Personalizza le preferenze di consenso

Utilizziamo i cookie per aiutarti a navigare in maniera efficiente e a svolgere determinate funzioni. Troverai informazioni dettagliate su tutti i cookie sotto ogni categoria di consensi sottostanti. I cookie categorizzatati come “Necessari” vengono memorizzati sul tuo browser in quanto essenziali per consentire le funzionalità di base del sito.... 

Sempre attivi

I cookie necessari sono fondamentali per le funzioni di base del sito Web e il sito Web non funzionerà nel modo previsto senza di essi. Questi cookie non memorizzano dati identificativi personali.

Nessun cookie da visualizzare.

I cookie funzionali aiutano a svolgere determinate funzionalità come la condivisione del contenuto del sito Web su piattaforme di social media, la raccolta di feedback e altre funzionalità di terze parti.

Nessun cookie da visualizzare.

I cookie analitici vengono utilizzati per comprendere come i visitatori interagiscono con il sito Web. Questi cookie aiutano a fornire informazioni sulle metriche di numero di visitatori, frequenza di rimbalzo, fonte di traffico, ecc.

Nessun cookie da visualizzare.

I cookie per le prestazioni vengono utilizzati per comprendere e analizzare gli indici di prestazione chiave del sito Web che aiutano a fornire ai visitatori un'esperienza utente migliore.

Nessun cookie da visualizzare.

I cookie pubblicitari vengono utilizzati per fornire ai visitatori annunci pubblicitari personalizzati in base alle pagine visitate in precedenza e per analizzare l'efficacia della campagna pubblicitaria.

Nessun cookie da visualizzare.

Da non escludere la pista russa nell’attentato a Mannheim dell’anno scorso (cdt.ch)

Germania

Secondo i giornalisti della ZDF ci sono elementi per collegare gli attentati in Germania di matrice islamista – in particolare quello del 31 maggio 2024 – ad azioni russe nell’ambito di una guerra ibrida: è questa la rivelazione fatta sul secondo canale tedesco nel corso del programma Terra X History

Secondo i giornalisti della ZDF ci sono elementi per collegare gli attentati in Germania di matrice islamista ad azioni russe nell’ambito di una guerra ibrida: è questa la rivelazione fatta sul secondo canale tedesco nel corso del programma Terra X History.

In particolare, un’anomala attività sulla rete dalla Russia porta a credere un qualche tipo di coinvolgimento sull’attentato di Mannheim del 31 maggio 2024, quando un giovane afghano uccise con un coltello un poliziotto e ferì diverse persone. Nello specifico, già quattro giorni prima dell’attacco, in Russia erano state effettuate ricerche on line per un «attacco terroristico a Mannheim».

Al momento le indagini non deviano dalla versione dell’attentato di matrice islamista e anche secondo la ZDF non esistono prove concrete per ipotizzare il coinvolgimento russo ma la ZDF ha raccolto anche l’opinione del parlamentare verde Konstantin von Notz, nella scorsa legislatura a capo della commissione di controllo sui servizi segreti: «penso che sia abbastanza ovvio che queste tracce digitali come pure la loro valutazione e analisi possano rappresentare un elemento importante per avvicinarsi significativamente alla verità».

Nel programma si fa riferimento anche ad altri episodi, secondo il candidato alla cancelleria Friedrich Merz una guerra ibrida della Russia contro l’Europa «è già in corso».

Dove nasce la diffidenza degli ucraini verso gli americani e viceversa (ilfoglio.it)

di Adriano Sofri

Piccola Posta

Il formidabile reportage di Adam Entous per il New York Times rivela dettagli istruttivi sui dissensi interni alle autorità ucraine e quelli fra gli ucraini e gli americani.

Fra la scelta di resistenza di un popolo e la decisione di sostenerla “a condizione” con un guinzaglio modulabile, si è giocata una rischiosa partita

Il servizio firmato da Adam Entous per il New York Times, “La storia segreta del coinvolgimento americano nella guerra ucraina”, è formidabile.

