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La via maestra fra il nazionalismo di Meloni e il pacifismo hippy di sinistra (linkiesta.it)

di

Destino Manifesto

La pace richiede forza, non illusioni. Serve un progetto politico serio per l’Europa: il federalismo armato immaginato a Ventotene, che Mario Draghi conosce bene

Repubblica ha replicato ieri a Giorgia Meloni, che al congresso di Azione aveva accusato la sinistra pacifista di voler fare dell’Europa demilitarizzata una grande comunità hippy. Il quotidiano di riferimento del Partito democratico lo ha fatto attraverso la voce di Concita De Gregorio, che propone la visione della sinistra-sinistra di Elly Schlein, Giuseppe Conte, Maurizio Landini e Nicola Fratoianni, mentre a Massimo Recalcati è affidato il compito di parlare per quel che resta della parte socialdemocratica nel Partito democratico.

De Gregorio ha rappresentato il favoloso mondo dell’Europa demilitarizzata, riconoscendo che gli ideali sono spesso fallaci, ma concludendo che «se la scelta è fra aderire all’orrore o alla giustizia sociale, alla guerra o alla pace», non c’è dubbio su cosa preferire. Come darle torto, poveri noi?

C’è forse un piccolo imbroglio intellettuale in queste parole, però: l’orrore e la guerra non nascono in seno all’Europa, ma sono state portate in Ucraina nei carri armati della Russia di Vladimir Putin. Putin, una volta annientata l’Ucraina senza più problemi per lui – grazie alla nuova Europa della pace e della giustizia – e scrupoli per noi, si fermerebbe ai confini della Polonia e dei Paesi baltici?

De Gregorio non ci fa sapere cosa ne pensa. È possibile che ritenga guerrafondaia già la sola domanda. Rispetto i suoi sentimenti, ma una cosa vorrei sapere: come si concilia tutto ciò che di bello e di buono raccomanda con il racconto dell’orrore che provò visitando adolescente Birkenau e con l’emozione che le suscitarono certi film sull’Olocausto?

Pensa che un’Europa demilitarizzata avrebbe scongiurato tutto questo, impedendo al nazifascismo di tentare di impadronirsi della parte pacifista dell’Europa e, en passant, cancellare l’esistenza degli ebrei? E pensa che il Regno Unito di Winston Churchill e poi gli Stati Uniti di Franklin Delano Roosevelt sbagliarono, preferendo la via del riarmo a quella della pace e della prosperità?

Sono domande amare, ma non difficili, mi pare – e soprattutto necessarie. Vedremo se arriverà una risposta. Intanto provo ad azzardarne una: la via maestra fra il nazionalismo di Meloni e il pacifismo hippy, c’è – e se De Gregorio lo rileggesse, la troverebbe proprio nel Manifesto di Ventotene.

No, il Manifesto non era pacifista, non voleva affatto un’Europa demilitarizzata, voleva quella stessa Europa armata di un esercito federale che dieci anni dopo avrebbero proposto Alcide De Gasperi, Robert Schuman e Konrad Adenauer, e che purtroppo non si realizzò. No, non l’ha riletto, quel Manifesto, altrimenti non accrediterebbe la lettura pessima che ne ha fatto Meloni parlando, secondo la riscrittura sarcastica che ne fa De Gregorio, di «quegli scappati di casa di Ventotene che volevano abolire la proprietà privata: l’Europa comunista, pensa te».

No, nel Manifesto non si chiede di abolire la proprietà privata: si chiede, al contrario, in polemica diretta con i molti comunisti confinati a Ventotene, di creare un’economia che allora si poteva chiamare socialista liberale e che poi in Germania si chiamò – e tuttora si chiama – ordoliberale, meglio conosciuta come economia sociale di mercato: quella che con il Trattato di Maastricht divenne la politica economica ufficiale dell’Unione europea (a sinistra la condannano come neoliberista e a destra come nemica della sovranità nazionale).

