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I femminicidi dimenticati, quelli delle donne anziane (marieclaire.it)

di Alessandra Vescio

Quando una donna anziana viene uccisa, l’omicidio 
viene raramente collegato a dinamiche di potere e 
controllo che possono aver caratterizzato la 
relazione per decenni. 

Spesso si tratta di donne che hanno vissuto una vita intera in una situazione di violenza domestica, ma il loro omicidio non viene letto come il culmine di una storia di soprusi, bensì come un episodio isolato, un ‘triste epilogo’ di una relazione lunga.

Carol James aveva 81 anni quando è stata trovata morta nella sua casa in una cittadina a sud-est di Londra nel novembre del 2024. Il marito Brian James, anche lui di 81 anni, è stato accusato di omicidio. Rita Fleming aveva 70 anni, e della sua morte è stato accusato il suo compagno che ha negato le accuse.

Delia Haxworth invece di anni ne aveva 85: il marito di 87 anni è stato accusato di averla uccisa. Carol Matthews, una donna disabile di 73 anni, è stata uccisa a marzo dello scorso anno: il marito e caregiver Peter Matthews ha ammesso di averla uccisa per “mettere fine alle sue sofferenze”, nonostante la moglie non volesse morire ma anzi lo avesse pregato di non ucciderla.

Questi sono solo alcuni esempi di femminicidi avvenuti lo scorso anno in Inghilterra, le cui vittime sono donne di oltre 70 anni. Non rappresentano un’eccezione: secondo alcune analisi, negli ultimi quindici anni nel Regno Unito almeno una donna su otto over 70 sarebbe stata vittima di femminicidio.

Anche in Italia i numeri suggeriscono che il fenomeno è più diffuso di quanto si pensi: nel 2022, 46 donne uccise avevano più di 65 anni e 20 di loro sono morte per mano di un partner o ex partner. Inoltre, un report dell’Istat sulle vittime di omicidio fa emergere che per le donne il rischio di essere uccise aumenterebbe con l’età, in particolare nel contesto familiare.

Nonostante ciò, sono casi che difficilmente finiscono sui quotidiani nazionali e sui media mainstream, rimanendo appena nei confini della cronaca locale. Se di violenza di genere e femminicidi sui media d’altronde si parla poco, in alcuni casi lo si fa ancora meno. Nella narrazione mediatica della violenza di genere esiste infatti il mito della “vittima perfetta”.

La vittima perfetta, che merita attenzioni e compassione, è una donna giovane, bianca, di classe media, dallo stile di vita e dai comportamenti in linea con il ruolo di genere a lei assegnato, che viene aggredita, abusata ed eventualmente anche uccisa da uno sconosciuto per strada.

Una tragedia imprevista e imprevedibile, per cui lei difficilmente ha colpe, se non quella di essersi trovata nel posto sbagliato al momento sbagliato. Ovviamente nessuna donna che ha subito violenza rientra nell’identikit della vittima perfetta, ma piuttosto si va sempre alla ricerca di motivazioni e colpe che possano renderla in qualche modo responsabile della violenza subita.

Nel caso però di chi effettivamente si distacca nettamente da quell’immagine, la sua storia non solo non genera scalpore o indignazione, ma viene del tutto ignorata. È il caso ad esempio delle donne non bianche, delle donne trans e delle donne disabili, di coloro che quando hanno subito violenza avevano assunto droghe o erano in compagnia di una persona appena conosciuta; ed è il caso anche delle donne anziane, già relegate ai margini della nostra società, che quando subiscono violenza o sono uccise non vengono viste né riconosciute.

Secondo Joëlle Long, docente universitaria e coordinatrice presso l’Università di Torino dell’insegnamento di Violenza maschile contro le donne, infatti, “Quando un uomo anziano uccide la moglie, il fatto tende a essere raccontato non come un femminicidio, ma come un gesto di disperazione o un atto dettato dalla malattia mentale o dalla fragilità senile.

L’omicida viene spesso descritto come un uomo che ‘non ce la faceva più’, magari perché la moglie era malata o perché si sentiva solo, trasformando così un atto di violenza estrema in un dramma umano quasi inevitabile”. La conseguenza di ciò però, spiega Long, è che “questa narrazione riduce la responsabilità del carnefice e sposta l’attenzione dal problema della violenza sistemica sulle donne al concetto di sofferenza personale o familiare, quasi giustificando il gesto”.

