Un’inviata speciale (corriere.it)

di Massimo Gramellini

Il caffè

Per dirvi qualcosa della giornalista, e della persona, vi devo riportare ai giorni in cui cominciò l’invasione russa in Ucraina.

Dopo un viaggio inevitabilmente avventuroso, Cecilia Sala aveva raggiunto Kiev, che Putin minacciava di conquistare entro 48 ore, e contro ogni previsione riuscì a collegarsi in diretta con il nostro programma. Ero molto più agitato di lei, che come sempre appariva in pieno controllo della situazione.

Nelle settimane della sua prigionia, mi hanno fatto sorridere certi commentatori anche illustri che, senza conoscerla, l’hanno dipinta come una specie di scavezzacollo.

Cecilia Sala è una delle creature più sagge e razionali che abbia mai conosciuto. Ha meno di trent’anni, però si direbbe un’anima antica. Corre verso i luoghi da cui tutti scappano, ma non cerca provocatoriamente il rischio, benché sia disposta ad affrontarlo quando pensa che ne valga la pena.

Appena apparve sullo schermo, davanti alla parete spoglia di una stanza d’albergo a Kiev, le chiesi le prime cose che l’avessero colpita lungo il tragitto. Rispose: «Gli anziani delle campagne che girano i cartelli stradali per ingannare i carrarmati russi. E i bambini di Kiev che preparano bottiglie incendiarie da lanciare dai balconi».

Erano istantanee di vita che raccontavano senza retorica la resistenza di un popolo. Per riuscire a coglierle al primo sguardo, occorrono occhi curiosi e una testa lucida e sgombra di pregiudizi. Cecilia Sala ha quegli occhi e quella testa. Bentornata.

Cecilia Sala e quelle donne vittime del maschilissimo “se l’è cercata” (ilfoglio.it)

di Adriano Sofri

Piccola posta

Un accanimento che ha a che fare per antonomasia col sesso.

Uno che va a Napoli col Rolex al polso si dice che se l’è cercata, ma suona ingenuo, innocente. Di una che esce con una minigonna invece si dice, e suona colpevole

Non è vero che non ci si stupisce più di niente. Ci si stupisce. Mi stupisco dell’infamia che trovo larga e compiaciuta nelle parole su Cecilia Sala. Non sto scrivendo di lei, e violando la consegna del riserbo: sto parlando di loro, i commentatori.

E precisamente della ripetizione, al suo riguardo, della più miserabile e più esemplare frase coniata per violentare le donne, o per applaudire chi le violenta. “Se l’è cercata”. “Se l’è andata a cercare”.

Può impiegarsi anche da uomini per uomini. Di Giorgio Ambrosoli, assassinato da un sicario prezzolato di Michele Sindona, Giulio Andreotti disse in televisione: “Certo è una persona che in termini romaneschi se l’andava cercando”. Poi, come si usa, si scusò. Ma con le donne è un’altra cosa.

Non so quanto sia abituale in altre lingue un’espressione come: Se l’è cercata. She brought it on herself… She asked for it… Elle l’a demandé… E’ diventata proverbiale, a parti invertite, l’esclamazione del “Marito confuso” di Molière – Vous l’avez voulu, George Dandin, vous l’avez voulu – è lui, il cornuto destinato a non essere mai creduto: te la sei cercata, George Dandin.

“Se l’è cercata”: quante nefandezze ha mascherato questa frasetta. Le sue perifrasi non hanno avuto altrettanta fortuna – chi è causa del suo mal… Certo, alle donne si imputa di essere causa del proprio mal, ma l’espressione non rende abbastanza l’idea, il loro darsi da fare a procurarselo, il loro “andarselo a cercare”.

Questo accanimento ha a che fare per antonomasia col sesso. In altri campi la frase è impiegata, è sbagliato obiettare che di chi è rapinato non si dice che se l’è cercata. Uno che va a Napoli col Rolex al polso si dice che se l’è cercata, ma suona ingenuo, innocente: più che cercarsela, se l’è trovata.

Di una che esce con una minigonna invece si dice, e suona colpevole. Suona colpevole, e dunque come un’attenuante per il violentatore, se non un’esimente – perlomeno un concorso di colpa: lui l’ha stuprata, o loro l’hanno stuprata, ma lei se l’è cercata.