Rivelo infine un segreto: sapete chi è il più autorevole interprete odierno del Manifesto di Ventotene, sia sui temi della difesa che su quelli dell’economia? Ma sì, Mario Draghi. Perché Repubblica non lo intervista?

Cari ospiti di Gruber, ribellatevi alle falsità di Travaglio sull’Ucraina (ilfoglio.it)

di Adriano Sofri

Piccola Posta

Il direttore del Fatto ripropone ostinatamente lo stesso “argomento”: Zelensky avrebbe rifiutato qualsiasi negoziato che non prevedesse il ripristino integrale dei confini ucraini.

Ma quest’argomento è una contraffazione che coincide esattamente con la propaganda del Cremlino

Gentili ospiti di Lilli Gruber: Nathalie Tocci, Massimo Giannini, Paolo Mieli, Lucio Caracciolo, Lina Palmerini, Monica Guerzoni, Mario Monti, Andrea Scanzi, Beppe Severgnini, Alessandro De Angelis, Rosi Braidotti, Massimo Cacciari, Luca Josi, Pino Corrias… – completate voi l’elenco, cito alla rinfusa, prescindendo dalle varie opinioni, e confidando nella comune larga alfabetizzazione – vorrei chiedervi come mai nessuna e nessuno di voi, salvo che m’inganni (perdo troppe puntate), abbia mai obiettato a un “argomento” stentoreamente e sprezzantemente enunciato dal mio beniamino Marco Travaglio più o meno un giorno sì e uno no.

L’“argomento” dice che Zelensky si legò le mani rispetto a qualsiasi negoziato quando nel settembre del 2022 decretò il divieto a trattative con la Russia di Putin che non prevedessero il ripristino integrale dei confini ucraini (lunedì Travaglio, sulla cresta dell’onda trumpian-putiniana, si è spinto a rivelare che la delegazione ucraina non si incontra coi russi ma separatamente con gli americani perché resta sequestrata da quella fanatica smania di Zelensky di bruciare i vascelli alle spalle proprie e della sua gente).

Non so definire Travaglio “ospite” della trasmissione, perché gli ospiti alla seconda o alla terza villania smettono di essere tali, e Travaglio la fa da padrone. Ma l’argomento sul quale imperversa indisturbato è peggio che una falsità, è una contraffazione. Letteralmente coincidente con la retorica del Cremlino. 

Nell’ultima settimana di settembre del 2022, Putin indisse in fretta e furia, specialmente furia, un referendum nelle quattro regioni di Lugansk, Donetsk, Zaporizhia e Kherson.

Avvenendo in un regime di occupazione armata, di fughe e di deportazioni, il referendum non poteva essere riconosciuto legittimo da alcun istituto democratico. Ebbe anche un corollario farsesco, perché le quattro regioni erano solo parzialmente occupate dalle forze russe, e lo sono ancora oggi. L’oblast’ di Kherson era stata occupata senza colpo ferire dalla prima avanzata russa, grazie al tradimento di sue autorità, ma era stata riguadagnata largamente, compreso il capoluogo, dalla controffensiva ucraina.

Anche dell’oblast’ di Zaporizhia era ed è restato in mano ucraina lo stesso omonimo capoluogo.

Col referendum, e il corrispondente cambiamento costituzionale, la Russia decretava l’annessione delle regioni – il 15 per cento, sulla carta, del territorio ucraino – alla madrepatria, così da rendere “esistenziale” e non negoziabile l’appartenenza russa di quelle terre (come della Crimea occupata nel 2014).

“Pagliacciata sfrontata, precedente all’impegno di Zelensky a escludere un negoziato che non prevedesse l’integrità dei confini legali del paese, e ignorata dagli equidistanti sedicenti e dai pacifisti scandalizzati dall’intransigenza ucraina”.

