente del Parlamento europeo, Jerzy Buzek, gli chiuse il microfono, Le Pen gridò: “Sembra di essere tra i bolscevichi qui!”.

4) Gli eurodeputati contro i giornalisti: una rissa parlamentare

Il potere di polarizzazione di Jean-Marie Le Pen è stato tale che le tensioni si sono fatte sentire anche quando non era presente in aula. L’esempio principale? Nell’aprile 2002, quando scoppiò una rissa tra deputati e giornalisti presenti in una delle sale stampa del Parlamento.

Le Pen aveva annullato all’ultimo momento una conferenza stampa, per timore di essere interrotto da colleghi ostili che facevano campagna contro di lui. Ma l’atmosfera era così sgradevole che la sua assenza ha provocato una rissa tra i giornalisti che aveva lasciato in sospeso e i deputati presenti nella sala.

Il risultato è stato una situazione caotica, con giornalisti e parlamentari che si sono scontrati e insultati a vicenda.

Ma mentre la stampa si scontrava con gli eurodeputati, dov’è sparito Le Pen? Il politico ha “usato le porte secondarie” per tornare nel suo ufficio, dove ha salutato un giornalista e gli ha assicurato di “non essere demotivato” da tutta l’agitazione che circondava la sua persona.

5) L’interdizione dal Parlamento per un anno

Le Pen non era estraneo ai tribunali, essendo comparso spesso per accuse di glorificazione di crimini di guerra, negazione dell’Olocausto, incitamento all’odio o insulti pubblici. Tuttavia, è stata una condanna per violenza a costargli il seggio al Parlamento europeo per un anno.

Nel 1997 l’eurodeputato ha aggredito un candidato socialista durante le elezioni legislative nella regione di Parigi. Per l’aggressione è stato condannato un anno dopo. Questa condanna gli ha fatto perdere temporaneamente anche la carica di consigliere regionale in Provenza-Alpi-Costa Azzurra.

Dopo una battaglia legale in Francia e a livello europeo, è stato infine espulso nell’aprile 2003, per poi tornare alle elezioni europee dell’anno successivo. “Una grande ingiustizia e sanzioni del tutto sproporzionate” ha dichiarato al momento della sua esclusione.

6) Addio all'”inutile Parlamento europeo”

Dopo 35 anni di permanenza nell’emiciclo, Jean-Marie Le Pen non ha versato lacrime per l’addio al Parlamento europeo. Al contrario, ha usato il suo discorso finale – un amaro monologo di quattro minuti in francese – per lamentarsi della presunta “inutilità” del Parlamento europeo in relazione all'”invasione dei migranti”.

“Voi parlamentari, che siete rimasti ciechi, sordi e muti, sarete maledetti in futuro. L’Europa è impotente. Peggio: paralizza le reazioni nazionali che dovrebbero mobilitare i suoi popoli”.

Dopo essersi lamentato del fatto che l’istituzione “non è altro che un mulino a vento” che trasporta sacchi di sabbia “anziché sacchi di grano”, Le Pen ha osservato che il suo unico ricordo, dopo aver svolto ben otto mandati parlamentari consecutivi, è “una sensazione di inefficienza”. Ha concluso il suo discorso tra gli applausi degli euroscettici.

7) Lo scandalo dei falsi lavori del Front national

Le Pen e il suo partito, il Fn, sono stati accusati di appropriazione indebita di fondi tra il 2004 e il 2016. Il verdetto è atteso per il 31 marzo 2025, ma a causa della sua morte, Le Pen non sarà mai accusato.

Lo scorso settembre è iniziato il processo per la presunta appropriazione indebita di fondi europei da parte del partito di Le Pen.

Venticinque persone, tra cui Jean-Marie Le Pen, sono state accusate di aver dirottato fondi europei, destinati a pagare gli assistenti parlamentari degli eurodeputati, a persone che in realtà lavoravano per il partito tra il 2004 e il 2016.

Jean-Marie Le Pen è stato dichiarato inabile a partecipare al processo a causa delle sue fragili condizioni di salute. Il suo avvocato ha dichiarato che “non può più viaggiare e le sue facoltà sono gravemente ridotte”.

Il verdetto è atteso per il 31 marzo del prossimo anno.