Non tanto per le rivelazioni quanto per il racconto. Entous, e la sua ampia cerchia di collaboratrici e collaboratori, riferisce di aver raccolto più di 300 interviste con esponenti politici e militari di nove paesi, nell’arco di più di un anno. E’ evidente dal testo che la sua fonte decisiva è un generale ucraino, Mykhaylo Zabrodskyi, 51 anni, che ha avuto una parte essenziale nel rapporto coi responsabili militari Usa, e un’attenzione straordinaria ai rapporti psicologici fra gli attori principali delle due parti.

In Italia, il suo nome fu accostato all’ordine di aprire il fuoco di mortai che il 24 maggio 2014, vicino a Slovjansk, nel Donetsk, uccise il fotoreporter italiano Andy Rocchelli e il giornalista e militante di Memorial Andrej Mironov. Dopo l’assoluzione definitiva, in Italia, dell’unico imputato, il militare ucraino Vitaly Markiv, due nostri giornalisti, Andrea Sceresini e Giuseppe Borello, hanno realizzato nel 2022 un documentario televisivo, per RaiNews24, “La disciplina del silenzio”, intervistando anche Zabrodskyi, allora deputato per il partito di Poroshenko.

Riassumono gli autori: “Zabrodskyi, pur respingendo ogni addebito, ha dichiarato di non poter smentire né le ricostruzioni certificate dalla giustizia italiana (che ha stabilito che i colpi mortali furono esplosi dalla collina) né le parole dei nostri testimoni. Ha ammesso, inoltre, che tutte le forze presenti a Karachun – compresi gli uomini della Guardia Nazionale – erano sotto il suo comando”.

L’inchiesta di domenica del Nyt riserva dettagli vivaci e istruttivi sulle rivalità e i dissensi fra le autorità ucraine, a partire dalle più note, fra Zelensky e il generale Zaluzhny, e fra Zaluzhny e il suo vecchio capo, poi suo successore, il generale Syrsky. Altrettanto forti e incidenti i dissensi e le diffidenze fra gli ucraini e gli americani, al punto da far attribuire a un ritardo di un comandante ucraino delle operazioni, deliberato e quasi dispettoso, il fallimento della seconda controffensiva.

Il punto più importante del racconto, se non il più umanamente interessante, sta nella ricostruzione delle “linee rosse” via via imposte e rimosse alla libertà d’azione ucraina, col limite insieme insuperabile e però azzardatamente saggiato di sventare reazioni “disperate” o estreme delle forze russe – il ricorso all’arma nucleare, divenuto probabile “fino al 50 per cento”.

C’è gran materia per ripercorrere il passato, ricordandosi che la guerra è ancora in corso. E anche che a guerra in corso una simile ricostruzione della sua conduzione sembra incompatibile con i precetti del segreto militare, e si mostra certo impensabile quanto al racconto dell’altra parte.

C’è intanto un punto cruciale per il confronto delle opinioni e delle superstizioni sulla responsabilità della guerra, per i molti cui è piaciuto esentarne la Russia, e anzi indicare nell’invasione del febbraio 2022 il coronamento del sogno degli Usa, della Nato e dell’occidente.

Il punto è la definizione della “proxy war”, la guerra condotta dall’Ucraina “per procura”. Gli ucraini si sono battuti, sono stati uccisi, mutilati, espiantati, impoveriti, spaventati, per conto terzi – della Nato, degli Usa, dell’occidenteChi abbia seguito la guerra dal 24 febbraio del 2022, e prima dal 2014 del secessionismo fomentato nel Donbas e dell’annessione della Crimea, senza altro pregiudizio che la solidarietà con la passione per la libertà della gran parte di un popolo cui era stata costantemente e ferocemente negata, non ha dubitato della doppia partita.

Fra la decisione a resistere di Zelensky e dei suoi, e la decisione a sostenerne la resistenza “a condizione”, con un guinzaglio allungabile e accorciabile, si è giocata una partita rischiosa, in cui ciascuna delle parti, quella sul campo e quelle nella riparata retrovia dei rifornimenti di armi di addestramento e di intelligence, ha operato “per procura” dell’altra.

