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Jobs Act, l’arma scarica del referendum di Landini e la retromarcia del Pd sulla partecipazione nelle imprese (firstonline.info)

di 

Cancellato dalla Corte costituzionale il 
referendum sull’Autonomia differenziata, 
Landini concentra la sua battaglia di retroguardia 
sul Jobs Act ma raggiungere il quorum è 
molto difficile. 

Alla Camera comincia la battaglia sulla partecipazione dei lavoratori nelle imprese voluta dalla Cisl ma su cui il Pd va a rimorchio del segretario della Cgil

È la solita storia dei pifferi di montagna: scesero in pianura per suonare e ritornarono suonati. A suonare il piffero della rivolta sociale ci ha provato Maurizio Landini arruolando la Cgil nella grande coalizione che aveva promosso il referendum abrogativo della legge Calderoli sull’autonomia differenziata con argomenti un po’ all’ingrosso in nome dell’unità d’Italia messa in crisi dal tentativo di ‘’secessione dei ricchi’’.

Qualcuno aveva pure proposto di ingaggiare battaglia con il simbolo di Giuseppe Garibaldi, dimenticando che – con l’effigie dell’Eroe dei due mondi sull’emblema del Fronte popolare – la sinistra era andata allo sbaraglio nelle elezioni del 18 aprile del 1948.

Se guardiamo la foto dello stato maggiore referendario schierato davanti al Palazzaccio, reduce dall’aver depositato le firme, troviamo Landini in posizione strategica, consapevole del contributo fornito dalla sua organizzazione nello sforzo organizzativo per la raccolta delle firme. Da allora il NO alla legge Calderoli è divenuto uno dei principali obiettivi delle lotte e delle manifestazioni organizzate dalla Cgil e dai suoi satelliti lungo la ‘’via maestra’’.

L’idea non era male. La forza della Cgil era sicuramente importante per affrontare la sfida del quorum. Come contropartita l’organizzazione di Landini poteva contare sul voto di opinione raccolto dalla battaglia politica lanciata da tutte le opposizioni al governo per avvalersi così di quella massa critica anche per il successo dei suoi quattro requisiti referendari in materia di lavoro.

Per usare, visti i tempi che corrono, una metafora di carattere militare, la Cgil copriva il lato di sinistra dello schieramento referendario, portando nella mischia contenuti più specifici e cari a settori (non a tutti) del movimento pronto a dare la  spallata al governo della ‘’fame, del freddo e della paura’’.

No della Consulta al referendum sull’autonomia, quorum irraggiungibile

La Corte Costituzionale non è stata benevola con la legge sottoposta al suo esame tramite il ricorso delle regioni, ma nel contempo ha sfilato dal pacchetto dei quesiti quello riguardante i brandelli residui della legge stessa, non ammettendo quindi il ricorso al referendum. Così in campo, anziché la ‘’grande armata’’ di tutte le opposizioni politiche, civili e sociali, è rimasto solo il fronte di sinistra a dare l’assalto alla fortezza del quorum. 

Già si dubitava prima che fosse possibile raggiungere il requisito di partecipazione necessario per la validità della consultazione, allo stato dei fatti non è osare troppo ritenere che Landini e i suoi non riusciranno mai a portare ai seggi il 50% +1 degli elettori. Soprattutto se il referendum  diventerà – come è stato finora – una sorta di giudizio di Dio sul jobs act ma limitato unicamente all’abolizione del contratto a tempo indeterminato a tutele crescenti (dlgs n. 23/2015).

La vendetta di Landini contro Renzi: il referendum sul Jobs Act

In sostanza una vendetta di Landini contro il governo Renzi e la sua politica del lavoro. L’abrogazione del referendum sarebbe una vittoria di Maramaldo, perché ucciderebbe un complesso di norme (legge ‘’Francesco Ferrucci’’) fortemente depotenziate dalla giurisprudenza, anche costituzionale. Senza, peraltro, resuscitare, attraverso la sua abrogazione, lo storico articolo 18, dal momento che quella norma è stata novellata dalla legge n.92/2012, la riforma Fornero del mercato del lavoro.

Che la maggioranza dell’elettorato italiano si rechi alle urne al solo scopo di arbitrare una controversia tra Renzi e Landini – ovvero tra il Pd di governo e quello di lotta – è una macabra illusione, tanto più che non tutti i dem sono pentiti di quanto hanno fatto in dieci anni al potere: come hanno dimostrato evitando di partecipare alla raccolta delle firme, a sostegno dei 4 quesiti della Cgil.

