di Sabino Cassese
Esecutivo e obiettivi
Chiuso, con la scomparsa del protagonista, il trentennio berlusconiano, come si presenta il nuovo ciclo aperto da Giorgia Meloni? Si può dire che inizi la Terza Repubblica, forse con un governo di durata quinquennale, a trazione di destra?
C’è chi ha affermato che il governo Meloni è il migliore governo democristiano di un’epoca post-democristiana e post-berlusconiana.
Non so come suoni questo giudizio alle orecchie del presidente del Consiglio. A molti potrebbe apparire un grande complimento, considerato che la Dc si era fatte le ossa in un cinquantennio, mentre Fratelli d’Italia è arrivata da pochi mesi a Palazzo Chigi.
Ma un giudizio sull’azione di quasi un anno di governo non si può dare alla leggera e va studiato con attenzione. Bisogna partire da un’osservazione diffusa tra gli esperti del settore: che ogni governo opera con le decisioni degli esecutivi precedenti.
È una conclusione certa. Il governo Meloni, in quasi dieci mesi, ha prodotto soltanto lo 0,01 per cento delle norme esistenti, in vigore, con cui deve governare.
Bisogna, allora, considerare come il governo sceglie i temi, con quanta bravura si muove nelle strettoie del passato, e come riesce ad aggiustare ai suoi fini i condizionamenti che ne discendono.
C’è un elemento caratterizzante del governo Meloni.
S e Palazzo Chigi comparasse i giorni trascorsi all’estero dall’attuale presidente del Consiglio con quelli passati fuori d’Italia dai suoi predecessori nei primi mesi di mandato, risulterebbe chiaro che l’attuale presidente ha puntato a dominare attraverso la politica estera la politica interna.
Ha colto un elemento fondamentale dei moderni governi, e cioè che non esiste più una netta separazione tra politica interna e politica estera e ha coltivato quest’ultima ottenendone molti vantaggi: di distanziarsi dai litigi e dagli affanni quotidiani della politica nella piccola parrocchia italiana; di mostrare un proprio stile di governo (la politica estera è molto più monocratica di quella interna, si presta a una gestione personale più di quella interna); di ottenere fuori d’Italia una legittimazione che si aggiunge a quella data dal voto degli elettori in Italia (una foto mano nella mano con il presidente degli Stati Uniti vale più di un milione di voti).
Governare con la politica estera presenta, però, più di un paradosso. Questo è un campo nel quale i condizionamenti del passato sono più forti. È l’area più lontana dai sovranismi programmatici. È quella più vicina alla linea del governo Draghi, la cui legittimazione veniva tutta dalla politica sovranazionale. È, in conclusione, quella in cui si percepisce maggiormente l’elemento della continuità dell’attuale governo rispetto ai governi precedenti.
Il secondo criterio sulla base del quale valutare il nuovo corso della politica italiana riguarda il «governo del tempo». Per ogni esecutivo italiano il tempo è una scommessa. Il Consiglio dei ministri è l’unico organo senza una durata fissata dalla Costituzione, salvo il quinquennio di vita del suo «dante causa», il Parlamento. Chi sta al governo, e potrebbe restarci per cinque anni, si può muovere con la velocità del centometrista o con quella del maratoneta. Nel primo caso, con il rischio di ingolfare il motore. Nel secondo caso, con quello di perdere lo slancio.
Questo è il punto più debole dell’attuale governo, perché è abbastanza chiaro che ad esso manca un piano del tempo. Non riesce a far capire quali sono gli obiettivi di breve, quelli di medio, e quelli di lungo periodo. È disattento a quella che chiamerei manutenzione delle istituzioni, dal cui funzionamento dipende il successo delle politiche future. Ha spostato la funzione legislativa dal Parlamento al governo (approvando più di un decreto legge a settimana e preparando leggi di delega sostanzialmente in bianco), con la conseguenza, tra l’altro, dello scivolone riguardante la patrimoniale.
Ha avviato l’opera di semplificazione normativa, ma senza ancora affrontare il difficile tema dell’intreccio di competenze. Ha avviato la riorganizzazione di metà dei ministeri, ma in qualche caso per cambiarne le persone al vertice. Infine, non resiste con la forza della ragione alle pulsioni populiste, come ha fatto con l’ultimo provvedimento sulle banche, dimenticando che nella loro pancia vi sono 1.163 miliardi di risparmi degli italiani e un quarto dei titoli del debito pubblico.
Ho lasciato per terzo quello che tutti potrebbero ritenere il primo criterio di valutazione di un governo: come risponde alle aspettative dei propri elettori, che attendono la realizzazione delle politiche promesse. Questa in Italia è l’ultima delle preoccupazioni, considerato che ormai la «politica» non si fa con le «politiche», ma con gli slogan e che quindi le promesse elettorali contano poco.
L’attuale governo non ha messo in cantiere nulla di comparabile alla scuola media unica del 1962 o al servizio sanitario nazionale del 1978, che sono stati i veri e propri «turning points» della storia repubblicana italiana, anzi sembra interessarsi poco della scuola e della sanità, che restano i maggiori problemi della nazione, da cui dipendono tutti gli altri.
Il quarto criterio con cui giudicare un governo è quello di esaminare come fronteggia l’opposizione. L’attuale compagine non ha un proprio stile o una vera e propria linea politica, procede in modo incrementale e fronteggia l’opposizione con il battibecco quotidiano sulle occorrenze del giorno. Ma si avvantaggia della inanità della sinistra, incapace di produrre idee unificanti e destinata a un ventennale silenzio: una volta la Dc governava il centro, Pci e Psi la periferia, mentre l’Italia di oggi ha un solo colore predominante.
Il penultimo criterio per valutare un governo riguarda il modo in cui affronta le inevitabili fratture interne e gli imprevisti. La pagella, in questo caso, è appena sopra la sufficienza. L’esecutivo sembra aver imparato a curare in anticipo le fratture interne; è riuscito a superare scogli come quello del superbonus e del Reddito di cittadinanza; ma ha impiegato troppo tempo ad affrontare il problema del trasporto urbano e dei taxi; non nasconde un certo spirito partigiano e non sa cogliere l’opportunità di collocarsi in una posizione collaborativa, che accentuerebbe il suo ruolo centrale, in presenza di imprevisti come le inondazioni.
Infine, questo governo gestisce poco e male la propria casa, non sa tenere in ordine il governo stesso, non riesce a valutare l’efficienza degli strumenti di cui dispone. Un indicatore rilevante è il modo in cui inzeppa, alla rinfusa, i decreti legge, ficcandovi dentro, con forza e in modo eccessivo, disposizioni eterogenee. Un secondo indicatore è il ritardo, messo in luce dal Servizio per la qualità degli atti normativi del Senato, nell’invio delle analisi di impatto della regolazione dei decreti legge prodotti dal governo stesso. Un altro, la sottovalutazione della «capacità» della amministrazione nella attuazione del Pnrr.