Per questa ragione, “quando una donna anziana viene uccisa, l’omicidio viene raramente collegato a dinamiche di potere e controllo che possono aver caratterizzato la relazione per decenni. Spesso si tratta di donne che hanno vissuto una vita intera in una situazione di violenza domestica, ma il loro omicidio non viene letto come il culmine di una storia di soprusi, bensì come un episodio isolato, un ‘triste epilogo’ di una relazione lunga.

In questo modo, si perde completamente la dimensione strutturale del problema e si rende ancora più difficile il riconoscimento della violenza di genere all’interno della coppia anziana”.

Riconoscere la violenza di genere è di per sé già complesso, ma lo è ancora di più tra persone anziane: a causa della maggiore diffusione di stereotipi di genere e della normalizzazione della violenza contro le donne e del predominio maschile in alcuni contesti, periodi e fasce di età, così come della mancanza di strumenti, informazioni e supporto attorno, molte donne possono infatti aver trascorso anni in una relazione abusante e violenta senza aver mai denunciato o chiesto aiuto.

Una volta raggiunta una certa età, poi, i rischi di subire abusi si intensificano: la violenza contro le donne anziane è infatti il frutto di un’intersezione tra genere ed età, con fattori di rischio specifici per questa fase della vita.

Un’eventuale riduzione della mobilità, la paura dell’abbandono e di un futuro ignoto se si scegliesse di andare via, la presenza di una patologia e la dipendenza economica e psicologica rappresentano alcuni dei fattori che rendono le donne anziane particolarmente vulnerabili a subire violenza di genere e a restare incastrate in relazioni abusanti.

“L’isolamento sociale”, dice poi la professoressa Long, “è un altro fattore chiave: con l’età avanzata, le donne perdono progressivamente la rete di supporto costituita da amici, parenti o colleghi di lavoro. Questo aumenta la vulnerabilità agli abusi, perché manca un contesto sociale che possa riconoscere la violenza e offrire supporto”.

Il tipo di violenza più diffuso in questa fascia di età è quella psicologica, che prende la forma di comportamenti coercitivi, umilianti e tesi a svilire la persona. Per le donne malate, disabili o con ridotta mobilità e i cui familiari o i partner sono i principali caregiver, gli abusi psicologici possono manifestarsi anche attraverso il rifiuto delle cure, della mancanza di assistenza e supporto e della minaccia di abbandono.

Anche la violenza economica è molto comune tra le coppie più anziane: come spiega la professoressa Long, “molte donne anziane hanno vissuto gran parte della loro vita in un sistema sociale che le ha relegate a un ruolo familiare e domestico, spesso senza autonomia economica. Se non hanno una pensione propria, dipendono finanziariamente dal partner o dai figli, rendendo difficile la possibilità di lasciare una relazione violenta”.

Per prevenire la violenza di genere e i femminicidi di donne anziane, è allora necessario un intervento sistemico, che riconosca i fattori di rischio specifici per questa fascia di età. La formazione del personale sociosanitario che entra in contatto con le persone anziane, l’ideazione e il supporto di spazi e programmi che abbiano come obiettivo l’accoglienza delle donne anziane vittime di violenza, e la creazione di campagne di prevenzione e sensibilizzazione sulla violenza di genere contro le donne anziane sono alcune delle proposte più discusse quando si parla di questo tema.

Al tempo stesso, è necessario supportare le donne a livello pratico, dare loro la possibilità di lasciare la propria abitazione quando necessario, di avere un supporto economico che le renda libere dall’uomo violento, e creare attorno alla donna una rete di supporto stabile e duratura, su cui poter fare affidamento sempre e soprattutto nel momento del bisogno.

Spiegazione degli avvisi di viaggio negli Stati Uniti: cosa significano e perché vengono aggiornati (newsweek.com)

di

Un numero crescente di alleati più stretti 
dell'America sta aggiornando i propri avvisi 
di viaggio per i cittadini che visitano gli 
Stati Uniti, 

citando un’applicazione più rigorosa dell’immigrazione e la possibilità di detenzione o deportazione, anche per i viaggiatori in possesso di visti o autorizzazioni valide.

A metà marzo, Germania, Regno Unito, Finlandia e Danimarca hanno rivisto le loro linee guida ufficiali, avvertendo che l’ingresso negli Stati Uniti non è garantito e che i viaggiatori potrebbero dover affrontare un maggiore controllo alla frontiera.

Sebbene tali avvertimenti non siano rari, il fatto che quattro nazioni alleate abbiano aggiornato i loro avvisi di viaggio negli Stati Uniti a pochi giorni di distanza l’una dall’altra ha sollevato interrogativi sul cambiamento della percezione internazionale degli Stati Uniti e sui rischi che i viaggiatori dovrebbero ora considerare.