“Le quattro regioni votate dagli umoristici referendum ‘parte del territorio della madrepatria russa per l’eternità’, e perciò bombardate ogni giorno – con una predilezione per gli ospedali e i mercati a Kherson, per i condomini a più piani a Zaporizhia.

Con quei ‘referendum’, annettendosi anche quello che non aveva, Putin aveva creato il suo fatto compiuto: non ci sarebbe stato negoziato senza riconoscerlo, perché il ‘territorio russo’ non è negoziabile, nemmeno quando non ce l’hai”. Dunque era Putin che bruciava i vascelli alle spalle proprie e della gente russa, e si vietava qualunque negoziato sulle regioni annesse.

Dopo di allora, Putin e i suoi portavoce non hanno fatto che ribadirlo. Peskov ancora due giorni fa, all’Afp: “I territori che sono divenuti soggetti della Federazione Russa, che sono iscritti nella Costituzione del nostro paese, ne costituiscono una parte inseparabile. Questo è innegabile e non negoziabile”.

La cerimonia della firma dell’annessione si era tenuta nel Salone di san Giorgio del Cremlino il 30 settembre del 2022. Putin proclamò: “Voglio che le autorità di Kyiv e i loro veri manovratori in occidente mi ascoltino, e si ricordino, tutti: le persone che vivono nel Lugansk e nel Donetsk, nel Kherson e nel Zaporozhye sono diventate nostri cittadini, per sempre. (Applauso). Siamo pronti al negoziato, ma la scelta del popolo di Donetsk, Lugansk, Zaporozhye e Kherson non sarà in discussione. La decisione è stata presa e la Russia non la tradirà. (Applauso). Non c’è altra via alla pace!”. L’alternativa era messa nel modo più limpido: o la rassegnazione a quelle annessioni, o la bomba atomica. 

Questo avveniva alla fine di settembre. Il martedì 4 ottobre 2022 Volodymyr Zelensky firmò un decreto che dichiarava “impossibile” la prospettiva di colloqui finché Vladimir Putin fosse presidente, lasciando aperta la strada a colloqui con una Russia futura.

Fu dunque in risposta a quei referendum truffaldini e all’annessione costituzionale “perpetua” che Zelensky emanò il decreto, e sette mesi dopo simulati negoziati nei quali la Russia non aveva fatto altro che esigere la capitolazione piena dell’Ucraina. L’“argomento” decisivo di Travaglio cancella serenamente l’antefatto, col quale era stato Putin a legarsi le mani quanto alle condizioni insuperabili per il negoziato, e fa di Zelensky l’autore, invece che colui che reagì al fatto compiuto della Russia. 

La sequenza, importante come apparve fin da quando avvenne, e periodicamente rievocata, è di facilissima verifica. Io l’ho ricostruita periodicamente un certo numero di volte (qui sopra un po’ citate), peraltro molto inferiore alle innumerate volte in cui Travaglio l’ha proclamata e falsificata a modo suo.

Va da sé che non mi aspetto che ospiti di Gruber e lei stessa, nell’invaso nido di cuculo, mi leggano: a ciascuno il suo. Ma come mai non hanno, motu proprio, una ribellione alla falsità e all’impudenza di Travaglio? Come mai, qualunque opinione abbiano, non la fanno precedere dalla verità, così scoperta? Italiane, italiani, ospiti di Gruber, ancora uno sforzo.

«Si continua a morire in carcere e il governo fa soltanto propaganda» (ildubbio.news)

di Valentina Stella

L’intervista

La deputata del Partito Democratico Michele Di Biase: «Il lavoro degli Stati generali sull’azione penale è un punto di partenza importante per rilanciare l’impegno del Pd»

Michela Di Biase, deputata dem e membro della Commissione Giustizia, la maggioranza parlamentare ha disertato la seduta straordinaria della Camera sull’emergenza carcere. Come commenta?

