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Il presidente del Consiglio uscente ha reintegrato il principio di responsabilità politica, ma gli italiani lo considerano un’eccezione dettata da circostanze sfortunate
Mario Draghi ha avuto il destino singolare di essere un capo del governo con un credito e un consenso ampiamente maggioritario in un Paese in cui il suo pensiero politico ha invece continuato a essere palesemente minoritario, come hanno dimostrato le elezioni dello scorso 25 settembre e come, malgrado il repentino e obbligato riallineamento euro-atlantista di Meloni, anche il profilo del nuovo esecutivo conferma.
Questa apparente contraddizione non certifica però un fallimento di Draghi, bensì la fragilità del nostro sistema democratico e della sua capacità di selezionare le scelte politiche e stabilire i rapporti tra i fini e i mezzi in base a criteri razionali, cioè in qualche modo sperimentali. Cosa funziona e cosa non funziona, insomma, in relazione a uno scopo prefissato e alla tutela di un valore condiviso.
Il realismo non fa affatto della politica una disciplina moralmente neutrale, perché i fini politici sono anche in larga misura contenuti morali e morale è il principale problema della politica, cioè il governo della scarsità. Al contrario lo stesso realismo è un principio di responsabilità, oltre che di misura concreta dell’efficacia o dell’inefficacia delle proposte su cui si chiede il consenso degli elettori.
Fuori da questa etica e da questa logica del discorso politico la democrazia cessa di essere una teoria razionale della decisione pubblica e diventa una liturgia propiziatoria, un rito sciamanico, una pratica alchemica, un esorcismo vannamarchiano o un circo o uno spurgo di umori collettivi.
Draghi, per non bruciarsi, ha tenuto ad apparire il meno politico, cioè il più imparziale, di tutti e non ha voluto in nessun modo scendere, neppure indirettamente, nell’agone elettorale, ma è stato anche il più politico di tutti nel tentativo, tenace ma vano, di riportare la politica alla sua grammatica e sintassi fondamentale, contro l’illusione che essa possa in qualche misura liberarsi o emanciparsi dalla realtà, non intesa come terreno di smentita e di conferma di ipotesi politiche popperianamente falsificabili, ma come barriera opposta al pieno dispiegamento della libertà e della sovranità politica, come prigione di compatibilità inventate per asservire il popolo agli oscuri disegni di élite senza patria e senza volto.
In Italia però ha continuato a vincere, anzi a spopolare, quella sorta di eresia gnostica che sta alla base della fede populista, per cui la realtà è solo una illusione, una apparenza o perfino una macchinazione. La realtà è una cosa che non esiste, un alibi per frustrare i desideri del popolo.
Succede spesso nelle democrazie che leader di governo cui si devono risultati importanti, in condizioni di difficoltà o anche di straordinario pericolo, perdano le elezioni nonostante i successi a vantaggio di concorrenti che danno agli elettori la speranza di voltare pagina e di tornare a una più tranquillizzante normalità.
Ma lo straordinario successo alle ultime elezioni dei partiti più dichiaratamente anti-draghiani non è affatto paragonabile, ad esempio, a quello del Partito Laburista di Clement Attlee sul Partito Conservatore di Winston Churchill, nel 1945, all’indomani della vittoria britannica nella II guerra mondiale.
È il segno, assai più inquietante, che gli italiani, che pure di Draghi non sembrano essere stati così insoddisfatti, hanno rubricato la sua esperienza come una sospensione, non come una reintegrazione del principio di responsabilità politica, come una parentesi, non come una svolta, come un’eccezione dettata da circostanze sfortunate, non come una regola capace di prevenire le cause, tutt’altro che casuali, della cosiddetta sfortuna … leggi tutto