L’autore dell’inchiesta, Entous, citando un proprio altrettanto ampio reportage sulla Cia e l’intelligence ucraina del febbraio 2024 (con Michael Schwirtz) risponde così al primo di qualche migliaio di commenti sul giornale: “Una delle cose che ho imparato, sulla storia della relazione tra la Cia e le sue controparti ucraine, è stata la misura in cui gli ucraini hanno trascinato le loro controparti americane nel loro conflitto con la Russia. La Cia era inizialmente riluttante ad aiutare gli ucraini nella loro lotta”.

Dopo i primi giorni della guerra, e della incredibile resistenza ucraina all’aeroporto di Kyiv, avevo espresso una convinzione che mi ha guidato lungo i tre anni, e mi auguravo che rimanesse la convinzione dei responsabili ucraini: “L’Ucraina, non perdendo, vince. La Russia, non vincendo, perde”.

Il servizio di Entous si apre con questo riassunto: “A volte gli ucraini vedevano gli americani come prepotenti e autoritari, i prototipi degli americani paternalistici. A volte gli americani non riuscivano a capire perché gli ucraini non accettassero semplicemente i buoni consigli. Laddove gli americani si concentravano su obiettivi misurati e raggiungibili, vedevano gli ucraini come persone costantemente alla ricerca della grande vittoria, del premio luminoso e splendido. Gli ucraini, da parte loro, spesso vedevano gli americani come persone che miravano a frenarli. Gli ucraini miravano senz’altro a vincere la guerra. Anche se condividevano quella speranza, gli americani volevano assicurarsi che gli ucraini non la perdessero. Man mano che gli ucraini conquistavano una maggiore autonomia nella partnership, tenevano sempre più segrete le loro intenzioni. Erano perennemente arrabbiati perché gli americani non potevano, o non volevano, dare loro tutte le armi e le altre attrezzature che desideravano. Gli americani, a loro volta, erano arrabbiati per quelle che vedevano come richieste irragionevoli degli ucraini e per la loro riluttanza a decidere misure politicamente costose per rafforzare le loro forze ampiamente inferiori di numero /il reclutamento dai 18 anni…/”.

Soprattutto, gli uni e gli altri non hanno fatto i conti col tempo.

Il tempo portava malignamente in grembo Donald Trump, ed è là che ora siamo tutti. 

Quell’inganno su cifre e tariffe (corriere.it)

di Valentina Iorio

Il disavanzo commerciale

Sui dazi voluti da Donald Trump attenti all’inganno dei dati.

Non c’è alcuna reciprocità nei dazi di Donald Trump e il presidente americano non ha ragione di sostenere che l’Unione europea abbia «sfruttato» gli Stati Uniti attraverso pratiche commerciali per loro sfavorevoli o che il deficit commerciale degli Usa sia necessariamente frutto di presunte barriere.

Con l’aiuto dell’economista Antonio Villafranca, vicepresidente per la ricerca dell’Ispi, vediamo perché la narrazione del 47esimo inquilino della Casa Bianca non ha alcun fondamento economico e i dazi, in assenza di pratiche sleali, fanno male sia a chi li subisce che a chi li impone. Motivo per cui l’Europa deve pesare bene le contro-misure.

  1. Come ha spiegato la stessa amministrazione Trump, i dazi sono stati calcolati dividendo il deficit commerciale degli Stati Uniti verso un Paese per il totale delle importazioni da quel Paese. Cosa significa?

Prendiamo l’esempio dell’Unione europea. Nel 2024 il deficit commerciale Usa-Ue valeva 235,6 miliardi di dollari. Questo numero si ottiene facendo la differenza tra i beni che gli Stati Uniti hanno importato dall’Ue, per un valore di 605,8 miliardi di dollari, e le merci che hanno esportato verso l’Ue per 370,2 miliardi.

