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Catanzaro, storia del metodo Gratteri: “Smonterò la Calabria come un Trenino Lego” (ilriformista.it)

di Valerio Murgano – avvocato penalista, Giunta UCPI

Civili danno collaterale, penalisti 
delegittimati

Un abuso senza precedenti delle misure cautelari generate dalle maxi inchieste rese immaginifiche dai media con tanto di milioni di euro spesi per un’aula bunker inagibile…

Sarebbe semplice catalogare le cause dello stato patologico in cui versa l’amministrazione della Giustizia nel Distretto di Corte d’Appello di Catanzaro imputandole al Procuratore Capo della Procura della Repubblica che dal 2016 al 2023 ha condizionato ogni evento.

Un Distretto in cui, più che altrove, la privazione della libertà è stata il frutto di valutazioni approssimative, dell’impiego della carcerazione preventiva come prima ratio e, soprattutto, dell’accondiscendenza di una magistratura giudicante, incapace di porre un argine a un meccanismo patologico di regolazione della fase cautelare voluto dall’Ufficio requirente. Un sovvertimento ideologico e culturale caratterizzato da una concezione illiberale del rapporto tra autorità e libertà, nella quale l’indubio pro reo è mutato nell’in dubio pro republica.

Civili danno collaterale, penalisti delegittimati

In assenza di un’effettiva autonomia da parte della magistratura giudicante e in costanza di una Procura della Repubblica sempre più autoritaria, le ricadute sulla qualità dei provvedimenti cautelari e, in genere, sulle c.d. “finestre” giurisdizionali, soprattutto nella fase delle indagini preliminari, sono state drammatiche.

Una giurisdizione che nel combattere la guerra alla ‘Ndrangheta ha mietuto vittime tra i civili, considerati un danno collaterale, un male necessario. All’abuso senza precedenti delle misure cautelari generate dalle maxi inchieste si è affiancata sistematicamente la delegittimazione mediatica e sociale dei soggetti attinti e dei loro difensori, questi ultimi sempre più assimilati ai reati contestati ai propri assistiti.

L’allontanamento dei ‘nemici’

In questo clima surreale e oppressivo, il timore di esporsi per rappresentare l’esondazione dal corredo assiologico di matrice liberale ha indotto i più ad accettare supinamente lo status quo. Non proprio tutti però.

Così è accaduto che il Tribunale del Riesame sia stato decapitato del suo Presidente, il quale dopo quarant’anni di onorata carriera si sarebbe reso responsabile di aver “monopolizzato” le camere di consiglio per finalità ancora oggi ignote, reo, questo sì, di avere esercitato in autonomia e indipendenza la funzione giudicante annullando o modificando “imprudentemente” tante, forse troppe, misure cautelari.

Ne sa qualcosa anche il Procuratore Generale di Catanzaro al tempo dell’operazione Rinascita-Scott, costretto dal Consiglio Superiore della Magistratura a concludere la sua onorata e brillante carriera a oltre mille chilometri di distanza dalla sede in cui lavorava, declassato a semplice Sostituto presso la Procura della Repubblica di Torino per aver osato criticare il Procuratore Capo di Catanzaro all’indomani delle esecuzioni delle ordinanze cautelari.

Smonterò la Calabria come un Trenino Lego

E ancora, due stimati e irreprensibili Giudici catanzaresi mandati via dalla Corte d’Appello con delibera dell’organo di auto-governo della magistratura (più tardi annullata dal Tar e dal Consiglio di Stato), colpevoli di aver conservato autonomia di giudizio e indipendenza dalla Pubblica accusa nell’esercizio delle funzioni.

Tutto questo è forse servito agli scopi dichiarati, almeno pubblicamente, dal suo massimo interprete? E con quali conseguenze sul tessuto sociale ed economico di quel territorio?

Smonterò la Calabria come un Trenino Lego”; “La Calabria la cambieremo nel giro di un paio d’anni”. Questi solo alcuni degli slogan recitati come un mantra durante la reggenza del Procuratore Gratteri a Catanzaro, salvo poi sostenere, una volta conquistato l’ambito incarico nella Procura più grande d’Italia, che la ‘Ndrangheta è più forte di prima.

I milioni spesi per l’aula bunker inagibile

Eppure si è investito parecchio denaro pubblico sul “modello giudiziario” catanzarese. Tanto per intenderci, in vista della celebrazione del processo relativo all’inchiesta Rinascita-Scott, il “Procuratore” ha persuaso il Ministero di Giustizia a elargire oltre 5 milioni di euro per realizzare, in una valle desolata e paludosa della piana di Lamezia Terme, la più grande aula Bunker d’Italia.

