di Roberta Scorranese
«Al concerto della band a Roma mi sono annoiato. Non sono “dannosi”, come certa trap, ma Mina e Lucio Dalla erano meglio»
Uto Ughi, lei suona il violino da quando aveva cinque anni. Praticamente da una vita?
«E anche oggi, che ne ho 78, studio per almeno due ore ogni giorno. Anzi, sarebbe meglio dire che “mi alleno”, perché la nostra vita non è così diversa da quella degli sportivi. La musica è anche e soprattutto un fatto fisico».
Non si stanca?
«Certo, ma il violino è una lotta pure se si è giovani. È faticoso perché ti sembra sempre di non essere all’altezza, anche se suoni da decenni come faccio io. Una lotta meravigliosa fino all’ultima nota. Paganini diceva: “Se non studio un giorno me ne accorgo io, ma se non studio per due giorni se ne accorge il pubblico”».
A 7 anni si è esibito per la prima volta in pubblico eseguendo la Ciaccona dalla Partita n°2 di Bach. Possiamo definirla un bambino prodigio?
«Questa è un’espressione popolare in Italia: si vede un bambino che suona bene e si pensa al miracolo. Ma se andiamo, per esempio, in Giappone, scopriamo che è una cosa normale. Questione di metodo: lì adottano il Suzuki, una didattica che parte dal presupposto che l’essere umano sia un animale musicale. Che tutti, insomma, nasciamo con la musica nei geni. Basta una buona educazione musicale, cosa che purtroppo in Italia non è così tenuta in considerazione».
Maestro, com’è stata la sua infanzia?
«Sono cresciuto in un ambiente colto e molto attento all’educazione. Mio padre Bruno era di origini istriane e in qualche modo, in casa, aveva ricreato un’atmosfera mitteleuropea. A cena venivano musicisti come il primo violino della Scala sotto Toscanini, scrittori, scienziati. Ho cominciato a suonare molto presto e mi sono formato a Parigi con George Enescu e con Corrado Romano a Ginevra. Poi l’Accademia Chigiana, le grandi orchestre come quella del Concertgebouw di Amsterdam, la Boston Symphony Orchestra, la Philadelphia Orchestra, la New York Philharmonic, la Washington Symphony Orchestra e molte altre, le tournée in giro per il mondo. Suono da sempre, il violino per me è creazione continua».
«ABBADO NON L’HO MAI VISTO VECCHIO. E BORGES CON ME SCHERZÒ SUL NOBEL MANCATO: “FORSE PENSANO DI AVERMELO GIÀ DATO”»
È stato diretto anche da grandi nomi.
«Ne menziono alcuni, sapendo di fare un torto a tanti non citandoli, ma sono troppi: Rostropovich, Celibidache, Maazel, Mehta, Sinopoli. Se devo menzionare un grandissimo italiano, dico Giulini».
Lei possiede diversi esemplari rari dello strumento, è così?
«Mi piace citarne due su tutti: il Kreutzer 1701 di Antonio Stradivari e il Guarneri del Gesù “ex Grumiaux” 1744. Sono strumenti unici, specie il Guarneri, uno degli ultimi modelli realizzati. Io li paragono a Raffaello e a Caravaggio: lo Stradivari è apollineo, il Guarneri è dionisiaco. Il primo ha un suono cristallino e limpido, il secondo è più tormentato, complesso. Lo Stradivari è denominato “Kreutzer” perché appartenuto all’omonimo violinista a cui Beethoven aveva dedicato la famosa Sonata. Vede che tutto si tiene? Musica, arte, letteratura» … leggi tutto
(Uto Ughi nel 1970)