Loro l’hanno incarcerata, me lei ci era andata. Andare in Iran, una donna giovane e straniera, è come uscire in una minigonna troppo provocante. Succede per una categoria infinita come le donne, e per alcune persone singole. Per esempio per l’assassinio di Pasolini, che non era donna ma frocio sì, e dalle voraci battute notturne, sicché di un uomo vitale e capace di esser felice si è fatto uno che è andato a procurarsi il proprio cristico sacrificio. Il Pasolini che “se l’è cercata”, almeno altrettanto abusivo del Pasolini vittima di una cospirazione di poteri segreti.

Della storia del “se l’è cercata” fa parte il proposito, così trasparente da essere diventato invisibile e pressoché naturale, di congiungere la colpevolizzazione della donna – della bambina, della ragazza – con la sua autocolpevolizzazione.

Che bambina, ragazza, donna, abbiano provato insieme all’umiliazione, al disgusto, all’offesa, la sensazione di un cedimento, di una collusione del proprio corpo, diventa per effetto del contesto una ragione di vergogna e di autoaccusa – di complicità, di correità. Non so capirne né parlarne plausibilmente, uomo come sono, ma so riconoscere i congegni che gli uomini hanno elaborato per contribuire a questa chiamata in correità. Le indagini gonfie di domande: Ha provato piacere mentre…?

Le arringhe dei difensori: Però lei ci stava… La letteratura, che quando è meno volgare non fa simili domande, ma dà le risposte. Il cinema, per non dire della pornografia, in cui un intero genere si fonda sul passaggio della donna oggetto di stupro che resiste fino al punto in cui cede e urla e pianto diventano un gemito arreso. Fra le innumerevoli barriere che la cultura ha opposto alla decisione delle donne di denunciare la violenza questa non è fra le minori.

E non è certamente fra le minori cause della educazione dei maschi alla violenza: ai maschi si insegna, dalle vanterie dei più grandi, dalla letteratura, dal cinema, dai porno, che le ragazze, le donne, dicono di no ma vuol dire sì, e magari fisicamente resistono e si oppongono, ma poi “gli piace”. Che questo è il gioco delle parti, che qui si gioca la loro virilità.

Se la cercano. Ogni ora che passa serve a indurre la sequestrata a dirsi che ha sbagliato. Che non si fa. Non si va in Iran. Che cosa passi per la mente e il resto del corpo dei carcerieri di Evin lo spiegano i voluttuosi commentatori di Facebook.

E viceversa.

Zuckerberg si arrende alla libertà di disinformare, e a Elon Musk (linkiesta.it)

di

L’avvelenata

Libera offesa in libero social

Meta rinuncia alla verifica delle notizie sulle sue piattaforme, accodandosi a X. Perché le buone cause rovinano tutto, dalla letteratura ai social, e soprattutto gli affari

A Bologna c’è un’espressione che non mi pare abbia equivalenti nell’italiano nazionale. Si usa per descrivere chi gongola perché qualcosa è andato proprio come aveva detto sarebbe andato, perché ha vinto contro il banco, perché le cose girano dalla sua parte. Quell’espressione è: gli ride anche il culo.

È da ieri che penso a quanto stia ridendo il culo a Elon Musk. E no, non per l’offerta di portare l’internet coi satelliti a Bagnara Calabra. E no, non per la quantità di serate che gli tocca passare a Mar-a-Lago. Per questa frase qui: «Innanzitutto, elimineremo i verificatori di notizie, e li sostituiremo con delle note prodotte dal basso, simili a quelle di X».

X sarebbe Twitter, il social di Elon Musk, e la frase l’ha detta Mark Zuckerberg, tenutario di Facebook e Instagram. È come se domani il capo di Nespresso dicesse basta con queste capsule di merda, d’ora in poi caffè con le cialde come fa Illy (adesso arrivano i verificatori dall’alto e dal basso a dirmi che non c’è paragone tra la quota di mercato di Illy e quella di Musk).

Siamo solo alla prima settimana dell’anno, e già quello che sembrava il più importante evento politico che riguardasse il proprietario d’un social network, la visita di Giorgia Meloni negli Stati Uniti, è stato surclassato da questo inaspettato calamento di braghe – sia detto con simpatia – di Mark Zuckerberg rispetto a tutti i minuetti che vanno sotto il nome di guerre culturali per la libera espressione.

Naturalmente della libera espressione non gliene frega niente a nessuno: non a Zuckerberg, non a Musk, ormai neppure a me che pure mi ci sono baloccata per un po’ (prima di passare sui social una quantità di tempo sufficiente a stabilire che il problema della libera espressione è che ce n’è troppa).