Questi 235,6 miliardi sono stati divisi per i 605,8 miliardi di dollari di importazioni Usa. Il risultato è 0,39 o 39%, che diviso due fa 19,5%, arrotondato poi al 20%: il dazio imposto all’Ue.

2. Sulla base di questo calcolo, Trump sostiene che l’Ue impone dazi del 39% agli Stati Uniti, ma non è così. Cosa dicono le cifre reali?

L’Ufficio del Rappresentante per il Commercio degli Stati Uniti, in un documento pubblicato il 31 marzo, sostiene che l’aliquota tariffaria media applicata dall’Unione europea era del 5% nel 2023. Una cifra, quindi, molto lontana dal 39% di cui parla il presidente americano. Ma quel 5% non è altro che la media delle tariffe europee sulle merci americane. Se ponderata per i settori merceologici, l’aliquota reale è poco al di sopra dell’1%, secondo le stime della Commissione europea. Ed è inferiore, anche se di poco, all’aliquota media ponderata dei dazi americani imposti sulle merci europee.

3. Tra le barriere che Trump contesta a Bruxelles ci sono anche standard e norme che, a suo dire, danneggiano gli Usa. Esiste davvero questo squilibrio?

L’Ue si è data degli standard ambiziosi, sia dal punto di vista ambientale che sanitario, che impone anche ai prodotti di importazione. Lo fa per tutelare i consumatori europei ma anche le aziende dal rischio di subire la concorrenza sleale di prodotti più a basso costo ma con standard inferiori. Per quel che riguarda la normativa sul digitale, la più invisa agli Stati Uniti, l’obiettivo è garantire una gestione dei dati che tuteli i cittadini e una concorrenza leale tra le piattaforme, evitando situazioni di monopolio.

4. Questo ha danneggiato Big Tech?

Al netto delle multe dell’Antitrust e dello sforzo che i colossi americani devono fare per adeguarsi agli standard europei, il vantaggio degli Usa sul digitale rimane fortissimo. I numeri parlano chiaro: l’Ue ha un deficit di 109 miliardi di euro nei servizi. Molti dei quali sono erogati dai colossi di Big Tech, che fanno grandi profitti in Europa.

5. Quali sono i rischi dei dazi?

Secondo le prime stime, a una famiglia media americana potrebbero costare 2.100 dollari l’anno. E peseranno sull’economia italiana per oltre mezzo punto percentuale nel triennio 2025-2027, secondo la Banca d’Italia. Fare una stima complessiva delle ricadute è difficile, perché non si può tenere conto solo dell’impatto diretto e bilaterale delle tariffe. Ad esempio, come effetto collaterale della guerra commerciale Usa-Cina, l’Ue rischia di essere inondata di importazioni cinesi a basso costo.

Perché l’Europa è impotente di fronte alla deriva illiberale ungherese? (linkiesta.it)

di

Relazione tossica

Nonostante anni di procedure e minacce, Bruxelles non riesce a imporre il rispetto dello stato di diritto all’Ungheria.

Dal requisito dell’unanimità alla debolezza della condizionalità sui fondi, il leader magiaro è il bug di un sistema fallimentare che andrebbe messo in discussione a partire dalle sue fondamenta federali

«La Commissione non esiterà a intraprendere ulteriori azioni nei confronti dell’Ungheria». Per l’ennesima volta, queste parole riecheggiano nell’emiciclo di Strasburgo.

Questa volta, a pronunciarle è il Commissario europeo per la democrazia e lo stato di diritto Michael McGrath, fresco di visita a Budapest, ha denunciato mercoledì in Parlamento riunito a Strasburgo l’ultima deriva autoritaria di Viktor Orbán: la legge approvata il 18 marzo che, con il pretesto di «proteggere i bambini», vieta di fatto il Pride di Budapest e qualsiasi assemblea pubblica che possa essere interpretata come promozione di «deviazioni dall’identità corrispondente al sesso di nascita».