I referendum – soprattutto se abrogativi – sono bombe ad orologeria che vengono innestate con molti mesi di anticipo rispetto al momento dell’esplosione. Gli elettori vivono in prevalenza nel presente e quasi sempre finiscono per regolarsi nel voto su quanto passa in quel momento il convento della politica che – come sappiamo – è molto mutevole anche in archi temporali di una significativa durata.

La partecipazione dei lavoratori nell’impresa: un ulteriore pasticcio per la sinistra

La maggioranza di destra e il governo, dal canto loro, possono trarre vantaggio dalle due sentenze della Consulta. Non solo dalla seconda che non ha ammesso la consultazione, ma anche dalla prima che ha indicato al Parlamento i criteri da seguire e le modifiche (invero tante) da apportare al testo che fu di Calderoli per varcare con sicurezza la soglia della legittimità costituzionale.

Nel frattempo la sinistra si è infilata in un ulteriore pasticcio. Arriva oggi in Aula alla Camera il testo varato dalle Commissioni Lavoro e Finanze sulla partecipazione dei lavoratori nell’impresa di cui all’articolo 46 della Costituzione: un testo che – sia pure sottoposto a modifiche e riscritture – ha preso le mosse da un disegno di legge di iniziativa popolare promosso dalla Cisl.

Il Pd nelle Commissioni ha dato un contributo con emendamenti accolti dalla maggioranza alla redazione dell’articolato che viene sottoposto alla lettura dell’Aula. Poi dopo l’ukase di Maurizio Landini i dem hanno fatto marcia indietro, nonostante che la Confindustria, tramite il vice presidente Maurizio Marchesini, intervenendo ad un Convegno di Forza Italia abbia rivolto all’iniziativa della Cisl critiche durissime: ‘’Non ho mai riscontrato in Confindustria – ha detto il vice presidente – una negatività così alta come quella che c’è su questa legge”.

Di fronte ad una reazione del mondo dell’impresa così dura non è molto convincente la motivazione con cui il Pd ha voluto esprimere la sua mancata adesione, con le parole di Cecilia Guerra, responsabile lavoro del Nazareno: “Non c’è stata la possibilità di portare miglioramenti al testo, e quella che doveva essere una discussione su come realizzare la partecipazione dei lavoratori è diventata una gentile concessione, eventuale, delle imprese”. Del progetto originario, osserva Guerra, “non è rimasto nulla, la proposta della Cisl ne esce snaturata”.

È singolare la dipendenza del Pd nei confronti della Cgil che finisce anche per non tenere conto delle posizioni della Cisl, proprio nel momento in cui è in corso un dibattito sul ruolo dei cattolici che sono pur sempre una componente fondativa del partito. Regalare  alla destra un tema caro alla sinistra europea come la partecipazione e una organizzazione sindacale importante come la Cisl, è un errore gravissimo che mette a rischio la stessa unità del Pd.

Sono riflessioni che andrebbero fatte con cura e serietà perché non si costruisce un ‘’campo largo’’ su di una linea di veterosinistra e di obbedienza cieca e assoluta ad una Cgil che ha smarrito anche se stessa.

Passepartout, il fallimento dell’inchiesta di Gratteri: solo in Italia le sconfitte giudiziarie diventano titoli di merito (ilriformista.it)

di Pasquale Motta

La gogna mediatica ha prodotto però conseguenze 
devastanti

Non è la prima volta – e probabilmente non sarà l’ultima – che un’inchiesta firmata Nicola Gratteri, oggi procuratore di Napoli, si scioglie come neve al sole. Questa volta è toccato a Passepartout, uno dei tanti nomi altisonanti che l’ex capo della Procura di Catanzaro predilige per le sue operazioni, fallire di fronte alla giustizia giudicante.

L’esito? Reati prescritti, accuse inconsistenti, processi che si chiudono nel nulla, mentre il costo umano, politico e istituzionale resta altissimo. Ma di tutto questo la grande stampa non parla. Forse perché è troppo impegnata a ospitare Gratteri nei salotti televisivi, dove si presenta come il grande riformatore della giustizia italiana.

L’inchiesta Passepartout nasce negli anni 2018-2019, durante il mandato di Mario Oliverio come presidente della Calabria. Un periodo in cui la Regione, per la prima volta, aveva invertito il trend negativo nella gestione dei fondi europei, risalendo la classifica nei settori economici e nei servizi pubblici.

Ma per Gratteri questo non contava. La sua priorità era un’altra: individuare intrecci tra politica, corruzione e ‘Ndrangheta ovunque, anche dove le successive sentenze hanno dimostrato che non esistevano. Accuse pesanti quelle mosse a Oliverio e ad altri 12 imputati, tra cui Nicola Adamo, Luigi Incarnato e Fortunato Varone: corruzione, traffico di influenze, frodi, turbativa d’asta.