Anni fa Zadie Smith disse che i romanzi erano meccanismi di precisione: per esprimersi c’erano la famiglia e gli amici. Allora mi sembrò un buon punto, ma adesso sarei più severa: non c’è nessuno che non sia completamente cretino e che ci tenga a esprimersi. Nessuno che abbia una vita soddisfacente, un’intelligenza sensata, un patrimonio sufficiente a non campare di frustrazioni, nessuno che valga la pena frequentare vuole esprimersi, superata l’età in cui si scrivono poesie e lettere d’amore, ovvero raggiunta l’età in cui ti si finisce di formare la corteccia prefrontale.

L’altro giorno sul New York Times c’era un editoriale di James Carville che tornava sul suo pronostico (sbagliato) per le scorse elezioni, e diceva d’aver capito due cose dalla sconfitta di Kamala Harris. Che lo slogan che proprio lui aveva forgiato per Clinton nel 1992 – it’s the economy, stupid – era giusto, e che i podcast erano importantissimi. E che quindi le prossime elezioni le vincerà chi ha l’idea migliore per aggiustare l’economia, e la sa spiegare meglio in un podcast.

Lasciamo stare i podcast (l’ha chiaramente scritto per farmi innervosire), ma i soldi sono sempre la risposta a tutto, anche alla domanda: come mai Zuckerberg ha cambiato idea sull’importanza di tutelare l’elettorato dalla disinformazione, di fargli leggere i buoni, di non lasciare che chiunque usasse termini che potevano offendere la specifica sensibilità di chiunque altro?

Credo sia avvenuto per due ragioni, la prima delle quali è che se c’è un elettorato disposto a credere che il Covid si curi con la candeggina quell’elettorato è un mercato, e se è un elettorato abbastanza grosso da vincere le elezioni io – io imprenditore dei social, io incassatore di inserzionisti sulle pagine social su cui si trastullano i disperati del mondo – quell’elettorato, cioè quel mercato, non voglio perdermelo.

Temo che sia uno di quei casi in cui il benessere economico si moltiplica e non si divide: se tutti i social diventano social sui quali puoi dire qualunque stronzata, gli inserzionisti non avranno più ragione di boicottare Musk. Su qualcuna delle piattaforme che noialtri potenziali clienti scrolliamo al cesso bisogna pur investire (almeno finché non si capisce che la pubblicità è un relitto novecentesco), e a quel punto una vale l’altra.

Forse finirà il mondo come lo abbiamo conosciuto finora, un mondo in cui se apro X mi pubblicizzano criptovalute e macchine elettriche, e se apro Instagram mi arrivano dieci pubblicità precisissime d’una maglietta dell’esatto punto di verde che mi piace, o dell’attrezzo che un attimo prima ho pensato mi servisse in cucina (sì, lo so che il pubblico semicolto ritiene picchiatelli quelli che pensano che l’algoritmo ascolti le nostre conversazioni, ma io non penso ci ascolti: io penso ci legga nel pensiero).

Dicono gli slogan che «go woke, go broke», cioè che chi cede all’identitarismo e alla sterilizzazione delle parole e alle fissazioni postmoderniste poi non ne trae profitto economico, come in effetti dimostrerebbero le vendite ormai ai numeri negativi dei giornali divenuti bollettini della suscettibilità.

Finora era il contrario, nel senso che appunto Instagram, dove se scrivi «busone» ti deferiscono alla Corte internazionale di giustizia, aveva profitti pubblicitari e X, dove puoi scrivere qualunque enormità, non aveva un inserzionista decente. Ma magari Zuckerberg, che la sa più lunga di me e di voi e di Virginia Raggi, ha capito che il vento sta cambiando.

C’è un tizio, su Instagram, che ogni volta che Linkiesta posta un mio articolo lo commenta sempre capendo il cazzo per l’equinozio e sempre non trovandosi il culo con le mani, e poi quando gli do del coglione mi dice che io voglio i complimenti (solo un coglione può pensare che non consideri coglione chi si mette a complimentarmi gli articoli: come puoi essere così coglione da pensare d’essere all’altezza di valutare quel che scrivo?).

L’ultima volta che gli ho dato del coglione, un paio di mesi fa, il sistema automatico di difesa dei suscettibili mi ha notificato che aveva rimosso il commento giacché costituiva bullismo o molestia. Tra le ragioni per cui si poteva chiedere (avendo tempo e il lusso di sprecarlo) una revisione della decisione, c’era «it’s not offensive in my region», ma non un più utile «è un mio lettore e gli do del coglione finché mi pare».