Una norma che colpisce frontalmente la comunità LGBTQ ungherese, di cui il quattordici per cento ha già subito aggressioni fisiche nell’ultimo quinquennio secondo l’Agenzia UE per i diritti fondamentali. Come al solito, alla durezza delle parole non corrisponderà alcuna efficacia d’azione. Anche il rappresentante della presidenza polacca del Consiglio, il ministro Slabka, è intervenuto alla Plenaria con le solite formule diplomatiche vuote: «dialogo costruttivo», «approccio aperto».

La realtà è che dopo quindici anni di progressiva demolizione dello stato di diritto ungherese, l’Europa non ha ancora esaurito il suo repertorio di minacce senza conseguenze, tutto questo mentre Budapest incassa fondi europei, mantiene il suo diritto di veto su questioni cruciali e prosegue imperterrita nella costruzione di quella che Orbán stesso ha battezzato «democrazia illiberale».

Come è possibile che venga tollerato tutto questo? Parte della risposta risiede nelle indiscutibili abilità politiche del leader magiaro, temprato da una vita trascorsa nelle stanze del potere. Dalla militanza anticomunista alla scalata di Fidesz – divenuto nel tempo il suo partito personale – Orbán ha affinato l’arte del doppiogiochismo, imparando a muoversi con disinvoltura tra strategie ambigue e compromessi calcolati.

Da alcuni anni però ha progressivamente gettato la maschera: se un tempo si presentava ai vertici UE ostentando un europeismo di facciata, oggi sfida apertamente Bruxelles, rivendicando con orgoglio la sua svolta illiberale e l’alleanza con Putin, colui che, almeno formalmente, dovrebbe rappresentare il principale avversario geopolitico dell’Unione. E lo fa con una tale sfrontatezza da rendere il suo stesso ruolo nell’Unione un paradosso imbarazzante.

Ma attribuire tutto questo alle sole capacità tattiche di Orbán, però, sarebbe riduttivo. Il vero nodo è che il sistema europeo consente – e talvolta legittima – queste derive. Orbán non è un corpo estraneo infiltrato in un organismo sano, ma un elemento che il sistema ha prodotto e che continua a tollerare.

Un attore che, pur agendo apertamente contro lo spirito dell’Unione, riesce a muoversi al suo interno sfruttandone i meccanismi, interpretandone le regole a modo suo, senza mai oltrepassare formalmente la soglia dell’esclusione. Un’anomalia che, se non si mettono in discussione le fondamenta stesse dell’Unione, rischia di non essere né l’ultima né la più grave.

L’irreversibilità della deriva illiberale

E dire che all’inizio sembrava tutta un’altra storia. Come spesso accade nelle relazioni disfunzionali, i primi tempi sono carichi di promesse. Torniamo per un attimo al 2004 quando l’Ungheria, ancora fresca di transizione post-comunista, varcava trionfalmente la soglia dell’Unione Europea adottando celermente i regolamenti comunitari, implementando il Sistema Schengen e assorbendo la bellezza di 22,4 miliardi di fondi strutturali come una spugna assetata di sviluppo.

Un idillio destinato ad incrinarsi almeno a partire dal 2010, quando la vittoria schiacciante di Fidesz con una maggioranza costituzionale dei due terzi apre la strada alla trasformazione illiberale dell’Ungheria. In pochi mesi, Orbán attua una serie di riforme costituzionali che concentrano il potere nelle mani dell’esecutivo, limitano il controllo giudiziario, mettono sotto controllo la banca centrale e i media pubblici.

Di fronte a questa rapida involuzione autoritaria, Bruxelles inizialmente temporeggia, confidando nel dialogo politico e nel potere “disciplinante” del mercato.

Ma con il passare degli anni e l’accentuarsi della deriva ungherese – rafforzata dalla rielezione di Orbán nel 2014 e nel 2018 – l’UE è costretta a ricorrere agli strumenti legali previsti dai Trattati. Nel 2017 la Commissione Europea attiva per la prima volta l’Articolo sette del Trattato sull’Unione Europea, che prevede una procedura sanzionatoria contro i paesi membri che violano i valori fondanti dell’Unione.