Reati che, se provati, avrebbero giustificato l’enorme clamore mediatico dell’epoca. Ma non c’era nulla da provare. Dopo anni di indagini e processi, il Tribunale ha dichiarato il non doversi procedere. Le accuse si sono dimostrate inconsistenti, i reati prescritti. Ancora una volta, quello che doveva essere un castello accusatorio si è rivelato un castello di carte.

La gogna mediatica ha prodotto però conseguenze devastanti. La misura cautelare di obbligo di dimora inflitta a Oliverio – per un’altra inchiesta, stigmatizzata dalla Suprema Corte di Cassazione come “un chiaro pregiudizio accusatorio” – gli ha impedito di ricandidarsi alla guida della Regione.

Il suo partito, il Pd, ha preferito abbandonarlo, lasciandolo al suo destino. Una scelta che ha spalancato le porte al centrodestra, modificando gli equilibri politici regionali e nazionali.

Quella di Passepartout non è una storia isolata. La domanda è inevitabile: chi paga per i danni causati dalle inchieste infondate? Chi risarcirà Oliverio per la delegittimazione subita, per la sua carriera politica interrotta, per il danno alla sua immagine? Chi risponderà per il danno arrecato alla Calabria, una Regione che ha visto le sue dinamiche politiche stravolte da inchieste poi rivelatesi inconsistenti? La verità è che nessuno paga.

In un paese democratico, un magistrato che si vede bocciare in modo così netto le sue inchieste dalla Cassazione sarebbe costretto a rispondere delle sue azioni. In Italia, invece, le sconfitte giudiziarie diventano titoli di merito. E così Gratteri continua a ricevere applausi, ospitate in tv, e persino riconoscimenti. Non meno grave è il silenzio della stampa nazionale.

È ora di chiedere conto al procuratore non solo dei suoi successi, ma soprattutto dei suoi fallimenti. Perché la giustizia, quella vera, non può essere una passerella per ambizioni personali. E perché il prezzo di questa giustizia spettacolarizzata lo stanno pagando tutti i calabresi.

La geografia secondo Alessandro Giuli: il ministro della Cultura si inventa la provincia di Spoleto (lespresso.it)

di Felice Florio

Governo Meloni

“Un territorio inesplorato che nemmeno Google Maps conosce”, ironizza l’opposizione

Sarà l’influenza del dicastero? Dopo le gaffe dell’ex ministro Gennaro Sangiuliano – Times Square che si trova a Londra o Colombo che circumnaviga la Terra sulla base delle teorie di Galilei – l’attuale titolare della Cultura, Alessandro Giuli, continua a inanellare faux pas.

Dopo la citazione sbagliata di Hegel, durante l’intricata esposizione delle linee guida del suo dicastero a deputati e senatori riuniti lo scorso 8 ottobre, oggi il ministro è scivolato sulla geografia. Stava rispondendo al Question time, a Montecitorio, sui teatri condominiali all’italiana candidati per l’iscrizione nella lista del Patrimonio mondiale Unesco per il 2026, quando si è inventato la provincia di Spoleto.

“Il 14 gennaio ho stipulato un protocollo d’intesa con le Regioni e i Comuni nei quali sono allocati i teatri, per la predisposizione della documentazione necessaria per presentare la proposta di candidatura. Il progetto contempla 18 teatri, in tre Regioni: 14 nelle Marche, due in Emilia-Romagna e due in Umbria, numeri che testimoniano la straordinaria vitalità culturale della Regione Marche. Cito, fra gli altri, il Teatro Goldoni di Bagnacavallo in provincia di Ravenna, il Teatro Gentile da Fabriano in provincia di Ancona e il Teatro Nuovo Gian Carlo Menotti in provincia di Spoleto”.

Che, in realtà, è una città in provincia di Perugia.

Tra i primi a far notare la gaffe è stata la deputata del Movimento 5 stelle Emma Pavanelli. “Giuli, ministro della Cultura e cartografo dell’ignoto, sceso dall’infosfera alla Camera per il Question time, ci regala una perla storica: una nuova provincia in Umbria, la provincia di Spoleto”, ha ironizzato. “Un territorio inesplorato che nemmeno Google Maps conosce. Dopo questa rivelazione, attendiamo con ansia la prossima lezione di geografia di Giuli: magari scopriremo la Regione di Pompei, la Repubblica di Cortina o il Granducato di Frosinone.”