La seconda ragione per cui Zuckerberg si è arreso alla fine del mondo in cui le mitomani scrivono «gen*cidio» convinte che sennò l’algoritmo le penalizzi e le spregiudicate scrivono «è andata a casa con il negro la troia» e poi si trovano a dover spiegare a un sistema automatizzato che it’s not offensive in my region, la seconda ragione credo sia che noialtri – noialtri intelligenti, noialtri semicolti, noialtri fideisti della scienza e difensori della democrazia e sempre dalla parte dei buoni – ne abbiamo di recente azzeccate pochissime.

Dal virus creato in un laboratorio di Wuhan alla transessualità alle previsioni sulle durate delle guerre, non c’è argomento sul quale l’informazione ufficiale non debba farsi la domanda di Labatut: quando abbiamo smesso di capire il mondo? È difficile sostenere che i verificatori servano ad arginare la disinformazione, quando – che si faccia o no alla romana nel conto complessivo delle puttanate – informazione e disinformazione pari sono.

Che poi secondo me non è neanche un problema di informazioni più o meno distorte, non esistendo più i fatti ma solo le interpretazioni. È proprio che le buone cause rovinano tutto, dalla letteratura giù fino ai social. Susan Sontag, che beata lei è morta prima che arrivasse Facebook, scriveva cinquant’anni fa del declino di Neruda e di Brecht «quando misero la loro poesia al servizio della gente, delle richieste di giustizia sociale». E neppure il cristianesimo, diceva, fu una gran pacchia per le arti, «finché non ridusse i moralismi».

Quindi forse la domanda è: esiste la possibilità d’una amoralità delle piattaforme, o dal moralismo d’una matrice si può solo passare a quello d’altra matrice? «Una società nuova è sempre repressa», diceva Alberto Moravia a Furio Colombo su un Tuttolibri anch’esso del 1975, e forse i social non sono più abbastanza nuovi da reprimersi e reprimerci. 

Ieri Luca Bizzarri aveva pubblicato la risposta di Instagram alla sua segnalazione del commento di uno che augurava un cancro ai suoi figli. Non c’è niente che non va, gli avevano risposto i sistemi automatizzati. Forse perché sanno che Bizzarri, diversamente da Musk e da Sonni Boi, non ha mille figli dei quali non ricorda un viso, e – se augurare malanni a gente davvero esistente è reato di pensiero magico – auspicare accidenti per creature immaginare non so bene che morale leda.

È interessante che, nel video con cui annuncia la fine dei «sistemi complessi di moderazione» che sono divenuti sistemi di censura, Zuckerberg abbia detto che la squadra che si occuperà di moderazione dei contenuti non starà più in California ma in Texas. Lo stato da cui trasmette Joe Rogan, dal cui podcast pareva dipendessero vita e morte delle ultime elezioni. E lo stato in cui Elon Musk aveva detto di voler trasferire le sue aziende quando in California è stato eliminato il dovere delle scuole di avvisare i genitori in caso di transizione di genere dei minorenni.

È anche interessante che Zuck abbia detto che lavorerà con Trump per convincere gli altri paesi, quelli in cui la difesa della libertà d’espressione non è sentita quanto negli Stati Uniti, a non «istituzionalizzare la censura» come, dice, sta avvenendo sempre più in Europa.

Cita l’Europa, e l’America del sud, e la Cina, ma è difficile non pensare all’Inghilterra della quale ora si ha gioco facile a dire che ti arrestano se posti una cosa che non piace a qualcuno ma in compenso puoi stuprare impunito le bambine. (Illuminante caso, il dibattito social sui casi inglesi di stupri di gruppo, di come non esistano informazione e disinformazione, ma solo gente che non legge un cazzo mai e poi strepita che il sistema le abbia tenuto celate le notizie).

Mi piace pensare c’entri, con la decisione di elonizzarsi di Zuckerberg, non solo la consapevolezza che il ruolo del buono e quello del cattivo sono intercambiabili (Zuck era il cattivo di Cambridge Analytica assai prima che Musk fosse il cattivo di Mar-a-Lago), ma anche l’annuncio dell’altroieri dei nuovi consiglieri d’amministrazione di Meta.

C’è uno che viene da Microsoft, c’è uno che a capodanno di due anni fa è stato così sveglio da farsi riprendere dalle telecamere mentre schiaffeggiava la moglie, e poi c’è anche John Elkann. Vuoi che John non abbia portato Mark in riva alla Senna con una bottiglia di grappa per dirgli Zuck, ti spiego io come funziona l’informazione, i suoi limiti e quelli dei social: hai presente le booktoker su Repubblica?