Quanto avvenuto fotografa l’assoluto disinteresse del governo a uscire fuori dalla solita propaganda e la volontà di affrontare il problema; l’assenza dello stesso Nordio basta da sola a commentare quanto sto dicendo. I dati ci confermano che siamo davanti ad una vera e propria emergenza: abbiamo registrato 91 suicidi nel 2024, e sono già 22 quest’anno. Ogni quattro giorni, un detenuto sottoposto alla custodia dello Stato, si toglie la vita. Davanti a tutto questo le scelte compiute sul carcere sono del tutto insufficienti, nessuno dei problemi in due anni e mezzo di propaganda è stato risolto: dal sovraffollamento carcerario alla salute mentale, dalla mancanza di personale socio- educativo al rafforzamento delle misure alternative alla detenzione.

Come giudica l’atteggiamento di Forza Italia sul tema?

Le scelte di Forza Italia sono in linea con il governo ma in controtendenza rispetto alla storia di garantismo tanto sbandierata in questi anni. Si pensi alle scelte compiute sulle detenute madri: una eclatante marcia indietro. La verità è che si sono preoccupati della tenuta della maggioranza invece che dell’interesse supremo del minore, che mai dovrebbe pagare per le colpe commesse da un adulto. Il carcere non è un luogo dove un minore dovrebbe crescere.

A proposito delle detenuti madri ci sarebbe una moral suasion del Quirinale affinché si modifichi l’art. 15 del ddl sicurezza insieme a quelli relativi alle sim per i migranti e la resistenza passiva in carcere. Secondo lei come andrà a finire?

Ci auguriamo che maggioranza e governo si fermino, perché il ddl Sicurezza – soprattutto per gli aspetti sottolineati nella domanda – rappresenta una vera e propria violazione dello Stato di diritto. Si tratta di un provvedimento che mette in crisi alcuni baluardi della civiltà giuridica e del diritto internazionale, come la sospensione della pena per le detenute madri. Un disegno di legge che introduce nuovi reati e nuovi aumenti di pena che andranno a colpire i più vulnerabili della società: il populismo penale della destra ha come primo obiettivo quello di colpire i fragili.

Nordio editorialista si era sempre mostrato a favore delle depenalizzazioni e di un carcere come extrema ratio, contro l’ergastolo. Il suo cambiamento secondo lei da cosa deriva?

Quella del ministro Nordio è una piroetta clamorosa. Spiace constatare che nessuna delle affermazioni del Nordio giurista abbiano trovato corrispondenza nei provvedimenti sostenuti dal Nordio ministro. Siamo passati dal sentirlo dire che l’inasprimento delle pene non è la soluzione ai problemi della criminalità alla creazione di più di 50 tra nuovi reati e aumenti di pena. Questa ossessione panpenalista non fa che produrre un aumento del numero dei detenuti, senza mai discutere delle vere soluzioni per ridurre il sovraffollamento, in primis le misure alternative alla detenzione. Anche sulla giustizia minorile ritroviamo lo stesso approccio, le stesse contraddizioni. Con il decreto Caivano hanno minato alle basi il sistema della giustizia minorile, uno dei migliori di tutta Europa. E il risultato è che si è superato il record di minorenni in carcere, facendo diventare il sovraffollamento una realtà drammatica e strutturale anche per gli istituti minorili.

Il sottosegretario Andrea Delmastro mette a rischio la campagna del governo sulla separazione delle carriere, rivendica una visione giustizialista della pena, scatena un nuovo conflitto con la magistratura quando parla di “sentenza politica” nel momento in cui viene condannato. È più una risorsa per il governo o un problema?

Stiamo parlando di un sottosegretario, con delega alle carceri, che durante una manifestazione pubblica ha rivendicato di provare piacere nel togliere l’aria ai detenuti. Lo stesso che ha criticato la separazione delle carriere salvo poi negare di averlo detto. Un sottosegretario che continua ad alimentare il conflitto con la magistratura, come ha fatto in occasione della sentenza emessa nei suoi confronti. Se c’è un tratto che caratterizza Delmastro è il fatto di essere totalmente privo di rispetto per il ruolo che ricopre.