Ecco cosa significano gli avvertimenti, cosa sta guidando gli aggiornamenti e cosa potrebbero segnalare per il turismo e la diplomazia in futuro.

Cosa significano effettivamente gli avvisi di viaggio internazionali sugli Stati Uniti?

Gli avvisi di viaggio non sono divieti di viaggio, ma sono linee guida ufficiali emesse da un governo per aiutare i suoi cittadini a prendere decisioni informate sulla visita di un paese straniero. Questi avvisi possono essere basati su una serie di fattori, tra cui disordini politici, criminalità, rischi per la salute o, in questo caso, pratiche di applicazione dell’immigrazione.

Il Foreign Office tedesco avverte che anche ai viaggiatori con visti validi o autorizzazione di viaggio ESTA approvata potrebbe essere negato l’ingresso.

“L’approvazione di una domanda ESTA o il rilascio di un visto non garantisce l’ingresso negli Stati Uniti”, afferma l’ufficio. “La decisione finale viene presa dalle autorità di frontiera degli Stati Uniti al momento dell’ingresso”.

Il Foreign, Commonwealth & Development Office (FCDO) del Regno Unito ha fatto eco a questo messaggio:

“Potresti essere passibile di arresto o detenzione se infrangi le regole”.

Questi avvertimenti non vietano i viaggi, ma evidenziano che l’ingresso negli Stati Uniti è sempre più visto come incerto, anche per i turisti provenienti da nazioni alleate di lunga data.

Airplanes
(Un Boeing 767-432 passeggeri di Delta Airlines può essere visto avvicinarsi all’aeroporto internazionale John F. Kennedy di New York City il 4 marzo 2025. Foto di CHARLY TRIBALLEAU / AFP – Foto di CHARLY TRIBALLEAU/AFP)

Perché i paesi aggiornano i loro avvisi sulle visite negli Stati Uniti?

I nuovi avvisi fanno seguito a diversi incidenti che coinvolgono cittadini stranieri detenuti o deportati negli aeroporti statunitensi, nonostante siano in possesso di documentazione valida.

In un caso, un cittadino tedesco con una carta verde valida sarebbe stato trattenuto all’aeroporto internazionale Logan di Boston e collocato in una struttura di detenzione. Secondo quanto riferito, altri casi riguardano complicazioni d’ingresso legate a marcatori di genere sui documenti o incongruenze nei piani di viaggio.

Gli avvertimenti sembrano riflettere un cambiamento più ampio nelle politiche di controllo delle frontiere degli Stati Uniti, che ora applicano un maggiore controllo anche a piccoli errori o discrepanze nelle scartoffie.

Questi avvertimenti potrebbero danneggiare il turismo statunitense?

Gli Stati Uniti rimangono uno dei paesi più visitati al mondo, ma gli avvertimenti coordinati da paesi come il Regno Unito e la Germania potrebbero influire sulla fiducia dei viaggiatori, in particolare tra i visitatori non essenziali o per la prima volta.

Il Regno Unito e la Germania inviano milioni di turisti negli Stati Uniti ogni anno. Se questi viaggiatori percepiscono gli Stati Uniti come imprevedibili o inospitali al confine, ciò potrebbe influire sulle entrate del turismo, in particolare nelle principali destinazioni come New York City, Miami e Los Angeles.

Sebbene la maggior parte dei viaggiatori entri senza problemi, la natura altamente pubblicizzata degli avvisi, in particolare per quanto riguarda la documentazione valida, potrebbe indurre alcuni a cercare alternative.

Cosa significa quando un paese avverte i cittadini di viaggiare in America

Per più nazioni alleate emettere avvisi di viaggio sugli Stati Uniti nel giro di pochi giorni è molto insolito. Sebbene ogni paese abbia formulato il proprio avviso in modo indipendente, il messaggio è coerente: l’ingresso non è più visto come una routine o garantito.

Gli avvertimenti suggeriscono una crescente preoccupazione per il fatto che le pratiche di applicazione dell’immigrazione negli Stati Uniti siano incoerenti, anche nei confronti dei cittadini di paesi con stretti legami diplomatici e accordi di esenzione dal visto di lunga data.

Per i viaggiatori, la guida è chiara: portare la documentazione, prepararsi a un interrogatorio dettagliato e capire che l’autorizzazione a viaggiare non è la stessa cosa dell’autorizzazione a entrare.

Per gli Stati Uniti, la natura coordinata di questi avvertimenti può essere un segnale diplomatico: gli alleati stanno osservando come gli Stati Uniti trattano i loro cittadini e non danno più per scontato che andrà tutto liscio.

