Era inevitabile. Prima o poi sarebbe successo. È iniziato un duro scontro tra i social e il potere politico. La posta in gioco è il valore e il senso della libera informazione e dunque della democrazia.
Protagonisti del duello sono Donald Trump e Twitter, che un paio di giorni fa ha bollato due tweet del presidente degli Stati Uniti d’America sul voto per corrispondenza con il punto esclamativo. Come ha spiegato un portavoce di Twitter al “New York Times”, secondo il social network preferito di Trump, quei tweet «contengono informazioni potenzialmente fuorvianti sulle modalità di voto e sono state etichettate per fornire ulteriore contesto».
Ai punti esclamativi, il presidente ha risposto duramente: un ordine esecutivo renderà più facile portare il social network in Tribunale se assumono il ruolo di “moderatori” delle fake news, cancellando post o chiudendo account.
Per capire la portata di quello che sta accadendo, e la posta in gioco, è necessario fare qualche passo indietro.
I social network sono infestati di fandonie, lo sappiamo tutti. È il loro stesso meccanismo a premiare gli “acchiappaclic”: non importa se una notizia è vera o falsa, basta che attiri traffico. Anche i più autorevoli quotidiani italiani sono pieni di post acchiappaclic (quelli stranieri assai meno).
Sappiamo (o dovremmo sapere) che la verità non è un bollino verde da assegnare una volta per tutte. Che i fake girano dal giorno in cui il serpente tentò Eva, che i primi a diffondere fake news sono i potenti, i quali non a caso controllano i canali dell’informazione. Che avvicinarsi alla verità è frutto di un complesso e infinito negoziato (come insegna la storia della scienza). I regimi totalitari hanno risolto il problema: hanno messo sotto rigido controllo internet, frammentando il World Wide Web in piattaforme nazionali, come in Cina, Russia o Iran … leggi tutto