Sono bastati un paio di temporali per costringere il Ministero a dover elargire ulteriori tre milioni di euro per il ripristino dell’aula, il cui allagamento ha causato “l’inagibilità giudiziaria” dell’intero Distretto, obbligando difensori e imputati impegnati nei vari processi cumulativi a recarsi presso la lontana e inospitale aula bunker “Bicocca” di Catania per intere settimane.

Il metodo Gratteri

Ma torniamo al “metodo Gratteri”. Una simile impostazione, soprattutto a fronte della costante denuncia dei penalisti calabresi, necessitava di strumenti di distrazione di massa. L’enorme quantità di errori giudiziari consumati nel Distretto, e solo in parte certificati dai riconoscimenti degli indennizzi per ingiusta detenzione, rappresentava un intoppo per la propaganda del regime inquisitorio.

Così, ancora una volta con la condivisione dei vertici della magistratura giudicante e senza incontrare alcuna forma di reazione tra i togati, sono state “congelate” le procedure per la riparazione da ingiusta detenzione prodotte dalle inchieste del super Procuratore e del suo team, adulterando le impietose statistiche del Distretto al fine di renderle presentabili durante l’inaugurazione dell’anno giudiziario celebrata nel 2021 alla presenza dell’allora Ministro di Giustizia Bonafede, non a caso presso l’aula Bunker di Lamezia Terme.

Ancora emblematica dell’humus culturale del periodo è la vicenda degli “appelli cautelari”, nella quale l’avvocatura ha appreso accidentalmente della illegittima corsia preferenziale riservata con circolare interna alle impugnazioni del requirente; una prassi “esclusiva” del Distretto di Catanzaro, che in violazione del principio di legalità processuale ha sovvertito i criteri normativi fissati dal codice di rito, in una materia, quella cautelare, invece presidiata dal principio costituzionale del minor sacrificio possibile per la libertà personale.

E mentre la magistratura, con qualche rara eccezione, ha mantenuto il capo chino in segno di reverenza nei confronti del divino Procuratore, i valori sottesi al giusto processo di matrice costituzionale sono stati sottoposti nel Distretto di Catanzaro a una sterilizzazione progressiva in misura che mai si è conosciuta in passato, instillando nella giurisdizione un metodo illiberale e autoritario difficile da estirpare.

Rappresentazione plastica della improcrastinabile necessità di separare chi giudica da chi accusa.

Le nuove celle container ci costano 83mila euro a detenuto e sono inutili (ildubbio.news)

di Damiano Aliprandi

Carcere

Il piano da 32 milioni del ministero della Giustizia prevede 384 posti distribuiti in 9 istituti. Una goccia nel mare del sovraffollamento che al momento conta 62.165 detenuti per una disponibilità di 51.323 posti

Il ministero della Giustizia qualche giorno fa ha annunciato l’avvio di una gara da 32 milioni di euro per l’ampliamento di nove istituti penitenziari mediante l’installazione di moduli detentivi prefabbricati. Nel gergo tecnico, si parla di “container”. L’obiettivo dichiarato è contrastare il sovraffollamento, con una procedura ristretta gestita da Invitalia che prevede la manifestazione d’interesse delle imprese entro il 10 aprile 2025.

Tuttavia, un’analisi dettagliata del progetto rivela che i nuovi posti letto previsti sono appena 384, una goccia nel mare rispetto ai 62.165 detenuti attuali e ai 51.323 posti regolamentari (molti dei quali inagibili). Non solo: se mai venisse realizzato, dal documento emergerebbe uno stratosferico costo di 83.333 euro a posto letto, equivalente a quello di un piccolo appartamento in una cittadina italiana.

Il piano di ampliamento delineato nel documento tecnico di Invitalia prevede l’installazione di 16 strutture denominate “Blocchi Detenzione”, ciascuna progettata per accogliere 24 detenuti. La distribuzione geografica degli interventi segue una logica tripartita: nel Nord Italia verranno realizzati 5 blocchi (120 posti letto) tra gli istituti di Alba, Milano e Biella; il Centro-Nord ospiterà 6 blocchi (144 posti) tra L’Aquila, Reggio Emilia e Voghera; mentre il Centro-Sud vedrà l’aggiunta di 5 blocchi (120 posti) a Frosinone, Palmi e Agrigento.

