In bicicletta. Dal Carso al castello di Duino (doppiozero.com)

di Gino Cervi

Faccio fatica a dirlo, se penso a che cos’era 
questo luogo poco più di cent’anni fa, ma il 
Carso è un paradiso

È una terrazza sospesa tra montagna e mare, un groviglio di strade che inanellano villaggi e vigneti, boschi e uliveti. Si sente, ora lontana ora più vicina, l’aria dolce dell’Adriatico che fa da contrasto alla verde-grigia scabrosità delle rocce che qui sono identità geologica.

Faccio fatica a pensarlo, ripeto, che qui, su queste strade, su queste pietre un secolo fa o poco più è andata al massacro la meglio gioventù di intere nazioni. Una vergogna che sanguina ancora, e ancora di più a leggere su cippi e monumenti la tronfia e stolida retorica patriottica che per anni ha punteggiato questi luoghi di insensata barbarie.

Già, ma l’insensata barbarie non ci appartiene forse ancora in questi tempi, se ci siamo ormai assuefatti a osservare da lontano la guerra in Ucraina?

Questa mattina mi sono svegliato alla locanda Devetak. A colazione Avgustin Devetak mi ha raccontato del cognome: devet, in sloveno, vuol dire nove. Forse il nono figlio di una famiglia prolifica, forse il nono miglio di distanza da qualcosa o qualcuno, forse un nome che viene da più in là, nei Balcani più profondi.

Quello che proviene invece da vicino, da vicinissimo, è il bendidio che la tavola dei Devetak imbandisce, soprattutto a colazione: i formaggi carsolini – pecorini aromatici e vaccini di fossa – si sposano alla perfezione coi mieli che sanno di tiglio, castagno, ailanto e che, come le confetture, i succhi di frutta, le verdure sott’olio, arrivano dall’azienda di famiglia.

Avgustin è fiero di come il suo gineceo – moglie e quattro figlie – mandi avanti con sapienza e passione la locanda, che è aperta da cinque generazioni: 1870, la prima pietra posata. Dietro al banco della reception, c’è una foto di Sandro Pertini, metà anni Settanta, ancora presidente del Senato, seduto a un tavolo della locanda.

San Michele del Carso è un tormentato monte di pietra. In cima il Museo della guerra. Trincee, bunker, gallerie. Intorno monumenti e cannoni, per fortuna inermi, ma ancora puntati sulla valle dell’Isonzo: dodici battaglie, tra il giugno 1915 e il novembre 1917, e decine e decine di migliaia di morti. San Martino, Trincea delle Frasche, Bosco Cappuccio, e poi Podgora, Sabotino, Monte Nero…

Uno non ci pensa più che le vie delle nostre città prendono il nome dai luoghi di questa tragedia, svuotati di dolore e messi lì, muti, su una targa stradale. Davvero sembra impossibile che questo paradiso di natura e colori possa ancora essere abitato dalla memoria del fango e del sangue, dei canti e delle bestemmie, del freddo e dell’odore della polvere da sparo della Grande guerra … leggi tutto

(Gino Cervi)

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