Una decina di giorni fa un amico mi ha segnalato un articolo apparso su “The Guardian”,
un quotidiano inglese che ha occhi molto attenti sull’America e, spesso, uno sguardo più lucido di molti media americani. Ma quell’articolo del 6 novembre non era un esercizio di calma e compostezza, bensì un grido di puro terrore. Gli Stati Uniti stanno entrando nella loro seconda guerra civile, diceva. Ormai è un fatto, non si vede chi o che cosa potrà impedirlo, non è più questione di se ma solo di quando.
Secondo Barbara Walter, docente di Scienze politiche a San Diego ed esperta di guerre civili, “Giudici verranno assassinati, democratici verranno incarcerati sulla base di accuse fasulle, chiese di afroamericani e sinagoghe verranno fatte saltare in aria”. Secondo lo scrittore canadese Stephen Marche, “L’America ha passato il punto oltre il quale il trionfo di un partito oppure di un altro potrebbe risolvere i suoi problemi”.
D’altra parte, di americani convinti che l’America può e deve essere salvata non c’è proprio scarsità. Negli stessi giorni dell’articolo sul “Guardian” ricevo, insieme a tutti i miei colleghi, la richiesta di dare un parere su un piano di rivitalizzazione delle facoltà umanistiche e di scienze sociali della mia università. Uno dei punti sul quale il College si dovrebbe impegnare è, letteralmente: “Risolvere i problemi della società”.
Ah, davvero? Sono molto lusingato della considerazione in cui noi professori veniamo tenuti, tanto da essere ritenuti capaci di riuscire in un’impresa mai riuscita a nessuno da quando il primo homo sapiens ha rotto il cranio di un Neanderthal. Se non fosse che nessuno ci ha eletto per farlo, ed è questa infatti la risposta che ho dato: “We are not an elected body”.
Mi sono anche fatto qualche fantasia su cosa accadrebbe se quella mozione venisse approvata. Fra quattro anni bisognerebbe tirare le fila, e se qualcuno nelle alte sfere concluderà che il College di Arti liberali e Scienze sociali non è ancora riuscito a liberare il mondo da violenza, razzismi e disuguaglianze ne dovrebbero seguire le dimissioni di tutto il corpo docente, dal Preside fino al sottoscritto. Come, vi abbiamo dato quattro anni e non avete “risolto i problemi della società”? Cosa state qui a fare, allora? Via, via a calci nel sedere.
È con questo spirito, equamente diviso tra la paura della guerra civile e il sogno del mondo perfetto, che i democratici si sono avviati alle elezioni di medio termine del 2022, “le più importanti elezioni nella storia degli Stati Uniti”, come è stato ripetuto incessantemente da torme di commentatori televisivi e non. E bisogna ammettere che la mescolanza di terrore e fervore appariva da un lato spaventevole, nonché giustificata, e dall’altro un po’ ridicola. Una certa dose di ridicolo è parte dell’istituzione della democrazia, e non si fa peccato a volerla evidenziare.
Perché mai il partito votato due anni prima deve necessariamente perdere due anni dopo? Ma perché non ha “risolto i problemi della società”, no? E siccome non l’ha fatto va punito votando il partito che quei problemi non ha mai neanche pensato di doverli affrontare. Oppure perché se la benzina normale va sotto i tre dollari al gallone voto democratico e se va su a quattro dollari voto repubblicano (cito i prezzi texani, senza accise; in California si è arrivati ben più in alto).
Invece… Invece no, o non del tutto. Il Partito democratico ha mantenuto di poco la maggioranza al Senato e ha perso di poco la maggioranza alla Camera. Che è quello che sarebbe accaduto anche in tempi normali, senza Trump all’orizzonte, senza l’assalto al Campidoglio del 6 gennaio 2021, senza l’inflazione e la guerra in Ucraina. Il giudizio più conciso ed efficace l’ha dato il “New Yorker”: le elezioni dell’8 novembre sono state “uno sconvolgente ritorno allo status quo”.
Come è stato possibile? Dove si erano rintanate negli ultimi due anni tutte le persone di buon senso, quelle che non hanno mai creduto alla seconda Guerra di secessione? A quanto pare non hanno creduto nemmeno a una voce messa in giro recentemente da complottisti estremi, secondo la quale se degli studenti di scuola media dicono al preside che loro si identificano come gatti, la scuola gli metterà a disposizione una lettiera dove sdraiarsi e fare i loro bisogni. Questo sì che è un problema che la società deve risolvere, e non pochi candidati repubblicani si sono fatti un punto d’onore di discuterlo a fondo. Se non mi credete, date un’occhiata qui.
Pochi giorni prima delle elezioni ho ricevuto per posta un volantino prodotto da un’associazione repubblicana in cui mi si informava che Joe Biden e i suoi alleati di sinistra, in vista del loro progetto transgender e con la complicità dei dottori, stanno tagliando seni femminili e genitali maschili a tutto spiano. La transizione di gender è una questione difficile e controversa, e per parlarne con cognizione di causa bisogna avere una competenza medica e scientifica che io non ho.
Ma il capolavoro di quel volantino consisteva nel riportare una fotografia di Rachel Levine, ex ammiraglia a quattro stelle e viceministra per la Salute e i Servizi Umani, insieme a Sam Brinton, che è uno degli esperti governativi incaricati dello smaltimento delle scorie nucleari.
Ora, fino al 2011 Rachel Levine era un uomo (non troverete il suo precedente nome maschile nella sua biografia; è un “nome morto”, un dead name). Sam Brinton è un gay che ama vestirsi da donna, e in rete si trovano molte sue foto che una volta si sarebbero definite oltraggiose. La foto in questione è stata scattata nel luglio del 2022 in casa dell’ambasciatore francese a Washington, in occasione della festa per la presa della Bastiglia. La didascalia del volantino mi ha informato che Rachel Levine difende la castrazione chimica e chirurgica di ragazzi e ragazze. Di Brinton non dice niente, lascia che l’immagine parli da sola. Lo scopo è quello di far chiedere all’uomo della strada: “E così l’amministrazione Biden nomina viceministro della sanità un transgender e dà l’incarico di smaltire le scorie nucleari a un travestito?” … leggi tutto