Con un costo di 2 milioni di euro per ogni singolo blocco, l’investimento totale ammonta a 32 milioni, destinati a moduli prefabbricati in calcestruzzo trasportabili, dotati non solo di celle e servizi igienici, ma anche di spazi comuni come palestre e biblioteche, oltre a impianti di sicurezza avanzati. I lavori, secondo le previsioni, dovrebbero iniziare a maggio 2025 con una durata stimata di 240 giorni (circa 8 mesi), ma i collaudi definitivi slitterebbero almeno al 2026, delineando tempi dilatati per un’operazione presentata come urgente.

Spendere tanto per ottenere poco

Dalle specifiche tecniche di Invitalia emerge un dato emblematico: ogni posto letto nei nuovi moduli costerà allo Stato 83.333 euro, quasi quanto il prezzo di un monolocale. Il progetto, finanziato con 32 milioni, prevede la costruzione di 16 blocchi prefabbricati (24 posti ciascuno) per un totale di 384 posti aggiuntivi distribuiti in nove carceri. Una spesa esorbitante, considerando che l’intervento richiederà oltre 8 mesi di lavori, con collaudi non prima del 2026.

I numeri della Relazione tecnico illustrativa preliminare di Invitalia parlano chiaro: 2 milioni a blocco per strutture in calcestruzzo trasportabile dotate di celle, servizi, spazi comuni e sicurezza; 32 milioni il totale per i 16 blocchi, suddivisi in tre lotti tra Nord, Centro-Nord e Centro-Sud. Il costo medio di 83.333 euro a posto letto (calcolato dividendo 2 milioni per 24 detenuti) solleva interrogativi sull’efficienza dell’investimento, specie se paragonato ad altre soluzioni abitative.

Con la stessa cifra, ad esempio, si potrebbero acquistare 640 monolocali da 50.000 euro l’uno (prezzo medio in tante piccole cittadine italiane), offrendo un alloggio a oltre 1.500 persone.

Nel contesto carcerario, invece, i 32 milioni serviranno per 384 detenuti. I numeri sono ancora più critici incrociando i dati del Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria: 62.165 detenuti a fronte di 51.323 posti ufficiali, molti inagibili. Anche ipotizzando una capacità effettiva di 51.323 posti, l’aggiunta di 384 posti porterebbe il totale a 51.707, lasciando un deficit di 10.458 posti.

Il documento specifica che i blocchi sono “trasportabili e smontabili”, sollevando dubbi sulla durabilità. Sebbene dotati di impianti avanzati (videosorveglianza, climatizzazione), i moduli replicano criticità delle carceri tradizionali: celle da 4 posti, spazi comuni ridotti, cortili limitati. Una soluzione emergenziale, non strutturale, rischiando di diventare definitiva senza piani a lungo termine. L’intervento, se realizzato, darebbe un lieve sollievo a singole strutture, ma non altererebbe il quadro nazionale.

Con 384 posti aggiuntivi, il tasso di sovraffollamento rimarrebbe al 123% (62.165 detenuti vs 51.707 posti), vicino alla soglia che provocò la condanna della Corte Europea dei Diritti dell’Uomo.

Servirebbero politiche coraggiose, come richiesto dal deputato Roberto Giachetti (Italia Viva) e dall’associazione Nessuno Tocchi Caino, allineate alle raccomandazioni di Antigone, dell’osservatorio delle camere penali e dei garanti territoriali: potenziamento delle misure alternative, ampliamento della liberazione anticipata, amnistia.

Si aggiunge il nodo delle risorse umane. Come ha dichiarato al Il Dubbio Gennarino De Fazio, segretario della UilPa Polizia penitenziaria: «Ma, al di là dei moduli prefabbricati, con quale personale?».

I missili su Kryvyi Rih, e la pigra ingenuità di chi non riconosce le colpe della Russia (linkiesta.it)

di

L’aggressore impunito

Venerdì un attacco dell’esercito russo ha ucciso venti persone in un parco giochi, nella città natale di Zelensky.