Ma il meccanismo si rivela presto un’arma spuntata: per arrivare alle sanzioni vere e proprie, come la sospensione del diritto di voto, serve infatti il consenso unanime di tutti gli altri Stati membri in Consiglio Europeo (escluso quello sotto accusa). Un’asticella irraggiungibile, considerato che Orbán ha sempre potuto contare sull’appoggio di alleati come la Polonia, la Repubblica e la Ceca Slovacchia. Risultato: la procedura ex Art.7 si arena per anni in un limbo di dichiarazioni di principio senza alcun effetto pratico.

Nel frattempo, la Commissione cerca di colpire Budapest sul fronte dei finanziamenti europei, da cui l’Ungheria dipende fortemente. Ma anche qui incontra l’opposizione di un blocco di paesi “amici”, il gruppo di Visegrád. Nel 2020 l’UE approva il nuovo Quadro Finanziario Pluriennale 2021-2027 e il maxi-fondo Next Generation EU, introducendo per la prima volta un meccanismo di condizionalità che lega l’erogazione dei fondi al rispetto dello stato di diritto.

Un potenziale game changer nella partita con Budapest. Tuttavia, su pressione di Varsavia e Budapest, l’attivazione del meccanismo viene subordinata a una sentenza della Corte di Giustizia UE e a un compromesso politico che ne attenua notevolmente l’impatto. Un altro strumento innovativo ma dalla dubbia efficacia.

Parallelamente, la Commissione avvia una serie di procedure di infrazione contro le leggi ungheresi più controverse, come quelle che limitano l’indipendenza della magistratura o i diritti delle minoranze sessuali. Ma si tratta di interventi chirurgici su singole norme, che non scalfiscono l’architettura complessiva del regime di Orbán. È come voler fermare un’alluvione con secchielli: per quanto numerose, le procedure di infrazione non possono arginare una trasformazione così profonda e multidimensionale.

L’ostruzionismo sistematico

Orbán ha capito una cosa semplice, ma potenzialmente devastante: nell’Unione Europea si può infrangere lo spirito delle regole, purché si continui a rispettarne la forma. Anno dopo anno, infrazione dopo infrazione, ha messo alla prova i limiti del sistema. E ha scoperto che non ce ne sono. Nessuna sanzione reale, nessuna conseguenza duratura. Così ha smesso di sfidare Bruxelles: ha cominciato a usarla.

Al cuore di questa strategia perversa si trova l’arma più potente a disposizione dell’Ungheria per neutralizzare qualsiasi tentativo di pressione: il diritto di veto. L’architettura decisionale dell’Unione si fonda su un sistema a geometria variabile: in alcuni settori (mercato interno, ambiente, trasporti) si decide a maggioranza qualificata, ma nelle aree più sensibili – politica estera, difesa, fiscalità, allargamento, e paradossalmente proprio la constatazione di violazioni dello stato di diritto – vige la regola dell’unanimità.

A differenza di altri paesi che occasionalmente usano il veto per proteggere interessi vitali specifici – come la Grecia sulle questioni macedoni o Cipro sui rapporti con la Turchia – l’Ungheria ha fatto dell’ostruzionismo una strategia politica permanente e onnicomprensiva, bloccando persino decisioni che non toccano direttamente i suoi interessi nazionali.

Negli ultimi anni, Budapest ha posto il veto su questioni cruciali come il pacchetto di aiuti all’Ucraina (cinquanta miliardi di euro bloccati per mesi), le sanzioni alla Russia, le dichiarazioni sui diritti umani in Cina, e persino su nomine strategiche come quella del belga Didier Reynders a segretario generale del Consiglio d’Europa.

Si è così creato un perverso meccanismo di “trading dei veti”: Budapest accetta di ritirare la propria opposizione su determinate materie in cambio di concessioni in altre aree, trasformando i valori fondamentali dell’Unione in merce di scambio.