Possibile che nessun giornalista chieda conto a Gratteri dei morti ammazzati a Napoli? (ildubbio.news)

di Giacomo Losi

Il procuratore discetta di libri, guerra e riforme 
nei salotti televisivi. 

E a nessuno viene in mente di chiedergli della situazione in città, dove già 5 giovani sono stati uccisi dall’inizio di quest’anno

C’è qualcosa di anomalo, anzi di profondamente anomalo, nel rapporto tra il procuratore Gratteri e il giornalismo italiano.

Le ultime incursioni televisive, due in soli due giorni, si sono celebrata al cospetto di giornalisti di grande prestigio, eppure dopo i soliti elogi, i soliti strali sulla separazione delle carriere, le accuse sulla riforma delle intercettazioni volte al declino, nessuno che abbia fatto un pur minimo accenno alla situazione di Napoli, ai giovani giustiziati nel centro della città tra la gente sbigottita e terrorizzata, nessuno che abbia evocato il controllo capillare che la camorra – si dice – eserciti su molto del turismo che sta arricchendo i quartieri partenopei, un tempo interdetti ai turisti dalla violenza di strada e oggi meta quasi indisturbata di frotte di visitatori che versano copioso denaro a destra e a manca.

Eppure il cadavere di Emanuele Durante, 20 anni, ucciso sabato pomeriggio in via Santa Teresa degli Scalzi, nel centro di Napoli, era ancora in obitorio; un delitto spietato, feroce come quello di altri quattro ragazzi che dall’inizio del 2025 sono stati massacrati in puro stile camorristico.

Si leggeva in uno dei più frequentati siti web della città già dopo l’omicidio di Pasquale D’anna, 34 anni, ucciso nel quartiere Fuorigrotta il 2 marzo scorso: «una sequenza di episodi che evidenzia la continua fibrillazione dei clan camorristici operanti nell’area metropolitana di Napoli. Nonostante gli sforzi delle forze dell’ordine, le organizzazioni criminali mantengono una presenza radicata, influenzando la sicurezza e la stabilità sociale della città, in particolare delle periferie».

Parole obiettivamente pesanti per chi ha il compito di fronteggiare la criminalità camorristica e di cui sarebbe stato, come dire, giusto? opportuno? decente? o forse solo necessario chiedere conto al capo della Procura di Napoli che dirige la più numerosa procura della Repubblica d’Italia e la cui ultima indagine, ampiamente pubblicizzata come sempre, riguardava mazzette nel racket delle pompe funebri. Un po’ pochino si potrebbe dire.

Ma certamente le indagini sui delitti sono in corso, come si suol dire, ma tanta timidezza giornalistica verso il responsabile della procura partenopea sembra decisamente fuor di luogo. Il dottor Gratteri la cui fama varca il territorio nazionale, non è un qualunque esperto di cose di giustizia o di mafia, ma è principalmente il procuratore di Napoli che dovrebbe, qualche volta, anche dar conto di come le sue analisi, i suoi strali, le sue denunce si concretizzino – atterrino come si ama dire – nei suoi processi e nelle sue indagini e soprattutto nelle condanne inflitte.

Questione spinosa, questa, che recentemente lo ha visto contrapposto a un’altra testata giornalistica (Il Foglio) con la quale ha duellato a distanza a proposito dei risarcimenti per ingiusta detenzione pagati dallo Stato in terra calabra. Uno scontro di cifre che poteva essere pacificamente risolto considerando, non gli importi pagati in assoluto in Italia, ma il semplice rapporto tra assoluzioni e popolazione regionale che in Calabria è pari a un terzo della Campania o del Lazio.

Domande tenute nel cassetto nella convinzione, forse, di non disturbare un ospite che comunque porta audience alla rete televisiva e attrae quelle frange giustizialiste che ancora si agitano nella pancia del paese intorno a una antimafia ormai dappertutto in ritirata ideologica e, quindi, mediatica.

Ecco, a dispetto certo della sua volontà, si ha come l’impressione che il procuratore Gratteri incarni ormai un cliché, occupi un preciso spazio politico e ideologico che legge le sue interviste, partecipa ai suoi numerosi convegni in giro per l’Italia, compra i suoi libri, accende la tv nelle sue comparsate in video.

Un mondo certo in declino, che ha esaurito (tra gli scandali delle toghe e le troppe assoluzioni) la propria “spinta vitale”, ma che resiste a testimonianza e presidio, forse, della propria stessa esistenza, piuttosto che della vera necessità di scovare le mafie svanite ormai nell’ombra.