L‘ennesimo assalto ai civili nel quarto anno di invasione, eppure l’amministrazione Trump, i Cinquestelle e gli altri contrari al riarmo europeo fanno ancora fatica a puntare il dito contro il Cremlino per attribuirgli le sue responsabilità

Kryvyi Rih è la città natale del presidente dell’Ucraina e venerdì, mentre il nome della sua città è apparso su tutti i notiziari del mondo, mi è tornato in mente proprio Volodymyr Zelensky che, nella Stanza Ovale qualche secondo prima della famigerata sceneggiata di Donald Trump e J.D. Vance che lo rimproveravano di non essere grato abbastanza, mostrava le immagini delle torture che hanno subito i soldati ucraini nella prigionia russa. Alcuni giornali hanno definito la reazione di Trump interessata, alcuni invece dicevano che non provava nessuna compassione.

Immagino Zelensky venerdì scorso, intento a mostrare a tutto il mondo le immagini della sua città natale, di un quartiere residenziale, di un parco giochi al centro di questo quartiere che è stato bombardato dai russi alla vigilia di un weekend – quando i ragazzi appena usciti da scuola giocavano dopo essersi lasciati alle spalle una settimana piena di compiti e di sirene antiaeree (che suonano ogni giorno).

Domenica in ospedale è morto un uomo di cinquantasette anni a causa delle ferite riportate venerdì. Così il numero delle vittime della strage russa a Kryvyi Rih è salito a venti, nove dei quali erano bambini.

Immagino Zelensky che mostra a tutto il mondo la lista dei bambini uccisi, con i nomi e gli anni che avevano: Tymofiy tre anni, Radyslav sette anni, Arina sette anni, Herman nove anni, Danylo quindi anni, Mykyta quindici anni, Alina quindici anni, Kostyantyn quindici anni, Nikita diciassette anni.

Mentre Zelensky, gli ucraini e tutte le persone minimamente dotate di empatia postavano sui social questa lista, l’ambasciata americana in Ucraina rilasciava una dichiarazione – ovviamente in linea con la posizione della sua Amministrazione, che qualche giorno prima aveva deciso di non entrare nella guerra dei dazi contro la Russia, meglio puntare i pinguini delle Isole McDonald – in cui non menzionava da che parte era arrivato il missile che ha ucciso nove bambini. Accanto, la frase «ecco perché questa guerra dovrà finire». Una guerra che secondo quest’ambasciata e quest’Amministrazione ha smesso di avere una netta distinzione tra chi è l’aggressore e chi è la vittima.

Mentre Zelensky mostrava le immagini del parco giochi con le altalene colorate, trasformato in un campo di battaglia, Giuseppe Conte saliva sul palco di Roma con lo slogan “No al ReArm Europe”.

Mentre gli ucraini imparano a vivere senza gli aiuti americani e ormai non contano più sull’aiuto d’oltreoceano (secondo gli ultimi sondaggi il sessantasette per cento degli ucraini non vede più gli Stati Uniti come alleati nella resistenza contro la Russia) la fiducia nelle istituzioni europee e nell’Europa continua a crescere.

E mentre nessuno cerca più di convincere Trump o di mostrargli le immagini dei bambini ucraini uccisi, la piazza di Giuseppe Conte si accoda ai numerosi tentativi da parte della Russia di indebolire il sostegno al programma di ReArm Europe con operazioni di propaganda – tra le ultime c’è stato il tentativo di proiettare a Udine i film propagandistici del canale televisivo russo Russia Today, tra l’altro sanzionato dall’Unione europea.

Quante immagini di bambini ucraini devono ancora arrivare in Italia per non avere più esitazioni su chi è l’aggressore in questa guerra? E quante ne devono arrivare per capire che i tentativi di negoziare con la Russia sono solo una perdita di tempo? Perché la Russia finge solo di dialogare, nel tentativo di capire come fare per raggiungere il suo obiettivo iniziale, cioè prendersi tutta l’Ucraina.

Un Paese che vuole la pace non lancia i missili sui quartieri residenziali e su un parco giochi di venerdì pomeriggio, mentre gli ucraini già martoriati dalla guerra cercano di ritagliarsi uno spazio di quotidianità per vivere questa vita completamente rovinata dall’invasione su vasta scala.

Pacifismo e propaganda (butac.it)

di 

L'influenza della propaganda filorussa sui 
movimenti anti-NATO

Ultimamente ci è capitato sempre più spesso di parlare di cose che, apparentemente, non sembrano avere a che fare con gli obiettivi di questo sito. Non è la prima volta che qualcuno ci chiede: ma questo cosa c’entra col fact-checking?