La paralisi creata dai continui veti ungheresi ha costretto le istituzioni europee a sviluppare contromisure creative. Le più comuni sono due: la riformulazione delle proposte per farle rientrare nelle competenze a maggioranza qualificata, e la creazione di meccanismi esterni ai Trattati UE. È il caso del Fondo europeo per la pace, uno strumento finanziario intergovernativo che ha consentito di finanziare le forniture militari all’Ucraina aggirando il veto ungherese.

In altri casi, come negli ultimi due vertici del Consiglio europeo, si è arrivati a escludere completamente l’Ungheria, come in un gioco di prestigio Antonio Costa è riuscito a fare approvare dichiarazioni sottoscritte solo da ventisei Stati membri – una sorta di “Europa a 26+1” de facto. Il caso ucraino mostra bene la natura opportunistica dell’ostruzionismo di Orbán.

Mentre blocca sistematicamente il sostegno a Kiev, al vertice del 20 marzo non ha invece posto alcun veto sulle conclusioni relative alla difesa europea, accodandosi disciplinatamente agli altri ventisette. La ragione è semplice: finché non si parla di eurobond o assunzione di debito comune, Budapest è perfettamente allineata con la narrativa del riarmo europeo promossa anche dal suo grande alleato Donald Trump, che chiede da anni agli europei di “pagare di più” per la propria sicurezza.

In pratica Orbán ha trasformato la prerogativa del veto in un’arma di ricatto sistematico. La sua Ungheria si è trasformata da membro con pari diritti in una sorta di “intruso istituzionale”, un bug del sistema.

L’impasse Europa

Ma attenzione: il fallimento dell’Unione nel contrastare la deriva illiberale di Budapest non è solo il frutto di calcoli politici o limiti procedurali. È il riflesso di un difetto di progettazione. I padri fondatori hanno costruito un’architettura istituzionale basata su un assioma implicito: che l’adesione all’Unione avrebbe rappresentato un punto di non ritorno nella traiettoria democratica di ogni paese membro.

La possibilità di un’involuzione autoritaria interna semplicemente non figurava tra gli scenari contemplati. Questa miopia storica ha generato un’asimmetria strutturale: mentre l’Unione possiede formidabili strumenti di condizionalità nella fase pre-adesione (i criteri di Copenaghen), diventa praticamente disarmata una volta che un paese è entrato nel club.

Al cuore di questa impotenza europea si trova il conflitto irrisolto tra rispetto della sovranità nazionale e difesa di valori sovranazionali. Quando un governo democraticamente eletto come quello di Orbán rivendica, in nome della sovranità popolare, il diritto di ridefinire i confini della democrazia stessa, l’Europa si trova in un vicolo cieco.

Da un lato, intervenire troppo pesantemente significherebbe calpestare la volontà democratica del popolo ungherese; dall’altro, non intervenire abbastanza equivale a rinunciare ai principi fondanti dell’Unione.

La paralisi europea di fronte al caso ungherese rivela anche il trionfo del pragmatismo sulla difesa dei principi. Bruxelles si trova costantemente a dover scegliere tra tutelare i valori fondanti dell’Unione o garantirne il funzionamento pratico. E quasi sempre, la necessità pragmatica di “far funzionare” la macchina europea finisce per prevalere sugli ideali. A questa dinamica contribuiscono potenti interessi economici.

L’Ungheria di Orbán, pur sfidando i valori politici europei, ha saputo rendersi economicamente indispensabile, soprattutto per l’industria tedesca. Con un costo del lavoro competitivo e una fiscalità vantaggiosa, Budapest è diventata un tassello fondamentale nelle catene produttive europee, creando una rete di interessi economici che ha sempre frenato qualsiasi tentativo di azione veramente incisiva.

Il contesto storico ha poi giocato a favore di Orbán: la sua deriva autoritaria è esplosa mentre l’Europa affrontava una serie di crisi esistenziali: dall’euro alla Brexit, dalla pandemia alla guerra in Ucraina. In questa tempesta perfetta, la questione democratica ungherese è sempre apparsa come un problema secondario, un lusso che l’Europa non poteva permettersi di affrontare mentre cercava disperatamente di sopravvivere.