Siamo sinceri: il Pd ha la responsabilità di non aver fatto approvare per timore elettorale tutto il grande lavoro degli Stati generali sull’esecuzione penale. Adesso invece conduce una battaglia costante per i diritti dei detenuti. Non temete che anche adesso possa essere sconveniente portarla avanti?

Il Pd non inizia certo oggi il lavoro sull’esecuzione penale e il carcere. Oggi come ieri trovo doveroso questo impegno, proprio in virtù del grande e complesso lavoro che è stato fatto. L’instabilità politica ha sicuramente pesato sul raggiungimento dell’obiettivo finale ma quel lavoro rappresenta un punto di partenza importante per rilanciare la nostra azione. Nel 2013, con la sentenza Torreggiani, il nostro Paese ha subito una procedura d’infrazione per la condizione delle carceri. Oggi, a distanza di 12 anni, siamo drammaticamente vicini a quella situazione. Questa è la preoccupazione che dovrebbe muovere il governo, che invece continua a perseguire un piano carceri che è stato pomposamente annunciato ma di cui a distanza di anni troviamo solo la nomina di un commissario per l’emergenza carceri e di una struttura commissariale. Nel frattempo disertano le Aule e i detenuti continuano a togliersi la vita.

Quanto si diverte J.D. Vance in Groenlandia? (spiegel.de)

di Philipp Wittrock

Esteri

Oggi parliamo della fase calda dei negoziati della coalizione nero-rossa, del viaggio del vicepresidente degli Stati Uniti in Groenlandia e della guerra culturale di Donald Trump contro le università liberali.

Negoziati da un miliardo di euro tra i neri e i rossi
La qualità prima della velocità: con questo requisito, Friedrich Merz vuole alleggerire un po’ la pressione. In realtà, il futuro cancelliere voleva che il suo nuovo governo si insediasse entro Pasqua, cioè in tre settimane buone.
Ma non è più così preciso con il programma. Probabilmente è meglio così.
Negoziatori Friedrich Merz, Lars Klingbeil, Markus Söder, Saskia Esken(Negoziatori Friedrich Merz, Lars Klingbeil, Markus Söder, Saskia Esken Foto: Ralf Hirschberger / AFP)
Perché i negoziatori nero-rossi hanno ancora una strada rocciosa davanti a loro. Da oggi il gruppo dirigente, composto da 19 membri, intende riunire i risultati dei singoli gruppi di lavoro specialistici e chiarire i principali punti controversi che rimangono. Ce ne sono parecchi: l’immigrazione, le tasse, le pensioni, l’energia.
  • Leggete qui ciò su cui l’Unione e la SPD hanno già concordato.

E poi c’è soprattutto la domanda: chi dovrebbe pagare per questo? L’allentamento del freno all’indebitamento e il fondo speciale offrono un po’ di respiro. Ma le liste dei desideri dei gruppi di lavoro sono così lunghe che farebbero saltare in aria il tesoro dello Stato se tutto fosse attuato.

Dai pasti gratuiti all’asilo nido all’edilizia sociale fino agli sgravi fiscali: secondo le informazioni dello Spiegel, le proposte dei politici specializzati per i prossimi quattro anni ammontano a circa 500 miliardi di euro. E questo nonostante il Ministero delle Finanze abbia già individuato un gap di oltre 100 miliardi per la nuova legislatura.600 miliardi di euro non possono essere raccolti così. Merz, Klingbeil e Co. dovranno stabilire delle priorità e annullare molti desideri.

Goffa provocazioneA quanto pare J.D. Vance si è trovato piuttosto divertente quando ha annunciato in un video questa settimana che avrebbe accompagnato sua moglie Usha nel suo viaggio in Groenlandia oggi. C’era così tanta eccitazione per il viaggio di sua moglie che non avrebbe dovuto “divertirsi da sola”.Haha, una provocazione così goffa è davvero divertente, vero?