Sono passati molti anni da quando – spinto dalla paura che la rete diventasse terreno di caccia per truffatori e disinformatori – ho aperto BUTAC. Non che sperassi di poter porre un argine a quanto vedevo, ma stavo per diventare papà, e volevo perlomeno provare a fare qualcosa per il futuro dei miei figli, o almeno dare loro un esempio positivo di attivismo online.

Attivismo, una parola che oggi si usa molto: sono tutti molto attivi a manifestare per i propri ideali, tra chi vuole un’Unione Europea forte e unita e chi invece vorrebbe solo la pace, ed è proprio di questa tema che voglio parlare oggi.

Quante volte negli ultimi anni ci avete sentito parlare di propaganda e “dezinformatsiya”, facendo spesso riferimento alla Russia e a certe tattiche per influenzare l’opinione pubblica? Tante, forse troppe. Ecco, anche l’attivismo pacifista ha qualche attinenza con le stesse identiche tattiche. Purtroppo però è un qualcosa di cui si parla poco, anche perché alcuni tra i politici di oggi dovrebbero ammettere di esserci a loro volta cascati negli anni della Guerra fredda.

Io non sono uno storico, ma solo un fact-checker, quindi ovviamente ho dovuto documentarmi su fonti che, come sempre, linkiamo per chiunque voglia approfondire. Ogni eventuale errore è ovviamente colpa mia.

La guerra psicologica

Partiamo da lontano, ovvero appunto dagli anni della Guerra fredda, anni durante i quali l’URSS sviluppò una strategia estesa di “guerra psicologica” che appunto prevedeva l’uso di abbondante propaganda e disinformazione. Tutte tattiche che stiamo vivendo sulla nostra pelle anche oggi, come ripetiamo ormai da qualche anno.

L’obiettivo era quello di indebolire la coesione occidentale, seminare sfiducia nei confronti delle istituzioni democratiche e soprattutto ostacolare la NATO. Curioso che siano gli stessi obiettivi di un progetto come l’Operazione Overload di cui abbiamo parlato più volte qui su BUTAC nell’ultimo anno e mezzo.

Esiste un rapporto della CIA del 1983, oggi declassificato, in cui vengono fatte le stime su quanto l’URSS spendesse in questa “guerra psicologica”. Le stime parlano di cifre tra i 3,5 e i 4 miliardi di dollari che servivano a finanziare:

  • Congressi per la pace
  • Movimenti pacifisti e anti-nucleari
  • Organizzazioni giovanili e sindacati “amici”
  • Attività editoriali e mediatiche

Le operazioni venivano gestite da KGB e GRU (l’Intelligence militare russa). Stanislav Lunev, ex ufficiale del GRU, che disertò negli Stati Uniti a inizio anni Novanta del secolo scorso, raccontò che GRU e KGB finanziarono quasi tutti i movimenti pacifisti in Europa e negli Stati Uniti. I fondi venivano canalizzati attraverso società fittizie, associazioni culturali e partiti comunisti locali. Ci sarebbero tante domande da farsi – ad esempio sul come mai in Italia si finì per votare no al nucleare – ma non è questo lo spazio in cui farlo.

Un esempio lampante di questi movimenti finanziati dalla Russia è il World Peace Council (WPC), nato nel 1950. Apparentemente indipendente, in realtà era manovrato da Mosca. L’Archivio Mitrokhin, custodito presso il Churchill College di Cambridge, documenta come il KGB ne dettasse la linea e finanziasse le attività.

Allo stesso modo quando negli anni Ottanta la NATO decise di installare i Pershing II nelle basi europee scoppiarono proteste in tutta Europa, ma materiali usati dai manifestanti e slogan coniati per le proteste erano prodotti con l’aiuto diretto (o indiretto) del blocco sovietico.

Qualche fonte extra:

Concludendo

Tutto questo per ricordare, se ce ne fosse bisogno, che quanto sta avvenendo oggi è figlio di queste strategie, ed è possibile che i movimenti pacifisti che vediamo manifestare contro un eventuale riarmo dell’Unione Europea siano a loro volta spinte da gruppi di potere vicini alla Russia.

BUTAC vorrebbe evitare i temi politici, ma il momento storico che stiamo vivendo necessita che certe cose vengano dette, e siccome sono pochi i quotidiani che fanno questo tipo di informazione ho pensato potesse avere un senso parlarne qui da noi, come gli articoli del nostro RC su Bucha di pochi giorni fa: anche questo è un modo per contrastare il disturbo dell’informazione.