Aveva quarantcinque anni il giudice Amato quando cadde sotto i colpi del piombo nero.
A ucciderlo fu Gilberto Cavallini, a guidare la moto l’allora diciassettenne Luigi Ciavardini. La sua colpa era quella di stare indagando su quel vasto mondo di mezzo che caratterizza da da sempre il nostro Paese, seguendo l’esempio di Vittorio Occorsio, il suo predecessore ucciso, a sua volta, dal terrorismo nero la mattina del 10 luglio 1976, per l’esattezza per mano di Pierluigi Concutelli.
Dieci giorni prima di essere assassinato dai NAR aveva dichiarato davanti al CSM: “Ritengo di dover tutelare non solo la mia dignità, ma anche quella della funzione che esercito”.
Fu tradito, isolato, ostacolato in tutti i modi possibili e immaginabili, minacciato e persino insultato da un collega, ad esempio quando indagò sul figlio del giudice Alibrandi, ben comprendendo, perché era tutt’altro che un ingenuo, quanto fosse potente e vendicativa la piovra che condizionava il potere nella Capitale e nel Paese.
In quegli anni di terrorismo rosso e nero, di manovre occulte, di servizi segreti collusi e di di manovalanza criminale al servizio di menti raffinatissime ed eversive, Amato pagò il fatto di aver intuito troppo, di aver compreso prima e meglio degli altri quanto fossero correlati i vari “misteri” d’Italia, di aver proposto di incrociare i dati relativi al rapporto fra terrorismo nero e P2 e di essere giunto alla conclusione che nulla avvenisse per caso … leggi tutto