Consolato degli Stati Uniti a Nuuk(Consolato degli Stati Uniti a Nuuk Foto: Juliette Pavy / AFP)

È solo un peccato che l’intero viaggio sia ora piuttosto imbarazzante per i Vances. A quanto pare, i pianificatori di viaggio del governo americano non hanno trovato nessun groenlandese che voglia offrirsi per una messa in scena con gli ospiti non invitati. Il capo di Vance, Donald Trump, che è disperato per annettere il territorio danese semi-autonomo, avrebbe certamente voluto vantarsi: Guardate, ci amano!Ma non c’era amore, solo avversione.
E le immagini delle proteste anti-americane sono state preferite da evitare a Washington. Quindi: nessuna visita alla gente del posto, nessuna visita a siti storici, nessuna gara di slitte trainate da cani, come era stato pianificato. Invece, questo venerdì andranno solo dai soldati statunitensi nell’isolata base spaziale di Pituffik, nella parte occidentale dell’isola gigante.Intanto, a 1500 chilometri di distanza, nella capitale Nuuk, si formerà il nuovo governo della Groenlandia.
Quattro partiti su cinque in parlamento, secondo i media locali, vogliono unire le forze in una coalizione. Uno dei loro obiettivi: resistere insieme alla pressione degli Stati Uniti.

Studenti in preda alla paura

Dopo tutto quello che è già successo, gli studenti stranieri negli Stati Uniti dovrebbero prendere sul serio l’avvertimento di Marco Rubio. Chiunque si trovi in America con un visto per studenti e causi disordini avrà il visto revocato, ha dichiarato il Segretario di Stato di Donald Trump. 300 visti sono già stati confiscati, forse di più. “Ogni volta che trovo uno di questi pazzi, gli tolgo il visto”.

Protesta contro l'arresto di una dottoranda turca(Protesta contro l’arresto di una dottoranda turca Foto: Taylor Coester / EPA)

Per l’amministrazione Trump, pazzi e piantagrane sono attualmente tutti coloro che considera attivisti filo-palestinesi. Questa settimana, funzionari del Dipartimento della Sicurezza Interna in abiti civili scuri hanno circondato per strada una studentessa turca laureata alla Tufts University, vicino a Boston, e l’hanno arrestata per presunta propaganda per Hamas.
Di questo accusato è anche Mahmoud Khalil della Columbia University, che si trova in carcere nonostante la carta verde. Un indiano è stato arrestato alla Georgetown University, dove si dice anche che abbia diffuso l’odio islamista contro gli ebrei.
Per quanto è noto, non sono ancora stati accusati di reati penali.La campagna fa parte della guerra culturale di Trump contro i centri di conoscenza liberali che odia. Non solo gli studenti sono intimiditi, ma anche le università stesse sono messe sotto pressione. Coloro che non sono in fila devono aspettarsi di perdere milioni di sussidi.
  • Leggi qui  come Trump sta prendendo di mira le università d’élite

La cosa brutta è che il calcolo di Trump ha funzionato finora. I funzionari delle università d’élite rimangono in silenzio, facendo concessioni perché minacciati di “misure coercitive” se “non adempiono ai loro obblighi di proteggere gli studenti ebrei nei campus”. Infatti, scrive il mio collega Claus Hecking, che scrive da Boston per lo Spiegel, Trump e i suoi non si preoccupano dell’antisemitismo, ma di qualcosa di più fondamentale: “Vogliono il controllo ideologico sul settore dell’istruzione”.

Per impedire al presidente di avere successo, qualcosa deve accadere urgentemente. Le università devono ribellarsi, insieme, dice Claus: “Solo se si alleano e offrono una resistenza collettiva hanno una possibilità”.