Le prospettive di riforma

Non sarà allora, forse, che il vero problema non è Orbán, ma siamo noi? Il caso ungherese costringe l’Europa a ripensare profondamente il proprio modello di integrazione. Il federalismo classico, ispirato all’esperienza americana e teorizzato da Altiero Spinelli, si è rivelato inadatto a un continente segnato da profonde fratture storiche, culturali ed economiche.

L’idea che ventisette Stati, con identità spesso radicate in secoli di storia nazionale, potessero convergere in un’unica entità federale ha finito per scontrarsi con una realtà molto più complessa. Non sono state soltanto le resistenze dell’Europa centro-orientale a frenare questa ambizione: anche tra i paesi fondatori si sono manifestati dubbi, reticenze, ambiguità.

In questo scenario torna prepotentemente d’attualità il concetto di “Europa a più velocità”, una proposta che ha accompagnato, come un fiume carsico, l’intera evoluzione dell’Unione. Dal documento del 1994 in cui i democristiani tedeschi Wolfgang Schäuble e Karl Lamers delineavano un “nucleo duro” d’integrazione, fino alla Dichiarazione di Roma del 2017 che legittimava esplicitamente l’idea di un’Unione a geometria variabile, questa visione è rimasta in attesa. Ora, forse, non è più rimandabile.

Oggi emergono diversi modelli alternativi che potrebbero rivelarsi più sostenibili. Il federalismo asimmetrico consentirebbe diversi livelli di integrazione in diverse aree politiche, permettendo a ciascun paese di approfondire la cooperazione nei settori più congeniali alla propria tradizione.

La cooperazione rafforzata, già prevista dai Trattati ma raramente utilizzata, potrebbe diventare la norma anziché l’eccezione, consentendo a gruppi di paesi di avanzare in settori specifici senza attendere il consenso unanime. Il modello dei cerchi concentrici, teorizzato da Jacques Delors negli anni novanta, prevede un nucleo fortemente integrato circondato da anelli di paesi con livelli decrescenti di coinvolgimento: un primo cerchio con i paesi dell’Eurozona pronti a una vera unione politica, un secondo con membri UE che condividono il mercato unico ma non tutte le politiche comuni, un terzo con paesi come Ucraina o Balcani occidentali in un’area di associazione privilegiata.

Questa evoluzione verso un’Europa a geometria variabile non è solo una possibilità teorica. Secondo alcuni proprio la “Coalizione dei volenterosi” – un’iniziativa nata su impulso del Regno Unito, oggi fuori dall’Unione – potrebbe rappresentare l’embrione di un’Europa a due velocità: un nucleo ristretto, più coeso e determinato.

Ciò che serve è, senza dubbio, la volontà politica, e sebbene non ci siano certezze, qualcosa sembra muoversi. La speranza arriva dalla Germania. Lo dimostra l’iniziativa di Friedrich Merz, che in un documento confidenziale visionato da Politico a fine marzo propone di applicare molto più coerentemente gli strumenti esistenti contro le violazioni dello stato di diritto: procedure d’infrazione, blocco dei fondi UE e persino la sospensione del diritto di voto ungherese in Consiglio.

I negoziatori tedeschi suggeriscono inoltre l’espansione del voto a maggioranza qualificata nella politica estera, specificamente per le sanzioni, eliminando così il potere di veto di Budapest. Una svolta che potrebbe inaugurare un’Europa dove le decisioni cruciali vengono prese senza attendere il consenso unanime.

Questo scivolamento verso un’Unione a geometria variabile non va necessariamente interpretato come una sconfitta (checché se ne dica Ventotene non è la Bibbia). Un’Europa che riconosce e istituzionalizza le sue differenze interne potrebbe paradossalmente risultare più forte e coesa di un’Unione formalmente uniforme ma sostanzialmente paralizzata da veti e resistenze.